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Epidemie

Perché è ora di riaprire scuole ed asili

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Sono passati più di due mesi da quando le Regioni più colpite dall’emergenza COVID-19 hanno deciso di chiudere senza pietà tutti i servizi educativi: asili nido, scuole materne, scuole più in generale. 

 

Dopo poco ha fatto seguito il Governo, chiudendo tutto, incluse le università. 

 

Lo Stato e le Regioni, sostanzialmente, hanno scaricato la palla tutta addosso alla famiglie, che da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, si sono trovate con i figli a casa, abbandonate da tutti i servizi per i quali hanno sempre pagato le tasse che il nostro Paese affibbia al cittadino.

Lo Stato e le Regioni, sostanzialmente, hanno scaricato la palla tutta addosso alla famiglie, che da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, si sono trovate con i figli a casa, abbandonate da tutti i servizi per i quali hanno sempre pagato le tasse che il nostro Paese affibbia al cittadino

 

Non siamo certo dei fan della scuola pubblica, e nemmeno di quel modello di famiglia che la società moderna ha voluto creare, dove i genitori fanno figli (pochi) per piazzarli all’asilo quando ancora nemmeno camminano. Madri costrette a lavorare per pagare le rette dell’asilo: un discreto paradosso, insomma.

 

Allo stesso tempo non possiamo non vedere nelle decisioni prese a fine febbraio qualcosa di veramente ingiusto, perché non si è lasciato nemmeno il tempo alle famiglie lavoratrici di organizzarsi, né tanto meno si è offerto loro un aiuto, un supporto, qualcosa di alternativo per far fronte all’emergenza organizzativa.

 

In quel frangente certamente i dati disponibili erano pochi, e nello tsunami che stava travolgendo l’Italia nessuno, fra virologi e politici, ci aveva veramente capito qualcosa — e a dire il vero nemmeno adesso a quanto pare.

 

Non si è lasciato nemmeno il tempo alle famiglie lavoratrici di organizzarsi, né tanto meno si è offerto loro un aiuto

È però indubbio che il danno venutosi a creare non riguarda solo i genitori, ma anche e soprattutto i bambini, scaraventati in una dimensione piuttosto confusa e provandoli, fra chiusura di asili e quarantena forzata, di ogni spazio sociale. I bambini sono stati senza dubbio i veri dimenticati. 

 

Nelle città ci sono creature rimaste chiuse in appartamento per più di due mesi. Se pensiamo poi ad un dato inconfutabile, ovvero alla mancanza di famiglie numerose e, quindi, di bambini sempre più soli, privi di fratellini o sorelline con cui giocare, o magari con divari di età che rendono difficile l’aggregazione nelle varie forme di gioco, la faccenda si fa ancora più drammatica.

 

Come recentemente ricordato, gli asili e le scuole chiudevano ex abrupto per evitare ogni spazio di pubblica aggregazione, mentre le RSA rimanevano indisturbatamente aperte senza alcun tipo di interesse o intervento pratico per evitare il peggio. Per quanto riguarda le seconde, sapevamo come sarebbe andata perché i dati mondiali parlavano già chiaro, fissando le percentuali di mortalità sopra gli ottant’anni oltre il 20% (dato al ribasso); per quanto riguarda i primi si sapeva ancora poco, ma ora si sa molto di più. 

 

Gli asili e le scuole chiudevano ex abrupto per evitare ogni spazio di pubblica aggregazione, mentre le RSA rimanevano indisturbatamente aperte senza alcun tipo di interesse o intervento pratico per evitare il peggio

Per quanto si siano verificate nel mondo alcune morti di bambini infettati da SARS-CovV2, e per quanto i contagi non siano mancati, i dati complessivi sono certamente ottimistici. In Italia i neonati infettati sono stati poco più di 20, ad esempio, e tutti sono guariti senza grossi problemi. Lo stesso è valso per bambini più grandi.

