Civiltà
Questa è la Terra desolata
Renovatio 21 pubblica questi estratti del capolavoro di Thomas Stearns Eliot, il poema La Terra desolata (1922). Il testo, composto dal poeta dopo un esaurimento nervoso, è da molti considerato una vetta della letteratura moderna, e al contempo un lucido simbolo dell’uomo del XX secolo annegato nel mondo moderno
Rileggendolo oggi, vediamo che tanti immagini evocate qui parlano anche all’uomo del XXI secolo, e all’esistenza ai tempi della Pandemia globale.
Il titolo originale, The Wasteland, rimanda al tema della «terra desolata» (la terre gaste) tipico della poesia epica medievali. Questa terra guasta è un territorio devastato, sterile e mortale che separa i cavalieri dal Santo Graal; lo stesso Eliot è stato fortemente influenzato dalla studiosa di folklore Jessie Weston, in particolare della sua Indagine sul Sacro Graal (From ritual to romance, 1920), dove ipotizzava che le avventure dei cavalieri in cerca della santa coppa fossero la riedizione di antichi culti di fecondità, cioè celebrazioni di un’umanità che cercava di riportare ordine e prosperità dinanzi ai ciclici sconvolgimenti dell’universo.
Il mondo moderno, quel XX secolo di cui il poeta aveva vissuto il primo ventennio, mostrava già i segni di una crisi che avrebbe portato a catastrofi ed ecatombi, e la Civiltà Occidentale già era sulla strada della desolazione, o, più propriamente, della sterilità.
Non sappiamo quale effetto provochi a chi ci segue la lettura di questi versi. Noi crediamo che solo chi ha ora il coraggio di affrontare la realtà della devastazione, e il suo ciclo eterno, possa avere le energie e la volontà di riportare l’equilibrio nell’universo.
Crediamo che la poesia aiuti, perché dobbiamo fortificare il «sangue che scuote i nostri cuori», cercare la salvezza materiale di cui hanno bisogno le nostre genti, vedere con certezza il deserto che ci si para dinanzi, e i demòni che ci sbarreranno la strada.
La terra desolata deve essere guarita. Siamo noi tutti a doverla attraversarla per ritrovare la fecondità della Vita.
I. La sepoltura dei morti
Aprile è il più crudele dei mesi
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
(…)
Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.
C’è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all’ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura
(…)
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
(…)
II. Una partita a scacchi
(…)
Un bosco enorme sottomarino nutrito di rame
Bruciava verde e arancio, incorniciato dalla pietra colorata,
Nella cui luce mesta un delfino scolpito nuotava.
(…)
Forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
E altri arbusti di tempo disseccati
Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
Scalpicciavano passi sulla scala.
(…)
«Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa»
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
III. Il sermone del fuoco
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie
S’afferrano e affondano dentro la riva umida. Il vento
Incrocia non udito sulla terra bruna. Le ninfe son partite.
(…)
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
Ma alle mie spalle in una fredda raffica odo
Lo scricchiolo delle ossa, e il ghigno che fende da un orecchio all’altro.
Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione
Strascicando il suo viscido ventre sulla riva
Mentre stavo pescando nel canale tetro
Una sera d’inverno dietro il gasometro
Meditando sul naufragio del re mio fratello
E sulla morte del re mio padre, prima di lui.
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l’altro.
(…)
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Il fiume trasuda
Olio e catrame
Le chiatte scivolano
Con la marea che si volge
Vele rosse
Ampie
Sottovento, ruotano su pesanti alberature.
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
(…)
Poi a Cartagine venni
Ardere ardere ardere ardere
O Signore Tu mi cogli
O Signore Tu cogli
bruciando
IV. La morte per acqua
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
(…)
V. Ciò che disse il tuono
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po’ di pazienza
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz’acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c’è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
(…)
Cos’è quel suono alto nell’aria
Quel mormorio di lamento materno
Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
Qual è quella città sulle montagne
Che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell’aria c’erano torri
In questa desolata spelonca fra i monti
Nella fievole luce della luna, l’erba fruscia
Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Non ha finestre, la porta oscilla,
Aride ossa non fanno male ad alcuno.
(…)
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
L’ardimento terribile di un attimo di resa
Nelle nostre stanze vuote
Che un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare
Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
Che non si troverà nei nostri necrologi
O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
Nelle nostre stanze vuote
(…)
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
(…)
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano.
(…)
T.S. Eliot
Per questo collage di versi abbiamo utilizzato questa traduzione del poema reperibile in rete. Per chi può leggere nella lingua inglese, che a nostro giudizio rende mille volte di più il fascino rapinoso di questo componimento, il testo originale è possibile trovarlo qui.