Il campione della donazione di sperma Kyle Gordy è di nuovo nelle notizie.
Paternità
L’Epidemia degli orfani di padre

Negli USA si comincia a parlare di una nuova epidemia che pare infettare gravemente il tessuto sociale del Paese: la chiamano fatherless epidemic, l’epidemia degli orfani di padre.
Mike Rowe, meglio conosciuto come il conduttore della serie di Discovery Channel Dirty Jobs, lo scorso martedì ha scritto su Facebook sull’«epidemia di orfani di padre» che «colpisce ogni livello della società». Molti siti internet hanno ripreso il suo sfogo.
Negli USA si comincia a parlare di una nuova epidemia che pare infettare gravemente il tessuto sociale del Paese: la chiamano fatherless epidemic, l’epidemia degli orfani di padre
«Un paio di anni fa, quando Angelina Jolie e Brad Pitt avevano divorziato, Jolie aveva detto: “Non mi è mai passato per la mente che mio figlio avrebbe avuto bisogno di un padre» ricorda Rowe.
«Sono rimasto colpito dal suo commento, e ricordo di essermi chiesto quanti altri americani avrebbero potuto condividere il suo punto di vista. A quel tempo, non ne pensavo molti. Ma oggi sono convinto che il numero sia significativo. Sono anche stupito di quanto rapidamente la paternità sia caduta in disgrazia. Riesci a immaginare una celebrità – o chiunque altro – mentre dice una cosa del genere solo venti anni fa?».
Discutendo di un programma anti-bullismo per la sua serie web Returning the Favour, Rowe ha considerato la connessione tra i tassi di bambini senza padre e mali della società come bullismo, scarso rendimento scolastico, senzatetto, suicidio e violenza.
Provengono da case senza padre:
Il 63% dei giovani suicidi (5 volte la media).
Il 90% di tutti i senzatetto e i bambini scappati di casa (32 volte la media).
L’85% di tutti i bambini che mostrano disturbi del comportamento (20 volte la media).
L’80% degli stupratori (14 volte la media).
Il 71% di tutti coloro che abbandonano le scuole superiori (9 volte la media).
Il 43% dei bambini statunitensi
Citando le statistiche, Rowe ha sostenuto nel post di Facebook che i bambini, in particolare i giovani, che crescono nelle case senza un padre sono in netto svantaggio.
I fatti sembrano abbastanza chiari:
• Il 63% dei suicidi giovanili proviene da case senza padre – 5 volte la media. (US Department of Health / Census)
• Il 90% di tutti i senzatetto e i bambini scappati provengono da case senza padre – 32 volte la media.
• L’85% di tutti i bambini che mostrano disturbi del comportamento provengono da case senza padre – 20 volte la media. (Center for Disease Control)
• L’80% degli stupratori con problemi di rabbia proviene da case senza padre – 14 volte la media. (Justice & Behaviour, Vol 14, pag 403-26)
• Il 71% di coloro che abbandonano le scuole superiori proviene da case senza padre – 9 volte la media. (Rapporto della National Principals Association)
• Il 43% dei bambini statunitensi vive senza il padre (Dipartimento del Censimento degli Stati Uniti)
Rowe ha osservato che, come il bullismo, la maggior parte delle sparatorie a scuola sono perpetrate da individui provenienti da case senza padre.
«È davvero così sorprendente apprendere che la maggior parte dei bulli proviene anche da case senza padre?» si chiede Rowe.
«È sorprendente che sia senza padre la maggior parte degli high school shooters [gli stragisti da scuola superiore, ndr] ? È sorprendente che lo sia la maggior parte degli stragisti maschi più anziani?».
Rowe ammette che l’argomento è controverso e probabilmente non gli farà guadagnare molti fan tra coloro che cercano una soluzione unidimensionale ai problemi che affliggono i giovani uomini.
