Pensiero
Professore di studi bellici avverte: molti Paesi europei si trovano in uno stato «pre-guerra civile»

Uno dei massimi esperti studi bellici di guerra ha lanciato l’allarme: molti paesi europei sono sull’orlo della guerra civile e potrebbero aver già superato il punto di non ritorno. Lo riporta Modernity News.
David Betz, professore di guerra nel mondo moderno al King’s College di Londra, afferma che la sua ricerca dimostra che esiste una probabilità statisticamente significativa che entro cinque anni scoppi una guerra civile in un importante paese europeo, con una concreta possibilità che il conflitto possa estendersi alle nazioni vicine.
Parlando con il documentarista Andrew Gold, Betz ha inoltre osservato che probabilmente è troppo tardi per impedire che la situazione in Europa «peggiori molto e che i governi potrebbero solo prepararsi meglio all’inevitabile.
«Probabilmente eviterei le grandi città. Ti suggerirei di ridurre la tua esposizione alle grandi città, se puoi», esortò Betz con tono gelido. «Non c’è niente che possano fare, è insito. Abbiamo già superato il punto di non ritorno, secondo la mia stima… abbiamo superato il punto in cui si verifica una disfatta politica. Abbiamo superato il punto in cui la politica normale è in grado di risolvere il problema».
Betz ha sottolineato che «quasi ogni possibile soluzione da qui in poi, a mio avviso, implica una qualche forma di violenza».
«Qualsiasi cosa il governo cerchi di fare a questo punto… puoi risolvere un tipo di problema, ma nel farlo aggraverai un altro tipo di problema, e tornerai alla violenza», ha continuato il professore.
«Secondo me la questione è come mitigare i costi, non come prevenire il risultato, mi dispiace dirlo… Non ho sentito una soluzione politica credibile e non vedo una sola figura politica che sia credibile nel ruolo di salvatore nazionale, o anche solo incline a farlo», ha aggiunto.
«La conclusione è che non credo che ci sia al momento una soluzione politica a questa situazione, che consista nel far sì che tutto vada per il meglio dopo un periodo di difficoltà», conclude cupamente Betz, osservando «Le cose vanno male ora, ma peggioreranno molto».
«Spero che poi la situazione migliori, ma prima di arrivarci bisognerà attraversare un periodo in cui la situazione è molto peggiore», ha previsto.
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In sostanza, è una spirale discendente. «Capisco che ciò che dico è estremamente spiacevole», ha detto Betz, aggiungendo: «voglio solo dire, care élite, che le conseguenze delle vostre azioni sono arrivate».
Betz osserva che il Regno Unito, la Francia e la Svezia sono tutti già afflitti da una «terribile instabilità sociale», un «declino economico» e una «pusillanimità delle élite», tutti storicamente precursori di conflitti.
Lo studioso stima che una guerra civile nel Regno Unito, che ora ha una popolazione di 70 milioni di persone, potrebbe causare decine di migliaia di morti.
«Le società più instabili sono moderatamente omogenee», ha osservato in precedenza Betz, notando che i gruppi di maggioranza tradizionali sentono che il loro status è minacciato o sta per essere completamente sostituito e sono più propensi a lottare per mantenere il predominio.
Sebbene la ricerca abbia indicato che il Regno Unito è sulla buona strada per diventare un paese abitato da una minoranza bianca entro pochi decenni, Betz prevede che ciò non accadrà realmente perché un numero sufficiente di britannici nativi potrebbe trasferirsi per invertire la tendenza.
«Si potrebbe sostenere un’argomentazione del genere, ma credo che si tratti di fare troppe supposizioni sulla probabile reazione delle persone. Non credo che la società sia così inerte», ha detto il Betz, aggiungendo: «non credo che gli inglesi vogliano essere sfrattati dal proprio Paese… Credo che la gente lo rifiuterà. E la gente sta già percependo l’urgenza di agire per impedire la perdita di qualcosa a cui tiene molto».
Betz ha inoltre affermato che «l’esistenza di questa idea di Inghilterra… è seriamente in pericolo… come le persone reagiranno a questo è la questione. C’è un grave rischio che reagiscano in modi che ci porteranno fuori scala. Spero che ciò non accada, ma siamo in un momento molto pericoloso».
