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Eutanasia

La “Morte cerebrale” e l’industria dei trapianti

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Si è tenuto nel cuore di Roma, dal 20 al 21 maggio scorso, un importante convegno internazionale di bioetica organizzato dalla JAHLF (John Paul II Accademy for Human Life and the Family) avente come oggetto il controverso tema della cosiddetta “morte cerebrale”: «Brain Death – A Medicolegal Construct: Scientific & Philosophical Evidence».

 

L’Accademia, diretta dal Prof. Josef Seifert, si è costituita in sovrapposizione alla Pontifica Accademia per la Vita per difendere quei valori morali che l’Accademia diretta da Mons. Vincenzo Paglia, attuale presidente, ha abbandonato da tempo. Diversi membri della JAHLF, infatti – primo fra tutti il Prof. Seifert – erano membri della PAV – poi fuoriusciti a causa delle evidenti derive bioetiche, teologiche e morali.

 

Uno degli argomenti che hanno portato molti membri dell’attuale JAHLF a prendere le distanze dalla PAV è proprio quello inerente all dibattito sulla “morte cerebrale” (MC) argomento dato per assodato e in effetti nemmeno più dibattuto fra i bioeticisti seguaci di Harvard e delle logiche del mondo pro-morte.

 

Medici, ricercatori, filosofi e ricercatori si sono dunque seduti al tavolo di questo importante convegno (potremmo dire l’unico a trattare un così poco esplorato argomento, bypassato anche da un certo ambiente pro-life) per portare a galla una verità davvero sconvolgente. 

 

Il Dr. Byrne, durante la sua esperienza professionale come medico, ha girato il mondo per salvare bambini dalla macchina della morte che avrebbe voluto espiantare organi a cuore battente a bambini considerati «morti cerebralmente» o a sospendere supporti vitali per uccidere piccoli innocenti.

Fra i relatori, oltre al prestigioso nome del Prof. Seifert, filosofo austriaco e rettore di diverse cattedre universitarie di filosofia, spiccava il Dr. Paul Byrne, uno dei più importanti pediatri nel mondo, padre di 12 figli, nonno di 36 nipoti e di 7 pronipoti, Fondatore di Life Guardian, fra le più grandi fondazioni cattoliche pro-life americane.

 

Il Dr. Byrne, durante la sua esperienza professionale come medico, ha girato il mondo per salvare bambini dalla macchina della morte che avrebbe voluto espiantare organi a cuore battente a bambini considerati «morti cerebralmente» o a sospendere supporti vitali per uccidere piccoli innocenti. Uno degli ultimi casi in cui il Dr. Byrne è stato coinvolto – purtroppo, a differenza di altri casi, senza successo – è stato quello riguardante il piccolo Alfie Evans, il bambino inglese condannato a morte dal braccio dello stato e della sanità, con l’imprimatur silenzioso ma eutanatico del Vaticano intero. 

 

Diverse relazioni sono state tenute dalla Prof.ssa Doyen Nguyen, ematopatologa e docente in diverse università americane. E ancora il Dr. Thomas Zabiega e il Dr. Cicero Coimbra, entrambi neurologi. Altri i relatori con interventi di alto livello scientifico sul tema. Molti di questi nomi sono peraltro raccolti in un libro fondamentale per capire il problema che stiamo andando a trattare: Finis vitæ. La morte cerebrale è ancora vita?, edito per Rubbettino e curato dal Prof. Roberto De Mattei, anch’egli membro della JAHLF.

 

Scopo dell’evento, appunto, decostruire tutto il costrutto falsamente inoculato e tristemente accettato nelle accademie di bioetica sulla «Brain Death», compito che veramente nessuno si è dato di fare.

 

Origini fallaci della «Morte Cerebrale»

 

Nel secolo scorso, a partire dai primi anni ‘50, i neurologi specialmente europei iniziarono a richiamare l’attenzione su un nuovo stato di coma in cui il cervello sarebbe risultato irreparabilmente leso, cessando di funzionare pur continuando a mantenere la funzionalità cardiaca insieme a quella respiratoria. I neurologi francesi Mollaret e Gonion, nel 1959, ridefinirono questo stato di coma come «coma dépassé», cioè uno stato «oltre il coma». Fu sostanzialmente l’inizio della nuova ridefinizione di morte così come precedentemente conosciuta, ovvero attraverso il criterio dell’arresto cardiocircolatorio.

Nel 1967 , in Sud Africa, il team chirurgico del Dr. Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto di cuore al mondo, celebrato dal governo sudafricano come un semi-miracolo – nonostante la morte del paziente ricevente avvenuta dopo 18 giorni. 

 

Il 3 dicembre 1967, tre anni dopo, al Groote Schuur Hospital di Città del Capo, in Sud Africa, il team chirurgico del Dr. Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto di cuore al mondo, celebrato dal governo sudafricano come un semi-miracolo – nonostante la morte del paziente ricevente avvenuta dopo 18 giorni. 