«So che questo è controverso» scrive. “Mi dispiace iniettare un ingrediente scomodo in un post su uno spettacolo di benessere, ma penso sia importante considerare la possibilità che questa cosa che ci piace chiamare “un’epidemia di bullismo” sia davvero una fatherlessness epidemic, un’epidemia di paternità mancante».
È davvero così sorprendente apprendere che la maggior parte dei bulli proviene anche da case senza padre?
Rowe ha anche sottolineato il fatto che la società e i social media forniscono ai maschi, indipendentemente dall’età, un messaggio contorto e conflittuale sulla mascolinità.
«È ragionevole concludere che la nostra società sta inviando un messaggio agli uomini di tutte le età che è decisamente ambiguo», ha scritto la Rowe. «Da un lato, stiamo dicendo loro di “fare i duri” ogni volta che il gioco si fa duro, dall’altro condanniamo un clima di” mascolinità tossica” ad ogni piè sospinto».
Rowe sostiene che è abbastanza difficile per i giovani uomini con una stabile struttura di supporto familiare distinguere ciò che vuole da loro la società, per non parlare di quelli senza una figura paterna presente.
I bambini sono gli stessi ora come lo erano cento anni fa: petulanti, coraggiosi, arroganti, sinceri, spaventati. Sono i genitori che hanno messo la propria felicità al di sopra dei migliori interessi dei propri figli
«Se questo ti confonde, immagina di essere un ragazzo di 14 anni senza una figura paterna che ti aiuti a dare un senso a tutto questo».
Rowe non ha smentito la serietà del bullismo, ma ha tentato di dipingerlo come un sintomo della disintegrazione delle strutture di supporto familiare. Ha criticato gli sforzi per incolpare dei mali della società i social media, il libero accesso alle armi o deviazioni genetiche, sostenendo che tali scuse servono solo a mascherare il problema in questione.
«La crisi del bullismo è reale, ma la causa principale non ha nulla a che fare con i videogiochi, le armi, i social media, il rock and roll, o le bevande zuccherate, o qualsiasi altro babau attualmente di moda» dice la Rowe. «Né è una funzione di qualche nuovo cromosoma dei bambini che diventano maggiorenni».
Rowe dice che i bambini delle generazioni recenti non sono radicalmente diversi da quelli che li hanno preceduti; piuttosto sono «i genitori che sono cambiati».
«I bambini sono gli stessi ora come lo erano cento anni fa: petulanti, coraggiosi, arroganti, sinceri, spaventati», ha scritto. «Sono i genitori che hanno messo la propria felicità al di sopra dei migliori interessi dei propri figli».
Questa abdicazione della responsabilità, viene da pensare, è lampante nel caso dei vaccini: genitori che affidano ciecamente allo Stato la cosa più preziosa che hanno, la salute della loro prole.
Tale sentimento è stato il risultato, ha affermato la Rowe, in una generazione di genitori che ha abdicato alle proprie responsabilità di allevare bambini ben adattati, optando invece per consentire alla comunità di svolgere un ruolo sempre crescente.
«Sono i genitori che credono davvero che “la comunità” possa crescere i loro figli» scrive Rowe. «Quando invece “la comunità” è profondamente incapace di fare qualcosa del genere».
Questa abdicazione della responsabilità, viene da pensare, è lampante nel caso dei vaccini: genitori che affidano ciecamente allo Stato la cosa più preziosa che hanno, la salute della loro prole.
Al contempo, non possiamo non pensare che proprio la questione vaccinale in Italia denota lo stesso problema: la mancanza di qualcuno che voglia proteggere la propria famiglia davanti non solo a leggi ingiuste, ma a pericoli esiziali.
La mancanza di veri padri.

Contraccezione
Pillole anticoncezionali maschili sperimentate entro l’anno

Gli scienziati affermano di aver creato una pillola anticoncezionale per gli uomini e potrebbero iniziare la sperimentazione umana già quest’anno. Lo riferisce il sito americano Gizmodo.
I ricercatori dell’Università del Minnesota hanno sviluppato il composto, soprannominato GPHR-529, come forma di pillola maschile non ormonale. Nei test, sono stati in grado di mantenere sterili i topi di laboratorio per quattro o sei settimane con un’efficacia del 99%.