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Eutanasia
Ecco l’eutanasia dell’Italia geografica. Per far nascere le smart city che ci controlleranno

L’eutanasia è l’eufemismo dietro cui si nasconde la soppressione legalizzata, a spese del contribuente e col patrocinio dello Stato, degli individui considerati inutili, o improduttivi, o semplicemente troppo costosi – e poi magari anche (visto che ci siamo) di quelli ritenuti scomodi o pericolosi per la stabilità sociale.
Per convincere l’opinione pubblica della bontà della operazione è bastato spacciare l’oppio della pietà fasulla – il presunto bene della vittima, il «miglior interesse» del soggetto da eliminare (ricordiamo il «best interest» stabilito da ospedali e giudici per Alfie) – così che, addormentata insieme alla coscienza anche la ragione, uno non sia più in grado di distinguere un atto di misericordia da un delitto; e di capire come si imbocchi così la via maestra per consegnare all’arbitrio del potere non solo la vita di chi sia stato indotto in qualche modo a rinunciarvi, ma anche quella di chi la sua la vorrebbe vivere fino in fondo. Il nuovo concetto da assimilare è che la dignità dell’uomo si identifica con il suo benessere, e questo vada inteso come autonomia psicofisica ed economica.
Lo Stato cavalca da decenni il programma della eutanasia per gli italiani. Lo fa attraverso le trombe della propaganda mediatica e, giuridicamente, attraverso l’attacco concentrico – mosso insieme dalla politica e dalla magistratura, dalle alte cariche istituzionali tanto quanto dalla chiesa – alle norme di garanzia poste dal fu legislatore a presidio del bene sommo della vita, come quella che punisce l’aiuto al suicidio o l’omicidio del consenziente.
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Ma lo Stato ha segnata in agenda anche l’eutanasia dell’Italia stessa. Cioè del corpo e dell’anima di una nazione.
Non è una frase ad effetto. Basta leggere il recente documento governativo intitolato «Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027» per rendersi conto che vengono utilizzati la stessa retorica e lo stesso gergo con i quali si promuove l’amorevole accompagnamento a morire di un essere umano.
«Aree interne» è un’espressione vaga e asettica con cui si definiscono 4.000 comuni che, situati in tutte le Regioni italiane, condividono la caratteristica di trovarsi a una certa distanza dai grandi agglomerati urbani, dove nel frattempo sono stati radunati tutti i servizi essenziali quali scuole, ospedali, centri commerciali, mezzi pubblici (e perché sennò starebbero implacabilmente chiudendo tante piccole strutture territoriali floride e funzionanti?).
Non ci vive poca gente, nelle aree interne: nel complesso, circa 13 milioni di italiani, cioè ben il 23% della popolazione, un cittadino della Repubblica su quattro.
Su questi luoghi per anni è aleggiata la fumosa retorica del «rilancio», con qualche parvenza di investimento capace sulla carta di infondere loro rinnovata vitalità. Ora non più. La vera volontà dello Stato si è slatentizzata con la pronuncia e la pubblicazione di una sentenza di condanna a morte. «Accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile». «Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza». «Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento». Sta tutto scritto nel documento PNSAI.
Impossibile non notare qui l’assonanza totale, testuale, letterale, con il linguaggio dell’eutanasia.
È proprio così: lo Stato moderno non persegue soltanto la dolce morte dei suoi cittadini, ma perfino quella di ampie porzioni del Paese reale. Un’eutanasia collettiva, un’eutanasia geografica, un’eutanasia civile. Lo Stato spopolatore – un concetto che avrebbe dovuto essere chiaro da sempre ai sedicenti pro-life se fossero intelligenti, o anche solo onesti – ora non ha più il pudore di nascondersi: in nome del popolo italiano, stabilisce che almeno un quarto della propria terra vada deumanizzata, devitalizzata, cancellata. Per il suo bene e per il bene della collettività.