 

Poco tempo dopo, alla Harvard Medical School di Cambridge (Massachusetts), precisamente nel 1968, veniva istituto un Comitato ad hoc composto da 10 medici (anestesisti, neurologi, psichiatri ed esperti in trapianti), un teologo, un avvocato ed uno storico, incaricati di ridefinire mondialmente ed una volta per tutti la morte come come «morte cerebrale», giudicando il c.d. «coma irreversibile» come criterio per accertare ed accettare la morte.

Alla Harvard Medical School nel 1968, veniva istituto un Comitato ad hoc composto da 10 medici, un teologo, un avvocato ed uno storico, incaricati di ridefinire mondialmente ed una volta per tutti la morte come come «morte cerebrale»

Il Comitato di Harvard impiegò solo sei mesi per completare il lavoro, pubblicando il rapporto nel Journal of the American Medical Association il 5 agosto dello stesso anno e proponendo, senza ostacolo alcuno, che lo stato di irreversibilità del paziente in stato comatoso doveva, da lì in avanti, essere diagnosticato su basi prettamente funzionali [1].

 

Il team di Harvard approfittò inoltre del superamento degli ostacoli legali per il trapianto, presenti negli Stati Uniti per ridefinire la morte: «criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto» [2].

 

Aspetti clinici contro la «Brain Death»

Durante il convegno di Roma, particolarmente negli interventi della Prof.ssa Doyen Nguyen, si sono trattate le evidenze cliniche e scientifiche contro chi vuole sentenziare che la«morte cerebrale» esista per sistematicità scientifica.

 

La morte è anzitutto un evento, non un processo che può condursi attraverso una graduale cessazione delle funzioni principali dell’encefalo.

La morte è anzitutto un evento, non un processo

 

Molti casi di continuazione di gravidanza e poi nascita del feto si sono verificati in persone venutesi a trovare, per gravi incidenti od emorragie cerebrali più in generale, in stato di coma profondo e giudicato alle volte irreversibile. Ma come potrebbe una vita umana continuare a formarsi, e addirittura a nascere in un soggetto morto? Tutto questo è ovviamente impossibile e contro ogni logica dettata dalla stessa legge naturale. 

 

Qualcuno vorrebbe addirittura asserire che la ventilazione artificiale è uno dei mezzi utilizzati per tenere in vita pazienti che altrimenti morirebbero. Anche ciò, è assolutamente falso: la ventilazione attraverso tracheostomia può funzionare solo se il paziente è vivo ed ha la sola funzione di ossigenare il sangue e di supportare, ma non per forza sostituire, la respirazione del paziente.

Come potrebbe una vita umana continuare a formarsi, e addirittura a nascere in un soggetto morto? Tutto questo è ovviamente impossibile e contro ogni logica dettata dalla stessa legge naturale

 

Al piccolo Alfie Evans, quando fu rimossa la ventilazione, avevano dato pochi minuti di vita perché si sosteneva che fosse il ventilatore meccanico a tenerlo in vita. Con grande stupore di tutti, invece, il piccolo continuò a respirare autonomamente e senza ossigeno per circa trenta ore, fino al punto che gli operatori sanitari dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool furono costretti a ridare un poco di ossigeno al piccolo, contrapponendo poi, nell’imbarazzo più generale per la resistenza autonoma del bambino, la cessazione di ogni nutrizione enterale così da farlo letteralmente morire di fame.

 

Il Dott. Coimbra, intervenuto durante il convegno ha mostrato, riportando studi scientifici e con dati alla mano, che molti degli importanti farmaci che dovrebbero essere somministrati a pazienti incorsi in gravi lesioni cerebrali e pronti per essere dichiarati «morti cerebralmente» non vengono somministrati, primo fra tutti l’ormone tiroideo, indispensabile per i centri respiratori. Non somministrando questi importanti farmaci si compromette il circolo ematico e gli stessi centri respiratori che così non rispondo ai test di apnea utilizzati per cercare di constatare la «Brain Death».

 

Questi test, che vengono sostanzialmente proposti come diagnosi, finiscono in realtà per danneggiare in modo irreversibile l’intero tronco encefalico.

 

Ci troviamo davanti ad una vera e propria inversione dell’etica medica e biologica quando ci riferiamo a questi metodi di prova della MC, in particolare l’apnea-test, in cui tutta la ventilazione viene sostanzialmente sospesa nella persona gravemente cerebrolesa per un massimo (sic!) di dieci minuti, in modo da constatare se è «cerebralmente morta” e incapace di respirazione spontanea, la quale può essere supportata da un ventilatore, riguardando solo la funzione di pompa muscolare del diaframma e non i polmoni e la respirazione.

Questi test, che vengono sostanzialmente proposti come diagnosi, finiscono in realtà per danneggiare in modo irreversibile l’intero tronco encefalico

 

Nel processo di un tale test, che potremmo paragonare alla richiesta fatta ad un uomo appena operato ai polmoni di fare una corsa campestre, si mostra un totale disinteresse per il donatore di organi, quasi come non fosse nemmeno una persona umana ma solo un raccoglitore di organi scissi fra loro. 