 

Pensiamo agli studi condotti dal Dott. Andrea Crisanti presso Vo’ Euganeo, provincia di Padova, dal 21 febbraio scorso diventato il primo cluster di coronavirus in Veneto, dove tutta la popolazione è stata sottoposta al tampone naso-faringeo riuscendo così ad individuare anche i soggetti asintomatici, isolandoli ed arginando il contagio: il risultato di questi studi fatti sul campo hanno dimostrato che i bambini dagli 0 ai 10 anni non hanno contratto il virus:

 

«I bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano», afferma Crisanti.

 

«I bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano» afferma il dottor Crisanti.

Un altro studio a supporto della tesi di Crisanti è stato condotto in Francia, dove un bambino di nove anni, nonostante avesse contratto il COVID-19, non ha contagiato nessuno. 

 

Il primo caso di coronavirus in Francia si verificò infatti a fine gennaio, nel comune di Contamines-Montjoie, un paese di un migliaia di abitanti a ridosso del Monte Bianco, in Alta Savoia. Steve Walsh, uomo d’affari di Hove, divenne il primo britannico a essere positivo al coronavirus dopo aver partecipato a una conferenza a Singapore nel gennaio scorso.

 

Walsh raggiunse gli amici in montagna, nello chalet di Contamines abitato da due famiglie: una residente nel paese, e un’altra venuta in vacanza dall’Inghilterra. In tre giorni, dal 25 al 28 gennaio, l’uomo contaminò 12 persone, tra le quali il bambino di nove anni che frequenta la scuola a Contamines e partecipa a corsi anche in altri istituti delle vicine Saint-Gervais e Thonon-Les-Bains. 

 

In Francia, dove un bambino di nove anni, nonostante avesse contratto il COVID-19, non ha contagiato nessuno

Le autorità, attraverso un’indagine condotta da Public Health France, rivelarono che il bambino non trasmise a nessuno dei suoi fratelli né a chiunque altro sia entrato in contatto con lui il virus. Risalendo a tutti i contatti che il bambino aveva avuto in quel periodo, furono 172 le persone individuate e messe in quarantena a scopo preventivo e cautelativo. Nessuna di esse, però, risultò poi contagiata.

 

Il rapporto sull’indagine fu pubblicato su Clinical Infectious Diseases, dimostrando, attraverso vari test, come il bambino fosse stato infettato da Sars-Cov-2, il virus che causa Covid-19, e anche dall’influenza e da un comune virus del raffreddore. Mentre entrambi i suoi fratelli hanno preso le ultime due infezioni, ovvero influenza e rino-faringite, nessuno di loro contrasse il nCoV.

 

«Un bambino, co-infettato da altri virus respiratori, ha frequentato tre scuole mentre era sintomatico, ma non ha trasmesso il virus, suggerendo potenziali diverse dinamiche di trasmissione nei bambini», afferma Kostas Danis, un epidemiologo di Public Health France all’agenzia di stampa francese AFP.

 

«I bambini potrebbero non essere una fonte importante di trasmissione di questo nuovo virus»

I ricercatori francesi furono concordi nell’affermare che, poiché in genere i bambini presentano solo lievi sintomi, possono trasmettere il virus molto meno degli adulti infetti: «I bambini potrebbero non essere una fonte importante di trasmissione di questo nuovo virus».

 

La risposta immunitaria dei bambini è infatti nettamente diversa rispetto a quella di adulti e anziani, visto che i primi sono capaci di eliminare molto più rapidamente le infezioni, in particolare quelle nuove, e di presentare solo sintomi molto lievi, come si è potuto constatare nell’arco del picco epidemico anche qui in Italia. 

 

Gli studi condotti sul caso dell’Alta Savoia sono gli stessi che hanno in qualche modo convinto Macron a riapparire dall’11 maggio le scuole dell’infanzia e le scuole primarie, seppur su base volontaria e a discrezione delle autorità locali.

