Spirito
Mons. Viganò, omelia nella Festa di Cristo Re
Renovatio 21 pubblica questa omelia di monsignor Carlo Maria Viganò.
C’era una volta un Re. Così cominciavano le favole che sentivamo raccontarci da bambini, quando l’indottrinamento ideologico non era ancora giunto a corrompere i piccoli nella loro innocenza e si poteva serenamente parlare appunto di re, di principi e di principesse ed era normale pensare che almeno nel mondo delle fiabe vi potesse essere un ordine sociale non sovvertito dalla Rivoluzione.
Reami, troni, corone, onore, lealtà, cavalleria erano riferimenti che andavano aldilà del tempo e delle mode, proprio per la loro coerenza con il cosmos divino, con la gerarchia eterna e immutabile degli ordini celesti.
C’erano re anche nelle parabole con cui il Signore istruiva i suoi discepoli, e Re si proclamò Egli stesso dinanzi a Pilato, rivestito per scherno di un manto di porpora, coronato di spine e con una canna al posto dello scettro.
Come Re lo sbeffeggiarono i manigoldi, e come Re lo riconobbe il governatore della Giudea quando fece affiggere alla Croce la targa che indicava la ragione della Sua condanna a morte: Jesus Nazarenus Rex Judæorum. Il Sinedrio avrebbe voluto correggere quella scritta: Non scrivere: «Il re dei Giudei», ma: «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei» (Gv 19, 21).
Ed ancor oggi vi è chi vuole negare a Nostro Signore quel titolo che tanto disturba i Suoi nemici, per tutto ciò che esso implica. Ma proprio nel momento in cui gli empi scrollano da sé il giogo soave di Cristo e dichiarano apertamente la propria ribellione alla Sua sovrana autorità, essi sono costretti a colmare quel vuoto, esattamente come chi nega il vero Dio finisce per adorare gli idoli. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19, 15).
È ben triste vedere come le menti traviate, pur di non riconoscere una realtà evidente e salvifica, preferiscono farsi schiave di un potere ben inferiore, quale quello dello Stato, e di uno Stato invasore. D’altra parte, anche chi serve Satana è pronto a servire l’Anticristo come re e a riconoscere il suo regno, di cui il Nuovo Ordine Mondiale è inquietante preludio.
Ma non è questo, in definitiva, ciò che facciamo ogni volta che disobbediamo a Dio?
Non neghiamo a Colui che la detiene, per diritto divino e di conquista, quella signoria universale e assoluta, per poi attribuirla alle creature o usurparla noi stessi?
Non ci poniamo forse come supremi legislatori, ogniqualvolta pretendiamo di sostituirci a Chi sul Sinai ha consegnato a Mosè le tavole della Legge?
Non hanno fatto lo stesso i nostri Progenitori, quando hanno dato ascolto alle lusinghe del serpente e infranto l’ordine del Signore mangiando il frutto dell’albero.
O gli Ebrei nel deserto, quando hanno adorato il vitello d’oro?
La potestà regale è indissolubilmente legata alla divinità: i re di Israele e i sovrani delle nazioni cattoliche si consideravano vicari di Dio, rivestiti di un potere sacro, conferito con un rito quasi sacramentale.
L’esercizio dell’autorità regale – e più in generale di governo – deve essere quindi coerente con la volontà di Dio stesso, dal Quale essa promana. Questa coerenza implica il riconoscimento, da parte della pubblica autorità, della suprema potestà di Dio e l’obbligo di conformare le Leggi dello Stato alla Legge naturale e divina.
Chi crede di poter usare il potere dell’autorità – sia essa civile o ecclesiastica – per uno scopo diverso o addirittura opposto a quello per cui l’autorità è stata istituita da Dio, si illude miseramente, e il suo destino non sarà diverso da quello che la Provvidenza ha riservato ai tiranni e ai sovrani ribelli alla volontà divina.
Questo non vale solo per il potere temporale, ma anche – e massimamente – per il potere spirituale, che per la superiorità gerarchica dei fini è intrinsecamente superiore al potere temporale, e proprio per questo chi lo detiene deve ancor più fedelmente conformarsi a ciò che Dio ha insegnato e ordinato. E se è già di per sé un’incoerenza che chi è costituito in autorità non agisca nella propria vita privata conformemente ai principi della Fede e della Morale, è del tutto inaudito che tale incoerenza possa estendersi all’esercizio dell’autorità stessa.
Per questo le macchie che pesano sulla condotta personale di un Alessandro VI sono incomparabilmente meno gravi di quelle di un Papa che, pur avendo una vita non scandalosa, compia atti di governo contrari al fine del Papato. Ed oggi dobbiamo anche fare i conti con la realtà di un «papato» in cui gli scandali personali di Jorge Mario Bergoglio sono addirittura oscurati da quelli che costui commette in forza dell’autorità che gli è – almeno momentaneamente – riconosciuta.