L’equipe ora spera di condurre prove umane per la pillola entro la fine del 2022.
Sebbene in passato ci siano state pillole anticoncezionali maschili in fase di sviluppo e sperimentazioni sull’uomo, spesso utilizzano trattamenti ormonali – un processo che prende di mira e diminuisce il testosterone – per raggiungere la sterilità, che può provocare effetti collaterali indesiderati come diminuzione del desiderio sessuale e colesterolo alto.
Poiché la pillola del team dell’Università del Minnesota non è ormonale, potrebbe ottenere i risultati desiderati senza impoverire gli uomini del loro prezioso testosterone.
«Dal momento che gli uomini non devono subire le conseguenze della gravidanza, la soglia per gli effetti collaterali delle pillole anticoncezionali è piuttosto bassa», ha detto a Gizmodo il dottor Abdullah Al Noman, ricercatore capo dello studio e studente laureato in chimica medicinale alla UM.
«Ecco perché stiamo cercando di sviluppare pillole anticoncezionali non ormonali per evitare effetti collaterali ormonali».
Gli scienziati affermano inoltre che anche i topi non erano più sterili dopo aver smesso di assumere GPHR-529 dopo quattro o sei settimane. Quindi gli effetti sarebbero tutti potenzialmente temporanei per gli uomini che lo assumono.
La creazione di un contraccettivo medico per uomini – chiamato negli anni dalla stampa italiana «il pillolo» – non ha mai dato esiti positivi, scrive Futurism. Negli anni essa ha generato effetti collaterali indesiderati e ha perfino creato, involontariamente, il consumo ricreativo di certe sostanze – i SARM (acronimo che sta per modulatori selettivi dei recettori degli androgeni) – presso atleti e culturisti quando si è scoperto che taluni di questi farmaci sperimentali potevano aiutare i muscoli. I SARM, di fatto, sono considerati l’alternativa moderna ai derivati sintetici del testosterone, cioè agli steroidi. Alcuni SARM hanno effetti sterilizzanti, altri inducono, esattamente come gli steroidi, alla soppressione del testosterone naturale – cioè la compromissione materiale della fonte della maschilità.
Nuove tecniche di contraccezione maschile sono già in fase di sperimentazione, ma con possibili gravi conseguenze per l’uomo, come nanomateriali magnetici iniettati nei testicoli. Questa tecnica sviluppata da scienziati cinesi consiste nell’iniettare nanomateriali magnetici, usando magneti esterni per guidare le particelle nei testicoli, e poi usando un altro campo magnetico per riscaldare i genitali al punto tda temporaneamente fermare la produzione sperma.
Tutti questi avanzamenti nella sterilizzazione altro non sono che parte di un progetto di indebolimento dell’uomo (e del maschio) e la conseguente denatalità.
Senza contraccettivi, vi sarebbe quindi la sovrappopolazione?
La sovrappopolazione, il lettore di Renovatio 21 lo sa, è un mito tossico artificiale iniettato nel mondo moderno dai potentati della Necrocultura.
Non solo la sovrappopolazione non esiste – l’intera umanità di 7 miliardi di individui potrebbe, utilizzando gli spazi che usa quotidianamente, risiedere in Texas! – ma è la denatalità la minaccia che dobbiamo affrontare ora.
Il magnate Elon Musk ci sta avvertendo in merito: «Penso che uno dei maggiori rischi per la civiltà sia il basso tasso di natalità e il rapido calo del tasso di natalità».
Bioetica
Donatore di sperma ha 55 figli

Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
L’anno scorso è apparso sul New York Times come uno dei numerosi «re dello sperma» che viaggiano per il mondo creando progenie per le coppie lesbiche.
«Le persone sono stufe delle banche del seme», ha detto Kyle Gordy, 29 anni, che vive a Malibu, in California. Si diletta nel settore immobiliare ma trascorre la maggior parte del suo tempo donando il suo sperma, gratuitamente (tranne il costo del viaggio), alle donne.