 

Dietro a questa scelta c’è stata la spinta del professor Jean-François Delfraissy, presidente del Consiglio scientifico COVID-19 e stretto collaboratore di Macron per far fronte all’emergenza sanitaria. L’immunologo francese ribadiva già in tempi non sospetti che nessuna scuola in Francia sembrava essere stata fonte di focolaio circa l’infezione. Già quando chiuse le scuole in via precauzionale, Macron spiegò che sulla base delle conoscenze scientifiche presenti in quel periodo, i bambini non parevano essere soggetti in grado di ammalarsi gravemente, pur potendo essere potenziali untori.

 

Con il passare del tempo, e soprattutto dopo il caso Alta Savoia, anche questa convinzione venne accantonata, quantomeno in Francia. 

 

La pneumo-pediatra Isabelle Sermet-Gaudelus dell’ospedale Necker di Parigi, rilasciando un’intervista al Figaro, dichiara che i bambini positivi al COVID erano pochissimi:

«Sappiamo che ci sono meno test positivi rispetto agli adulti nei bambini che vengono in ospedale».

 

«Sappiamo che ci sono meno test positivi rispetto agli adulti nei bambini che vengono in ospedale».

 

Attualmente ci sono altri 15 studi portati avanti in Francia ed effettuati sulla popolazione più giovane per capire come reagisce realmente al COVID-19, e per confermare o meno la nuova ipotesi sulla scarsa contagiosità dei bambini.

 

Probabilmente non solo i bambini presentano sintomi meno gravi, ma a quanto pare contraggono – e quindi trasmettono – il virus meno di quanto si potesse credere  inizialmente

Più o meno sulla stessa lunghezza d’onda si situa anche uno studio cinese pubblicato il 24 febbraio scorso sul Journal of the American Medical Association, che si basa su circa 44.000 casi confermati COVID-19: fra questi i bambini contaminati di età inferiore a 10 anni sono meno dell’1%, e i giovani dai 10 ai 19 anni sono l’1%.

 

Da tutto questo si evince che probabilmente non solo i bambini presentano sintomi meno gravi, ma a quanto pare contraggono – e quindi trasmettono – il virus meno di quanto si potesse credere  inizialmente.

 

Ecco un valido motivo, insieme a quello dettato dalle evidenze dei dati clinici che confermano un depotenziamento del virus, per riaprire subito asili, scuole, servizi educativi e ogni genere di parco giochi, cercando tuttalpiù soluzioni semplici affinché non si creino assembramenti da parti di adulti — quelli che, permetteteci di dire, non paiono essere affatto mancati a Milano per la solenne celebrazione del costosissimo ritorno a casa di Silvia Romano. 

 

Cristiano Lugli

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Epidemie

La Russia sottoporrà a test per l’epatite tutti i lavoratori immigrati. E l’Italia?

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A partire da marzo 2026, la Russia imporrà ai lavoratori migranti di sottoporsi a test per l’epatite B e C, ampliando le attuali disposizioni di screening medico. Le nuove regole si applicheranno ai cittadini stranieri e agli apolidi che entrano in Russia per lavoro, oltre a coloro che richiedono lo status di rifugiato o asilo temporaneo.

 

Le visite mediche sono obbligatorie per i migranti: senza di esse, non è possibile ottenere permessi di lavoro, residenza temporanea o permanente. I lavoratori migranti devono completare gli esami entro 30 giorni dall’arrivo, mentre chi non intende lavorare ha 90 giorni di tempo. Attualmente, gli screening includono test per droghe e malattie gravi come HIV, tubercolosi, sifilide e lebbra.

 

Le modifiche al processo di controllo sanitario per gli stranieri in visita sono state proposte all’inizio dell’anno da un gruppo di lavoro sulle politiche migratorie, guidato dalla vicepresidente della Duma di Stato, Irina Yarovaya. La vicepresidente ha chiarito che l’obiettivo è rafforzare il monitoraggio sanitario degli stranieri in arrivo e prevenire la diffusione di malattie pericolose.