Il Signore, che è un Dio geloso (Es 20, 5), vuole regnare sul Suo popolo, e questo regno lo esercita per il tramite di Suoi vicari nelle cose temporali e spirituali. Egli ha voluto che la Sua Chiesa fosse monarchica non per lasciare libero il Papa di decidere quello che vuole, ma perché agisca come Christi Vicarius e Servus servorum Dei, in modo che sia l’unico Sommo ed Eterno Sacerdote, il Mediatore tra Dio e gli uomini, il Re e Signore universale, a regnare per mezzo di lui.
Una Chiesa democratica non è solo un’aberrazione teologica e una palese violazione della struttura gerarchica voluta dal Signore, ma è un non-senso smentito dai suoi stessi fautori, poiché si basa sulla falsa premessa che sia possibile esercitare l’autorità al di fuori del Bene, pervertendola in tirannide. L’Autorità ecclesiastica e quella civile, per divino decreto, sono espressione della suprema, assoluta e universale Signoria di Cristo, cujus regni non erit finis.
Troppo spesso dimentichiamo che il Signore non è Dio per suffragio universale. Dominus regnavit, decorem indutus est (Sal 92, 1). Il Signore regna in tutto l’universo: Egli si è vestito di maestà. La Sacra Scrittura usa qui una forma verbale con cui esprime l’eternità, l’indefettibilità e la definitività del Regno di Cristo.
Regnum meum non est de hoc mundo (Gv 18, 36): queste parole di Nostro Signore a Pilato non vanno intese nel significato che sono soliti darvi gli eretici e i modernisti, ossia che Gesù Cristo non rivendica un’autorità sul governo delle nazioni e che le lascia libere di legiferare, secondo gli errori del laicismo e del liberalismo.
Al contrario, proprio perché il Regno di Cristo non deriva da un potere terreno esso è eterno e universale, totale e assoluto, diretto e immediato. Ego vici mundum, ci rassicura il Signore. Quindi non solo il mondo non è all’origine della Sua Autorità, ma le è nemico, nel momento in cui esso vi si sottrae per servire il Princeps mundi hujus, che appunto è principe, anch’egli sottoposto gerarchicamente alla somma potestà di Dio, che permette che egli agisca solo per trarne maggior bene.
Io ho vinto il mondo significa quindi che il mondo, per quanto si illuda di poter contrastare i piani della Provvidenza e di ostacolare l’azione della Grazia, nulla può fare contro Colui che lo ha già vinto. Quella vittoria, totale e irreversibile, si è compiuta tramite la Croce, segno dell’infamia riservata agli schiavi, con la Passione e Morte del Salvatore, in obbedienza al Padre. Regnavit a ligno Deus.
La Croce è trono di gloria, perché tramite essa Cristo ci ha redenti, ossia riscattati dalla schiavitù di Satana.
Oggi lo Stato e la Chiesa sono ostaggio dei nemici di Dio e la loro autorità è usurpata da eversori criminali ed apostati che mostrano con arroganza la propria determinazione a compiere il male e la propria avversione alla Legge del Signore.
Il tradimento dei governanti e l’apostasia della Gerarchia sono la punizione che meritiamo per aver disobbedito a Dio.
Eppure, mentre costoro distruggono, noi abbiamo la gioia e l’onore di ricostruire. Più grande felicità ancora: una nuova generazione di sacerdoti e di laici partecipa con zelo a quest’opera di ricostruzione della Chiesa per la salvezza delle anime, e lo fa con la consapevolezza delle proprie debolezze, ma lasciandosi usare da Dio come docili strumenti nelle Sue mani. Mani disponibili, mani forti, mani dell’Onnipotente.
La nostra fragilità mette ancor più in luce l’opera del Signore, specialmente dove questa fragilità umana si accompagna all’umiltà. Questa umiltà deve portarci ad instaurare omnia in Christo, ad iniziare dal cuore della Fede, che è la Santa Messa. Ritorniamo quindi a quella liturgia che riconosce a Nostro Signore il Suo assoluto primato.
Se Nostro Signore Gesù Cristo è Re per diritto ereditario (essendo di stirpe regale), per diritto divino (in ragione dell’unione ipostatica) e per diritto di conquista (avendoci redenti con il suo Sacrificio sulla Croce), non dobbiamo dimenticare che al Suo fianco, nei piani della divina Provvidenza, il divino Sovrano ha voluto porre come nostra Signora e Regina la propria augustissima Madre, Maria Santissima.