Gestisce anche un gruppo Facebook privato, Sperm Donation USA, con circa 21.000 membri che offre alle donne centinaia di donatori approvati.
La scorsa settimana è apparso su The Sun, un tabloid britannico. Quando è stato intervistato dal NYTimes, aveva generato 35 figli con cinque in arrivo. Ora quelle cifre sono salite a 46 e nove, per un totale di 55 figli. Ne ha incontrati solo nove, ma ha detto a The Sun di rimanere in contatto con gli altri.
«Ho sempre voluto avere figli. Ho avuto alcune relazioni fallite, ma è qualcosa a cui sono aperto in futuro con la persona giusta», ha detto Gordy.
«Ci vorrà qualcuno di speciale per accettarmi per quello che faccio. Stavo per rivolgermi a una banca del seme, ma mi è sembrato così freddo e clinico».
Michael Cook
Arte
Karate e assenza del padre. Renovatio 21 recensisce Cobra Kai

L’inevitabilità di Karate Kid: chiunque sia nato negli anni Settanta o nei primi Ottanta non può non essere passato attraverso il viaggio di Daniel LaRusso.
Vi sono tormentoni che sono rimasti attaccati in qualsiasi lingua il film fosse servito («dai la cera / togli la cera»), ci sono personaggi le cui fisionomie (il crudele biondo figlio di papà, il cattivo maestro militarista, la bella ragazzina di cuore, la madre single scombiccherata) sono rimaste per sempre con noi.
Per quanto in molti non lo possano riconoscere (ma il Box Office sì), il film aveva in sé qualcosa di irresistibile, un ingrediente magico, un elemento che sincronizzava questo high school movie basato (molto vagamente) sulle arti marziali con il sentire collettivo.
Per anni, ammettiamo, non abbiamo capito cosa fosse.
Ora, la serie Cobra Kai ha dato una risposta. Lucida e più dolorosa del previsto, in un universo che diverte e spaventa, e forse spezza un po’ il cuore.
Karate Kid: bullismo e morale
Cobrai Kai è nato nel 2018 come produzione di YouTube Red (oggi YouTube Premium) e poi migrato su Netflix, dove si attende per fine 2021 la quarta stagione. È il seguito di Karate Kid (1984), in particolare il primo film, quello che termina con il celeberrimo calcio a gru di Daniel LaRusso (Ralph Macchio) su Johnny Lawrence (William Zabka). Tuttavia, nel corso della serie emergono rimandi concreti alle storie anche dei meno fortunati seguiti, storie che sono trattate talmente bene che vengono addirittura risolte, spostate su un livello narrativo e soprattutto morale più alto.
Cobra Kai, dichiarando qual era il vero tema di Karate Kid, innalza tutto il suo universo, lo rende un’opera di riflessione altissima, di fatto raramente tentata in ambito audiovisivo, soprattutto americano – perché tutto si incentra sul tema dell’assenza del padre e i suoi effetti devastanti sulla società. Perché racconta e analizza senza pudori il bisogno della gioventù di ricevere un’iniziazione che è ora perduta a causa della mancanza di chi l’iniziazione, nei millenni, l’ha officiata: la figura paterna.
Cobra Kai, dichiarando qual era il vero tema di Karate Kid, innalza tutto il suo universo, lo rende un’opera di riflessione altissima, di fatto raramente tentata in ambito audiovisivo, soprattutto americano – perché tutto si incentra sul tema dell’assenza del padre e i suoi effetti devastanti sulla società
Vi era stato un video di YouTube molto popolare che anni addietro tentava, e con un certo successo, di rovesciare la storia di Karate Kid. Era Daniel, e non Johnny, il vero bullo.