 

I lavoratori migranti sono fondamentali per l’economia russa, occupando ruoli chiave in settori come edilizia, agricoltura e servizi. Milioni di migranti, soprattutto dall’Asia centrale, sono attratti da salari più alti rispetto ai loro paesi d’origine. Tuttavia, questo afflusso ha sollevato dibattiti su salute pubblica e stabilità sociale. Per questo, le autorità russe hanno introdotto rigidi controlli sanitari e requisiti per i migranti, cercando di bilanciare i benefici economici con la sicurezza sanitaria.

 

Nell’ultimo anno, la Russia ha anche intensificato la lotta contro l’immigrazione illegale. Il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che istituisce una nuova agenzia statale all’interno del Ministero dell’Interno, incaricata di migliorare la gestione dei flussi migratori.

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Il Cremlino ha dichiarato che l’iniziativa punta a razionalizzare il processo migratorio, promuovere il rispetto delle leggi russe tra i migranti e ridurre le attività illegali.

 

In Italia la situazione epidemiologica dell’immigrazione è un grande tabù del discorso pubblico.

 

«In base ai dati epidemiologici in nostro possesso, risulta che in Italia il 34,3% delle persone diagnosticate come HIV positive è di nazionalità straniera» diceva in un’intervista a Renovatio 21 il dottor Paolo Gulisano sette anni fa. «Considerato che gli stranieri rappresentano circa il 10% della popolazione italiana, questo dato vuole dire che la diffusione dell’HIV tra gli stranieri è oltre il triplo che negli italiani».

 

«Un dato che fa pensare. Molti immigrati provengono da Paesi dove la diffusione dell’HIV, così come quella della TBC, è molto più alta che in Europa. Basta far parlare i dati. Il numero dei decessi correlati all’AIDS nel 2016 per grandi aree è il seguente: Africa Sud-Orientale: 420 mila; Africa Centro-Orientale: 310 mila; Nord Africa e Medio Oriente: 11 mila; America Latina: 36 mila, più il dato dei soli Caraibi che è di 9400. Europa dell’Est e Asia centrale: 40 mila; Europa Occidentale e Nord America: 18 mila; Asia e Pacifico: 170 mila. Ora, la lettura di questi numeri ci fornisce delle evidenze molto chiare».

 

«È quindi chiaro quali siano i rischi di una immigrazione di massa, incontrollata anche dal punto di vista sanitario, e i rischi legati al fatto che un numero impressionante di immigrate africane viene gettato nel calderone infernale della prostituzione, che diventa veicolo di diffusione di malattie veneree».

 