E che quel che resta della popolazione, secondo il grande imperativo dell’era kalergica, vada fatta migrare. Migranti interni: cioè, secondo definizione, «sfollati». Da mettere dove? Da mettere nelle megalopoli.
Perché la città metropolitana (nome ebete che per qualche ragione è stato affibbiato ad alcune province) è ben più di un insieme di palazzi e di persone, di vie e di piazze e di chiese: è forse il più grande progetto di ingegneria sociale del XXI secolo.
La città è diventata il luogo deputato a concentrare – sì, proprio come nei campi – la popolazione, al fine di controllarla. Quando parlano di smart city, o città di 15 minuti, intendono precisamente questo: un luogo di biosorveglianza elettronica totale sull’essere umano, nella prospettiva del credito sociale. E pazienza per quelli, che non sono nemmeno pochi, che avrebbero voluto scappare in mezzo ai monti o alla campagna per sfuggire alla angoscia e al logorio della morsa urbana. Se la mettessero via.
C’è da capire che non si tratta di una improvvisa levata di ingegno di un governo in cerca di sopravvivere. Si tratta dell’ossequioso tributo a un piano globale risalente che, nel periodo in cui ancora i disegni egemonici di una élite predatrice e assassina erano al di fuori dei radar dei più, si chiamava Agenda 21, il «piano d’azione per lo sviluppo sostenibile» uscito dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992.
In quegli anni, una immobiliarista californiana di nome Rosa Koire notò come il suo stesso lavoro (che prevedeva la vendita di abitazioni nelle zone extraurbane dove la tipica famiglia piccola-medio borghese americana ambisce a farsi la casetta) fosse profondamente intaccato dalla trasformazione in atto, con tanto di veri e propri agenti sguinzagliati nelle istituzioni locali e nel tessuto sociale per assicurare ad essa buon fine. Il suo libro Behind the Green Mask: U.N. Agenda 21 («Dietro la maschera verde: l’Agenda 21 dell’ONU») dettaglia l’orrore di questo immenso progetto concepito a tavolino per deportare la popolazione rurale e schiacciarla nelle città.
L’abbandono programmato di ciò che si trova al di fuori dallo spazio cittadino produce risultati visibili ad occhio nudo: borghi fantasma, case diroccate, rovine edilizie, strade che spariscono conquistate dalla natura.
Laddove c’era l’uomo arrivano le bestie feroci. Ricchi oligarchi comprano distese di terreno per popolarle di grandi predatori, deterrente notevole per le famiglie appassionate di pic-nic. Se ci pensiamo, non è uno scenario molto lontano da quanto stiamo vedendo in Italia con il grande ritorno dell’orso o del lupo: la bestia selvatica può essere a suo modo uno strumento di eutanasia geografica, di cancellazione dell’umanità dalle «aree interne».
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In qualche maniera era tutto già scritto. Eppure, si rimane sconvolti dalla brutalità con cui il governo espone il piano di spopolamento di aree enormi, che hanno – tutte! – alle proprie spalle una storia millenaria fatta di terra e di uomini, di racconti e di spirito. Del resto, la Finestra di Overton sullo Stato, e il Superstato, che ci considera superflui è aperta da tempo: da tempo il malthusianesimo, più o meno camuffato, fa da colonna sonora ai programmi delle scuole di ogni ordine e grado dove si inculca un senso terminale dell’esistenza e si pratica subdolamente (ma neanche troppo) il culto della morte.
Ora è spalancata anche un’altra finestra, sulla necessità di vivere sotto una rete capillare di controllo biotecnologico, alla quale la tessera verde ci ha abituato e che l’euro digitale renderà impossibile da scansare.
Col favore dell’estate e del silenzio, sono proclamati terminali, a cuore battente, quattromila organismi sociali giudicati per decreto senza speranza.
Vogliono l’eutanasia dell’essere umano e l’eutanasia delle comunità nelle quali si esprime. L’eutanasia della geografia e della memoria di un Paese intero. Anche e soprattutto, vogliono l’eutanasia della sua libertà.
L’Occidente, punto cardinale del tramonto, interpreta alla lettera il suo nome e il destino che vi è scritto.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
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