Daniel ruba al legittimo campione la ragazza. Daniel lo provoca sulla spiaggia e accende uno scontro in cui Johnny non fa che difendersi. Daniel umilia Johnny ad Halloween rovinandogli con l’acqua il costume. Poi quando passa il segno, Daniel si fa difendere dal «child batterer» («picchiatore di bambini») signor Miyagi, il quale è accusato anche di praticare la stregoneria visto che riesce a rimettere in piedi il ragazzo anche dopo un grave infortunio alla gamba. E alla fine, se ricordate, a dare il premio a Daniel è proprio Johnny, il difensore del titolo, che ammette la sconfitta e gli consegna il coppa.
Se ci pensate, ha tutto senso. Devono averlo pensato anche Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg, i creatori della serie, che hanno anche loro ribaltato l’assunto hollywoodiano: lo stronzo in realtà era proprio LaRusso, e Johnny era in fondo un bravo ragazzo, anche se imperfetto, come tutti gli eroi.
Cobra Kai e il sacrificio del padre assente
Da qui parte la storia di Cobra Kai, che è la storia, in particolare, di Johnny Lawrence. Sono passati 34 anni da quella finale del torneo di karate, e la sua esistenza è quella di un loser totale. Vive con lavoretti manuali. La ricchezza che sfoggiava nel primo film, apprendiamo, non era la sua, ma del patrigno (perché anche lui, scopriamo ora, era senza un vero padre), che odiava quanto amava sua madre. Non ha interessi particolari, non ha hobby, non ha vere opinioni, né relazioni forti. Si mette sempre nei guai, perché non conosce materialmente le regole del politicamente corretto (cosa davvero pazzesca per un eroe di una fiction moderna). Non è aggiornato su nulla, non ha uno smartphone e nemmeno conosce internet. Ha passato tutti gli anni Novanta, dice, andando a troppi party. Ha incontrato le donne sbagliate, ma in realtà, nel suo stupore di sconfitto alcolico, non ne soffre nemmeno troppo. Dorme in un tugurio nello stesso quartieraccio da cui proveniva Daniel, la sera si sfonda di birra, raccolta da un frigo vuoto, guardando programmi-spazzatura in TV, dove però abbondano gli spot di Daniel LaRusso.
Il quale invece ha fatto i soldoni, è diventato un grande concessionario di auto, un uomo importante, rispettato nella comunità degli abbienti losangelini. Daniel ha messo su famiglia: una figlia irrequieta che è, in un suo modo insopportabile, promiscua e combinaguai. Un figlio dipendente dai videogame che per la storia è al momento irrilevante (anche se prima o poi partirà una riflessione sulla paternità anche lì…).
Johnny è quello che in America chiamano un deadbeat dad, un padre fannullone, uno di quelli che a seguito della separazione comincia lentamente a sparire dalla vita dei figli, solo per comparire raramente e per cose futili
Anche Johnny ha un figlio: ma anche questo è un elemento, forse il maggiore, del suo fallimento. Johnny è quello che in America chiamano un deadbeat dad, un padre fannullone, uno di quelli che a seguito della separazione comincia lentamente a sparire dalla vita dei figli, solo per comparire raramente e per cose futili.
In definitiva: Johnny Lawrence stesso è diventato un padre assente. La storia di Cobra Kai è quella del suo riscatto: perché – è il messaggio illuminante che si può e si deve portare nell’orrore della società della disgregazione familiare – dietro ad ogni uomo fallito c’è un uomo, dietro ad ogni padre assente può esserci un padre. La trasformazione, come nel karate, avviene solo attraverso il dolore e il sacrificio – e l’esercizio.
La sindrome dell’abbandono americano
Il tema non è da poco. La quantità impressionante di divorzi in America , secondo alcuni, produce persone insicure ed irrisolte: sono in molti a raccontare dei figli degli innumeri divorzi americani come possibili prede della cosiddetta sindrome dell’abbandono, un complesso psicologico di angoscia che i propri legami affettivi svaniscano.
La sindrome dell’abbandono, per alcuni, è uno dei tratti psicologici specifici non solo dell’America come società, ma perfino della politica USA.