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Epidemie

Paura e profitto, dall’AIDS al COVID

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton ha paragonato la pandemia di COVID-19 all’epidemia di AIDS, definendola una «seconda versione» della stessa narrazione sulla salute pubblica. Entrambe le epidemie includevano l’uso improprio dei test PCR, la soppressione di scienziati dissenzienti e le motivazioni finanziarie alla base del «terrore della peste», ha affermato Shenton in un’intervista con Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense, su CHD.TV.   La pandemia di COVID-19 è stata un evento che si verifica una volta ogni secolo o ha avuto parallelismi nella storia recente? Per la regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton, la pandemia è stata la «seconda ripresa» dell’epidemia di AIDS.   «È stato così angosciante dover affrontare il COVID», ha detto Shenton a Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense (CHD), durante un’intervista di lunedì su CHD.TV. «Se solo avessimo potuto vincere la battaglia contro l’AIDS, non avremmo avuto il COVID».   Shenton, produttore del documentario del 2011 Positivamente Falso: Nascita di un’eresia e autore del libro del 1998 «Positively False: Exposing the Myths around HIV and AIDS», si è unito alla Holland per discutere delle somiglianze tra l’epidemia di COVID-19 e quella di AIDS.   Entrambe le epidemie includono l’uso inappropriato dei test PCR per determinare l’infezione, la somministrazione di trattamenti medici che si sono rivelati mortali per molti pazienti, il coinvolgimento di personaggi come il dottor Anthony Fauci e le ripercussioni affrontate dagli scienziati che hanno messo in discussione la narrazione dominante, ha affermato Shenton.   «Una delle cose straordinarie e sorprendenti di tutto questo… è quanto siano simili molte delle dinamiche dell’epidemia di AIDS a quelle dell’epidemia di COVID», ha affermato Shenton.   Secondo Shenton, le risposte all’AIDS e al COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», una strategia «utilizzata da organizzazioni che guadagnano enormi quantità di denaro attraverso le malattie infettive, definendo le cose infettive».   Shenton ha affermato di pensare che il suo documentario avrebbe contribuito a cambiare la narrazione dominante sull’AIDS, ma non è riuscito a superare i potenti interessi che traggono profitto dallo status quo.   «Spesso pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma non è così», ha detto Shenton.   Tuttavia, il documentario ha prodotto un archivio di 35 anni di studi scientifici, interviste video e altri documenti. Shenton ha donato la biblioteca informativa al CHD.   «Metteremo a disposizione un archivio delle sue migliaia e migliaia di pagine sull’AIDS», ha affermato Holland. Si prevede che i documenti saranno accessibili nei prossimi mesi.

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Le opinioni dissenzienti sull’AIDS «abilmente represse per decenni»

Shenton era una reporter della BBC, l’emittente pubblica nazionale del Regno Unito, quando sviluppò il lupus indotto da farmaci, dopo essere stata sottoposta a un’eccessiva terapia farmacologica in Spagna negli anni ’70.   «Mi hanno dato tutto quello che c’era scritto nel libro», ha detto Shenton. «Certo, sono imploso e mi sono sentito gravemente male. Sono stato al Westminster Hospital per due mesi. Sono quasi morto».   L’esperienza ha suscitato in lei l’interesse per le indagini sulle lesioni causate dai trattamenti medici.   In seguito è entrata a far parte dell’emittente nazionale britannica Channel 4, producendo una serie di documentari, Kill or Cure. La serie si concentrava sulla riluttanza delle grandi aziende farmaceutiche a ritirare trattamenti pericolosi o inefficaci. «Quello mi ha davvero dato la carica», ha detto Shenton.   Nei primi anni ’80, Shenton e il suo produttore vennero a conoscenza della ricerca del dottor Peter Duesberg, un biologo molecolare tedesco che sosteneva che l’HIV non causava l’AIDS.   Iniziò a mettere in discussione le narrazioni dominanti. «Abbiamo continuato a realizzare 13 documentari sull’AIDS», ha detto Shenton.   Il documentario Positively False si concentra sulla «manipolazione delle aziende farmaceutiche e delle organizzazioni [mediche] interessate in tutto il mondo, che manipolano il terrore della peste», ha affermato Shenton.   Il film rivela «la scienza imperfetta che circonda l’AIDS e le conseguenze di seguire ipotesi sbagliate», ha affermato Shenton nell’introduzione. Tra queste, la convinzione che l’AIDS sia infettivo, che sia causato dall’HIV e che l’HIV sia contagioso.   «Molti scienziati e ricercatori non sono d’accordo. Queste opinioni sono state abilmente represse per decenni dall’ortodossia scientifica prevalente e dai media mainstream», ha affermato Shenton nel documentario.   I ricercatori che mettevano in discussione la narrazione dominante sull’HIV/AIDS sono stati repressi e messi a tacere, così come gli scienziati che mettevano in discussione la narrazione prevalente sul COVID-19, ha affermato Shenton.