Non vi può essere Regalità di Cristo senza la dolce e materna Regalità di Maria, che San Luigi Maria Grignon de Montfort ci ricorda essere Mediatrice nostra presso il trono della Maestà del suo Figlio, come Regina che intercede al trono del Re. Regina, Mater misericordiæ, Spes nostra, Advocata nostra.
La premessa per il trionfo del Re divino nella società e nelle Nazioni è che Egli già regni nei nostri cuori, nelle nostre anime, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. Che regni dunque Cristo in noi, e con Lui la sua Santissima Madre. Adveniat regnum tuum: adveniat per Mariam.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
29 Ottobre 2023
Domini Nostri Jesu Christi Regis
Intelligenza Artificiale
Sacerdozio virtuale, errore reale
«Father Justin» è stato «ridotto allo stato laicale» pochi giorni dopo l’inizio del suo ministero. Non per una storia di abusi, perché «Father Justin» è l’avatar digitale dato a un algoritmo. La vicenda d’oltreoceano potrebbe sembrare aneddotica se non mostrasse, implicitamente, i limiti dell’uso dell’intelligenza artificiale (IA) negli ambiti della fede e della pastorale cristiana.
Catholic Answers è un’associazione dedicata alla difesa della fede cattolica, con sede a El Cajon, California. Gli apologeti che la gestiscono hanno subito capito il vantaggio di investire nell’universo digitale, utilizzando le inesauribili risorse dell’intelligenza artificiale.
È così che è stato sviluppato un algoritmo chiamato Father Justin, ornato da un’immagine generata al computer, che lo rappresenta come un prete barbuto che indossa una talare, in altre parole una sequenza matematica adatta a rispondere alle domande degli internauti sulla fede e sull’insegnamento della Chiesa.
Ma il prete virtuale – o meglio i suoi ideatori, l’IA non produce, in termini di qualità dell’informazione, nulla che non sia in linea con il suo database – non ha seguito un percorso teologico tradizionale: così, Father Justin non vede nessun problema nel battezzare con «Gatorade», una bevanda energetica, quando solo l’acqua costituisce la materia valida per questo sacramento.
Quando un utente chiede la forma del sacramento della penitenza, il robot propone online una formula per l’assoluzione dei peccati, che sarebbe totalmente invalida, poiché l’assoluzione richiede la presenza fisica di un sacerdote validamente ordinato e con giurisdizione per compiere questo atto.
Tuttavia, a una richiesta diretta di essere ascoltato in confessione e assolto, Father Justin spiega: «anche se vorrei aiutarti, non sono in grado di amministrare il sacramento della riconciliazione con questo mezzo. È un sacramento che richiede un incontro personale. Ti incoraggio a trovare una chiesa cattolica e a parlare con un prete».
Di fronte allo scalpore suscitato da questa vicenda, Catholic Answers ha fatto marcia indietro rivestendo il buon Father Justin da laico e promettendo di correggere il suo «chatbot» – il programma informatico che simula ed elabora una conversazione umana, permettendo di interagire con gli utenti – in un senso più coerente con la fede e la moralità cattolica.
Catholic Answers avrà presto un bot affidabile? Possiamo dubitarne, perché un progetto del genere pone un problema: immaginare che un «chatbot» possa svolgere a pieno titolo il ruolo di catechista o di missionario non rivela forse una profonda incomprensione del modo in cui si trasmette la fede?
Se l’Intelligenza Artificiale può rendere accessibile una quantità impressionante di informazioni in tempi record, la nozione di «chatbot» nasconde un’ambiguità: quella di far credere alle persone in una reale interazione personale.
Quando un fedele, o una persona che cerca la verità, si avvicina alla Chiesa, ha diritto di ascoltare delle risposte trasmesse in un vero spirito di fede teologale e di prudenza soprannaturale che supera le capacità numeriche di un algoritmo, anche il più elaborato.
Di fronte alle critiche, Catholic Answers si è difesa in modo poco convincente: «Comprendiamo che alcuni non si sentano a proprio agio con l’intelligenza artificiale. Ma dato che esiste, ci sforziamo di metterlo al servizio del Regno di Dio». Un modo per evitare la radice del problema.
Perché gli strumenti fabbricati dall’uomo hanno uno scopo solo nella misura in cui facilitano la vita veramente umana, permettendo così di risparmiare tempo, non per essere pigri, ma per esercitare le nostre facoltà di conoscenza e le nostre virtù, ed elevare la nostra umanità.
In questo contesto, vogliamo affidare le capacità umane, come la comprensione, il giudizio, le relazioni umane e l’autonomia d’azione, ai software di Intelligenza Artificiale senza conoscere il valore reale di questi sistemi che pretendono di essere intelligenti e cognitivi?