La sindrome dell’abbandono, per alcuni, è uno dei tratti psicologici specifici non solo dell’America come società, ma perfino della politica USA
Reazioni violente, per le quali ci si basa su indizi superficiali e di cui non si calcolano le conseguenze a lungo termine, possono essere lette come la matrice delle tantissime disastrose operazioni militari internazionali condotte da Washington.
Nel mondo dove la realtà ultima è l’abbandono, ogni manchevolezza di una controparte è letta come un messaggio di terminazione del rapporto. Con conseguente senso di angoscia da far cessare il prima possibile. Tutti potete riconoscere le storie di quei tanti dittatori passati dall’essere cocchi USA a divenire nemici globali eliminati senza pietà – e talvolta senza ragione.
Gli homeless: l’altra faccia del sogno americano
L’abbandono ha negli USA una sua visibilissima tipologia di cittadino specifica: quella degli homeless. I barboni costituiscono, in città come Los Angeles, una percentuale considerevole della popolazione umana. Come noto, uno dei motivi del grande esodo dalla California da parte di certa classe media (di tutti i partiti e morfologie) è la soverchiante presenza di homeless che oramai lambiscono le aree residenziali e rendono impraticabili centri cittadini un tempo sereni, e che ora versano, appunto, in stato di abbandono.
Gli homeless sono decisamente l’altra faccia del sogno americano: non più ascrivibili alla triade lavoro-benessere-famiglia, ma disoccupazione-miseria-solitudine.
Gli homeless sono decisamente l’altra faccia del sogno americano: non più ascrivibili alla triade lavoro-benessere-famiglia, ma disoccupazione-miseria-solitudine.
Essi sono il volto stesso dell’abbandono, in quanto sono stati piantati dalla rete sociale fatta dalla famiglia, dalla professione e dallo Stato, dal senso stesso del mondo come comunità umana. Essi agiscono da promemoria del collasso sociale, e al contempo, per gli americani, sono grandi segnali visibili di cosa può accaderti se non fai attenzione: basta poco, dicono in USA, per passare dalla classe media al mondo dei senzatetto. Una malattia che magari produce un conto di un ospedale andato fuori controllo, una causa, un divorzio, oppure la dipendenza dagli antidolorifici oppioidi (indotta dalle case farmaceutiche ora per questo condannate)…
È significativo che nel primo episodio della prima stagione dei ragazzini bulli chiamino homie (diminutivo dispregiativo di homeless) il povero Johnny, seduto su un marciapiede con la sua camicia a quadrettoni e un pezzo di pizza al trancio come cena.
Robert Bly e il crollo dell’iniziazione maschile
Scavando più sotto ancora del tema dell’abbandono, troviamo vivissimo quello del maschio, cresciuto a metà a causa dell’assenza del padre e quindi incastrato in un meccanismo di perpetuazione di esistenze incomplete. Si tratta di una riflessione profondissima, ancora più tabuizzata della precedente su divorzio e abbandono, che però è giusto demandare, quantomeno, all’arte.
Infatti, colui che ha trattato con più energia e lucidità l’argomento non è un sociologo, un filosofo, uno psichiatra, ma un poeta: Robert Bly. Oltre alla sua attività di scrittore di versi, il pacifista Bly, influenzato da Carl Gustav Jung (di cui supera pragmaticamente le teorie), ha scritto saggi di spessore e creato un movimento chiamato Mythopoetic Men’s Movement. Il pensiero di Bly riguarda la crisi del maschio contemporaneo, causato, secondo il poeta, dal fatto che gli adolescenti oggi sono «non guidati» verso l’età adulta – da qui il titolo di un suo libro, La società degli eterni adolescenti – a causa dell’assenza delle funzioni paterne.