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Test PCR «completamente inutili» per AIDS e COVID

In entrambi i focolai, sono stati utilizzati test PCR per determinare l’infezione, ha affermato.   «Il test [PCR] è completamente e totalmente inutile», ha detto Shenton. I test non possono «distinguere tra particelle infettive e non infettive».   Shenton ha affermato che i diversi Paesi utilizzano standard diversi per determinare una diagnosi positiva di HIV.   «Si potrebbe fare il test per l’HIV, per esempio in Sudafrica, e risultare positivi, e volare in Australia e risultare negativi», ha detto Shenton.   All’inizio dell’epidemia di AIDS, molti scienziati ritenevano che fattori legati allo stile di vita, tra cui la dipendenza da droghe ricreative e l’uso di nitriti come i «poppers», fossero la causa dell’AIDS a causa dei danni che provocavano al sistema immunitario.   Allo stesso tempo, i funzionari sanitari e i media hanno erroneamente attribuito la diffusione della malattia in Africa all’AIDS, quando in realtà era la mancanza di accesso all’acqua potabile a far ammalare le persone, ha detto Shenton.   Queste narrazioni sono cambiate quando le agenzie sanitarie governative hanno iniziato a interessarsi alla ricerca sull’AIDS, ha affermato Shenton.   «Quando il CDC [Centers for Disease Control and Prevention] è intervenuto e ha riunito tutti i suoi rappresentanti per esaminare questo gruppo di giovani uomini che erano molto, molto malati… l’intera teoria secondo cui l’AIDS era causato dallo stile di vita o dalla tossicità è scomparsa», ha detto Shenton.

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Fauci ha promosso trattamenti mortali per AIDS e COVID

Shenton ha affermato che i trattamenti medici dannosi sono stati al centro sia dell’epidemia di AIDS che di quella di COVID-19.   Nel 1987, la Food and Drug Administration statunitense approvò l’AZT (azidotimidina) per le persone sieropositive. L’AZT si rivelò pericoloso per molti pazienti affetti da AIDS. Durante la pandemia di COVID-19, i vaccini e il remdesivir hanno danneggiato le persone.   E in entrambi i casi – l’epidemia di AIDS e la pandemia di COVID-19 – Fauci ha svolto un ruolo chiave.   «Eravamo profondamente, profondamente critici nei confronti di Fauci, per il modo in cui ha gestito gli studi multicentrici di fase due sull’AZT. Voglio dire, erano corrotti, e tutta la prima fase è stata finanziata dall’azienda farmaceutica [Burroughs Wellcome, ora GSK ], e avevano dei rappresentanti, e questo è noto attraverso i documenti sulla libertà di informazione, che sono andati lì e hanno portato a casa i risultati del gruppo trattato con il farmaco e del gruppo placebo, eliminando gli effetti collaterali nel gruppo trattato con il farmaco» ha detto la Shenton.   Nel film Positively False, diversi scienziati e ricercatori hanno spiegato come l’AZT impedisca la sintesi del DNA, impedisca la replicazione delle cellule e contribuisca alla generazione di cellule cancerose.   Tuttavia, secondo il documentario, i pazienti che mettevano in dubbio la sicurezza e l’efficacia dell’AZT venivano stigmatizzati e la loro sanità mentale veniva messa in discussione.   Holland ha fatto riferimento al libro del 2021 del Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr., The Real Anthony Fauci : Bill Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health che contiene una sezione sul lavoro di Fauci durante l’epidemia di AIDS.   «Solleva tutti questi interrogativi il fatto che in realtà sembra la stessa truffa e gli stessi giocatori… non è cambiato molto», ha detto Holland.