Questa è la sfida etica dei prossimi anni riguardo all’Intelligenza Artificiale, e di cui Father Justin, questa volta, ha pagato il prezzo.
Articolo previamente apparso su FSSPX.news.
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Pensiero
Sterminio e «matrice satanica del piano globalista»: Mons. Viganò invita a «guardare oltre» la farsa psicopandemica
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Geopolitica
La polifonia vaticana sulla guerra in Ucraina
Mentre il conflitto tra Ucraina e Russia entra nel suo terzo anno, nelle dichiarazioni ufficiali della Santa Sede sono emersi diversi punti di vista, sia da parte del Santo Padre che dei servizi diplomatici della Segreteria di Stato.
Sinfonia? Cacofonia? Dissonanza intenzionale? Che si sia entusiasti o meno dell’attuale pontificato, varia notevolmente l’apprezzamento delle differenze di tono che si osservano al di là del Tevere nella trattazione del conflitto russo-ucraino.
Da parte del Papa, Papa Francesco ripete da mesi costantemente i suoi appelli alla pace per la ragione che «la guerra è sempre una sconfitta» e che coloro che vincono sono i “fabbricanti di armi”. È una posizione che ha il merito di restare immutata.
In un’intervista alla televisione svizzera RTS del 2 febbraio 2024, andata in onda a marzo, il Papa ha invitato l’Ucraina ad avere «il coraggio di negoziare»: «credo che il più forte sia chi vede la situazione, chi pensa del popolo, che ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare», ha dichiarato, chiedendo che la mediazione venga effettuata da un paese che lo ha offerto, come la Turchia.
Sarà un negoziato necessario per evitare il «suicidio» del Paese. Il Papa ha poi risposto a una domanda sul tema del «bianco», parlando delle virtù del bianco ma anche della «bandiera bianca». Le sue dichiarazioni hanno innescato una crisi diplomatica tra Santa Sede e Ucraina, ma che avrebbero lo scopo di sottolineare la posizione pacifista di un Papa che mette la sacralità della vita al di sopra di ogni altra cosa.
Per il capo della diplomazia ucraina, a cui si uniscono le voci più critiche all’interno della Chiesa nei confronti dell’attuale Romano Pontefice, si tratterebbe di un atteggiamento che evoca la «neutralità osservata da Pio XII durante la Seconda Guerra Mondiale».
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Il Vaticano ha tentato di chiudere la polemica: «il Papa usa il termine bandiera bianca, e risponde riprendendo l’immagine proposta dall’intervistatore, per indicare una cessazione delle ostilità, una tregua raggiunta con il coraggio del negoziato», ha spiegato il direttore della Lo ha affermato la Sala Stampa della Santa Sede.
Il 24 aprile Francesco insisteva e affermava in una nuova intervista concessa al canale americano CBS: «cercate di negoziare. Cerca la pace. Una pace negoziata è meglio di una guerra senza fine», sottolinea il Sommo Pontefice, alludendo sia alla guerra in Ucraina che alla situazione a Gaza.
Da parte della Segreteria di Stato i toni non sono esattamente gli stessi. Dall’inizio del conflitto, la diplomazia vaticana non ha mai difeso una capitolazione dell’Ucraina. In più occasioni, i suoi due più alti funzionari, il cardinale Pietro Parolin e l’arcivescovo Paul Gallagher, hanno ammesso pubblicamente la legittimità di una guerra difensiva, inviando anche armi per realizzarla.
In una recente intervista con la rivista America del 25 marzo 2024, l’arcivescovo Gallagher ha affermato di ritenere che «la Russia non stabilisce le condizioni necessarie [per negoziare]. Le condizioni necessarie, che sono nelle mani della Russia, sono fermare gli attacchi, fermare i missili». Afferma anche della Santa Sede che «non sosteniamo che i confini dei paesi debbano essere modificati con la forza».
I gesuiti della Civiltà Cattolica – rivista influente in Italia, e teoricamente vidimata dalla Santa Sede prima della pubblicazione – hanno difeso una posizione diversa da quella di Papa Francesco e della Segreteria di Stato, sostenendo una futura controffensiva ucraina e un sostegno più forte dall’Europa e dalla NATO per l’Ucraina. Cosa si può dire di questo concerto a più voci?
Un funzionario vaticano, citato in condizione di anonimato da La Croix, riassume la situazione dipingendo un quadro sfumato della più antica diplomazia del mondo: «Siamo neutrali ma senza indifferenza etica. La storia è più complessa di un mondo in bianco e nero. Per noi Ucraina e Russia non sono due realtà sociopolitiche completamente separate…»
Articolo previamente apparso su FSSPX.news.
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Immagine di Catholic Church England and Wales via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
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