La scomparsa della figura paterna crea la parallela scomparsa del rito di passaggio: il ragazzo non sa esattamente quando diventa adulto, né probabilmente lo vuole diventare
La scomparsa della figura paterna crea la parallela scomparsa del rito di passaggio: il ragazzo non sa esattamente quando diventa adulto, né probabilmente lo vuole diventare. Interrotta l’iniziazione paterna, gli individui – come Johnny Lawrence – restano invischiati in un limbo che porta necessariamente al caos. La droga, la depressione, la delinquenza, il suicidio, le turbe maschili, tutti deriverebbero dallo spegnimento della tradizione di padre in figlio e dall’instaurarsi di una società orizzontale che Bly chiama «società fraterna».
I mezzo-adulti, dice Bly, avranno quindi difficoltà nel lavoro e nella vita famigliare – perché non sono formati alla responsabilità, intrappolati come sono tra l’infanzia e l’età matura. Ciò li porta a poter divenire, salvo sacrificio e trasformazione, dei padri assenti, dei padri di figli che non cresceranno mai del tutto.
Fight Club è un Karate Kid che non ce l’ha fatta
La più grande illustrazione del pensiero di Bly è stata, non si sa quanto volontariamente, la storia di Fight Club, un romanzo e una pellicola epocali.
L’autore della storia, Chuck Palahniuk, in un’intervista dichiarò che avrebbe scoperto solo poi il pensiero di Bly, e quanto profondamente esso rispecchiava il suo racconto, in parte autobiografico. Ricorderete la scena: il narratore (nella pellicola, Edward Norton) fa un bilancio esistenziale con Tyler Durden (Brad Pitt) mentre, pieni di lividi, riposano in bagno.
«Io non conosco mio padre. Insomma, lo conosco, ma se n’è andato via quando avevo sei anni. Ha sposato un’altra donna, ha avuto altri figli. Lo fa ogni sei anni: va in una nuova città e mette su una nuova famiglia» dice il protagonista.
Interrotta l’iniziazione paterna, gli individui – come Johnny Lawrence – restano invischiati in un limbo che porta necessariamente al caos
«Il cazzone ha aumentato le filiali! Il mio non ha fatto l’università, perciò era essenziale che ci andassi io» risponde Tyler Durden. «Così mi laureo, gli faccio un’interurbana e gli dico: papà, e adesso? E lui: trovati un lavoro!»
«Stessa cosa!»
«A venticinque anni faccio la mia telefonata annuale e gli dico: papà, e adesso? E lui: non lo so, vedi di sposarti!» continua Pitt.
Norton risponde: «Non puoi sposarti. Sei un bambino di 30 anni».
«Siamo una generazione cresciuta dalle donne. Mi chiedo se un’altra donna sia davvero la risposta».
Fight Club era l’urlo, sardonico quanto sadico, lucido quanto distruttivo, della crisi del maschio americano in quanto orfano di padre.
La droga, la depressione, la delinquenza, il suicidio, le turbe maschili, tutti deriverebbero dallo spegnimento della tradizione di padre in figlio e dall’instaurarsi di una società orizzontale che Bly chiama «società fraterna»
Cobra Kai è un Fight Club inserito in una teen comedy, dove la soluzione non è il rovesciamento della società a partire dall’abbattimento dei palazzi del danaro (non una brutta idea, in realtà) ma la ricerca della possibilità di una ricomposizione di umanità tradizionale tra padri e figli – e la conseguente guarigione della società tutta.
Ci abbiamo messo decenni, ma alla fine lo abbiamo capito. Karate Kid, ancora quasi 40 anni fa, parlava solo di questo: l’accesso ad un percorso di iniziazione, la ricerca da parte di un orfano di un padre che gli trasmetta la conoscenza necessaria a sopravvivere e prosperare. Fight Club è la storia di un tizio che impazzisce perché non è riuscito a trovare un Mister Miyagi che gli facesse da padre.
In ognuna delle tre stagioni di Cobra Kai tutti questi temi sono scandagliati con dovizia, senza mai dare risposte facili.
Vittime WASP
La serie ha pure il pregio, davvero prezioso, di tentare di andare oltre al politicamente corretto: il protagonista usa talvolta parole e modi etnicamente sbagliati, ma nessuno lo «cancella» – anzi, le stesse minoranze, bullizzate, ne rispettano l’autenticità.