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Il «terrore della peste» esisteva molto prima dell’AIDS o del COVID

Secondo Shenton, le epidemie di AIDS e COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», che è esistito nel corso della storia.   All’inizio del XX secolo, negli Appalachi, fu diagnosticata un’epidemia di pellagra. La malattia, che causava una mortalità diffusa e si diceva fosse infettiva, si rivelò essere una carenza nutrizionale.   «Negli Appalachi, la popolazione molto povera viveva con una dieta completamente priva di nutrienti», ha detto Sheton. «Si trattava di una varietà di mais, ma lo cucinavano eliminandone tutti i nutrienti e dipendevano solo da quello».   La gente aveva così tanta paura di contrarre la pellagra che coloro che si pensava fossero infetti venivano ricoverati in istituti o «gettati fuori dalle navi», ha affermato.   Un infettivologo di New York, il dottor Joseph Goldberger, stabilì che la pellagra non era contagiosa, ma era causata da malnutrizione e carenza di niacina (vitamina B), ha detto Shenton. Fu emarginato per le sue scoperte.   «È stato ridotto allo stato laicale, privato dei fondi, ridicolizzato. È morto. E cinque anni dopo la sua morte, hanno detto che aveva assolutamente ragione: non era contagioso, era tossico», ha detto.   Secondo Shenton, in Giappone dagli anni ’50 agli anni ’70 la mielo-ottico-neuropatia subacuta (SMON) era comune.   «Centinaia di migliaia di giapponesi sono rimasti paralizzati dalla vita in giù e ciechi, e nessuno riusciva a capire il perché. E ovviamente pensavano: “Oh, è un virus”», ha detto.   Un neurologo giapponese, il dottor Tadao Tsubaki, ha studiato i pazienti affetti da SMON e ha stabilito che la condizione non era infettiva, ma era causata da un farmaco antidiarroico ampiamente somministrato, il cliochinolo.   «Ci sono voluti 30 anni e squadre di avvocati per respingere in tribunale l’idea che la causa della SMON fosse un virus», ha affermato Shenton.   Michael Nevradakis Ph.D.   © 7 ottobre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.    

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Epidemie

Le restrizioni COVID in Spagna dichiarate incostituzionali, annullate oltre 90.000 multe

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Oltre 90.000 multe per violazioni delle norme anti-COVID sono state annullate dopo che la Corte costituzionale spagnola ha dichiarato incostituzionali le severe misure adottate nel 2020.

 

Secondo il quotidiano spagnuolo The Objective, al 3 settembre 2025 sono state revocate 92.278 sanzioni, in seguito alla sentenza che ha giudicato incostituzionali alcune disposizioni del decreto sullo stato di emergenza del 2020, in vigore durante il primo lockdown per il COVID-19.

 

Queste sanzioni rappresentano solo la prima tranche di multe destinate all’annullamento, con altre che probabilmente seguiranno. Durante il rigido lockdown del 2020, imposto con lo stato di allarme, sono state emesse oltre 1 milione di sanzioni a livello nazionale, con circa 1,3 milioni di persone multate per aver violato le restrizioni.

 

La Corte Costituzionale ha stabilito che alcune parti dell’articolo 7 del Regio Decreto 463/2020, relative al divieto generale di circolazione, comportavano una sospensione ingiustificata del diritto fondamentale alla libertà di movimento, andando oltre una semplice limitazione. Tale misura superava i limiti dello stato di allarme, secondo la Corte, che ha precisato che una restrizione così drastica sarebbe stata giustificabile solo con uno stato di emergenza più severo, soggetto a un iter parlamentare più rigoroso.

 

La sentenza si applica retroattivamente a tutte le multe emesse durante il lockdown del 2020, creando un notevole onere per l’amministrazione statale. The Objective riferisce che «l’applicazione è stata lenta e disuniforme a seconda delle regioni», suggerendo che i rimborsi potrebbero richiedere mesi o anni.

 

Il quotidiano sottolinea che i 92.278 casi annullati finora rappresentano «solo la punta dell’iceberg di una crisi normativa» derivante dalle severe politiche di lockdown imposte dal governo spagnolo nel 2020.

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Immagine di Javier Perez Montes via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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