I bulli, del resto, non sono più gli WASP, biondi e ricchi, un tempo unici residenti delle colline dell’upper class: sono insiemi di fighetti interetnici dove il più odioso è un asiatico, che nella sua boria mai ha pensato alle arti marziali. Anche questo contribuisce a fare di Cobra KaI una sagace riflessione sui cambiamenti sociali e sui tabù dell’America woke, come la «cultural appropriation» (cioè, la proibizione da parte di una cultura, specie quella bianca, di usare temi e costumi di un’altra), il cui spettro potrebbe rendere proibite storie come questa da un momento all’altro.
Karate Kid, ancora quasi 40 anni fa, parlava solo di questo: l’accesso ad un percorso di iniziazione, la ricerca da parte di un orfano di un padre che gli trasmetta la conoscenza necessaria a sopravvivere e prosperare
Non è sociopoliticamente banale il rovesciamento sociale che viene messo in scena, ed indagato in più episodi: la classe dominante degli anni Ottanta (gli WASP che schifavano l’italiano del New Jersey, doppiamente immigrato e incontrovertibilmente tamarro – Jersey Shore docet) è interamente decaduta, ridotta addirittura al ruolo di forgotten men, o di quasi homeless.
Anche qui: il biondo ciuffo – non quello di Johnny, ma di Donald Trump – è dietro ogni angolo…
Cobra Kai, una serie che è impossibile non amare
Cobra Kai è spassoso per diverse ragioni, e il suo appeal va ben al di là dei nostalgici del vecchio film (che sono qui anche presi per i fondelli tramite il memorabile personaggio, apparso nella stagione 2, di Sting Ray).
È difficile non farsi quattro risate vedendo le disavventure del gruppone di personaggi, come al contempo è impossibile rimanere impassibili dinanzi alle umiliazioni che devono subire e al dramma interiore del protagonista.
È impossibile non amare questa serie. Molti si possono vergognare ad iniziarla, perché in fondo sembra proprio un prodotto per adolescenti, e in larga parte lo è. Tuttavia nessuno di coloro che ha cominciato si è pentito.
Bill Burr, il grande comico americano noto per le sue battute abrasive, si è speso varie volte, in podcast e trasmissioni TV, a decantare la qualità suprema di questa serie. «Non posso dirvi abbastanza quanto sia grande questa serie. È così fottutamente interessante… è tutto: è drammatica, prende in giro se stessa, è spassosa, è triste, ti fa pensare… I just fucking love it».
Ci ha ragione. È davvero raro trovare qualcosa che, con estrema levità e pure capacità di farti ghignare, può parlare del dramma interiore di due generazioni, e quindi della tragedia sottotraccia di un’intera nazione.
Articolo previamente apparso su Mondoserie.it
Immagine screenshot da Youtube pubblicata su Fair Use
-
Ambiente5 giorni fa
Alluvione, undici scienziati dimostrano che le inondazioni non sono correlate ai cambiamenti climatici
-
Geopolitica2 settimane fa
Zelens’kyj è fuori controllo
-
Pedofilia2 settimane fa
L’OMS spinge la «masturbazione della prima infanzia» e le domande sull’identità di genere per i bambini di 4 anni
-
Spirito1 settimana fa
La battaglia tra la stirpe di Cristo e quella di Satana, antichiesa e sinedrio globalista massonico. Omelia di mons. Viganò
-
Epidemie1 settimana fa
Epidemia di streptococco tra i bambini italiani. Gli antibiotici sembrano spariti: cosa sta succedendo?
-
Spirito2 settimane fa
«Una condanna inesorabile, già scritta» contro Satana e i suoi servi: omelia di Mons. Viganò per l’Ascensione di Nostro Signore
-
Reazioni avverse7 giorni fa
Vaccino HPV, l’esperienza terrificante di Candace Owens
-
Pensiero6 giorni fa
Giorgia Meloni tace davanti al «figlio» di Castro