 

In realtà, a causa dei test di apnea, fortemente controindicati dal punto di vista medico, molti muoiono di morte reale. Pertanto, applicare questo test clinico come diagnosi, prescritto dai codici etici e dalle leggi mediche prima della dichiarazione di «morte cerebrale» è irresponsabile e persino una negligenza criminale dell’interesse dei pazienti.

 

La realtà è che come veniva scritto nel protocollo di Pittsburgh nel 1993, hanno «bisogno di organi», di organi che siano conservati bene e, quindi – unica modalità possibile – in corpi vivi. 

Ci troviamo davanti ad una vera e propria inversione dell’etica medica

 

Infatti, se ci si pensa, una persona morta viene solitamente portata in obitorio, o nella camera ardente che sia; i pazienti cui è stata dichiarata la «morte cerebrale», chissà perché, vengono portati in sala operatoria. Una volta raggiunto il macello, prima di sventrare un corpo dichiarato morto il cui cuore ancora batte e la cui temperatura corporea ancora corrisponde ai parametri vitali nella norma, gli anestesisti procedono alla somministrazione di potenti dosi di farmaci antidolorifici per via endovenosa a causa della responsività , motivo per il quale, dopo la somministrazione farmacologica, si immobilizza il «corpo morto» per evitare le contrazioni durante lo squartamento corporeo pro-espianto. In sintesi: un paziente morto che ha bisogno di farmaci antidolorifici, anestesie e immobilizzazioni per non contorcersi sa di tutto fuorché di morto.

 

Con una piena circolazione, conditio sine qua non per l’integrazione integrativa dell’organismo nel suo insieme, e non la parte cerebrale, si fa a brandelli un essere umano vivo e responsivo, come mostrato in un video presentato al convegno di Roma dal Dr. Byrne, dove durante lo sventramento chirurgico di un costato di un paziente per espiantare un organo si vedeva nitidamente il cuore battere e pulsare normalmente.

Gli anestesisti procedono alla somministrazione di potenti dosi di farmaci antidolorifici per via endovenosa a causa della responsività , motivo per il quale, dopo la somministrazione farmacologica, si immobilizza il «corpo morto» per evitare le contrazioni durante lo squartamento corporeo pro-espianto

 

Carta d’identità pro-morte

L’organo-mercato ha però bisogno di strategie serie e allo stesso semplici  per inserire quante più persone possibili nel Sistema Informativo dei Trapianti (SIT) del Centro Nazionale dei Trapianti (CNT), una vera e propria anagrafe di papabili donatori pronti all’uso, al quale nessuno ha accesso, se non, ovviamente, ventiquattro ore su ventiquattro, i medici del coordinamento espianti-trapianti. E così, attraverso la nuova Carta d’Identità elettronica verso la quale tutti, presto o tardi, per un fattore di validità, dovremo passare, viene fatta esplicita richiesta per la donazione di organi.

 

All’anagrafe, prima di qualsiasi altra cosa, viene presentato un modulo prestampato ingannevole, come se fosse obbligatorio (ma in realtà non lo è né per il Comune né per il cittadino) dove si chiede di dare o meno la propria approvazione per il prelievo degli organi. Se si firma il modulo, esso sarà raccolto negli archivi dell’anagrafe e la volontà del cittadino, a prescindere da quale essa sia verrà trasmessa telematicamente al Sistema Informativo dei Trapianti e al Centro Nazionale Trapianti.

Un paziente morto che ha bisogno di farmaci antidolorifici, anestesie e immobilizzazioni per non contorcersi sa di tutto fuorché di morto

 

Come riporta il sito italiano di antipredazione.org, associazione che da anni combatte contro la macchina di morte «tale modulo non esplicita che si tratta di espianto su persona in cosiddetta “morte cerebrale” a cuore battente, perpetuando la falsità del “dona dopo la morte” […]? degli espianti, «La propaganda fa passare questo imbroglio come una “opportunità in più” ma non è così: è invece il turpe tentativo di intrappolarci, di fatto, uno alla volta (donatori, NON-donatori ed astenuti) nel database del Centro Nazionale Trapianti, ponendo anche gravi problemi di privacy».

 

Bisogna perciò, in tutto e per tutto, rifiutarsi di firmare tale modulo all’anagrafe durante il passaggio alla Carta d’Identità elettronica. Il fatto che sia la prima cosa ad essere richiesta la dice lunga sull’insaziabile sete di organi che aleggia nell’aria.

 

All’anagrafe, prima di qualsiasi altra cosa, viene presentato un modulo prestampato ingannevole, come se fosse obbligatorio (ma in realtà non lo è né per il Comune né per il cittadino) dove si chiede di dare o meno la propria approvazione per il prelievo degli organi

Filosofia cerebrolesa 

Se gli argomenti medici, clinici e amministrativi contro la «MC» sono molti, non ne mancano nemmeno di filosofici. Da un punto di vista filosofico, infatti, la non funzione del cervello non può essere argomento per confermare la morte di una persona. 

 

A trattare in modo approfondito il tema durante il convegno di Roma è stato ovviamente il Prof. Seifert, fra le altre cose cofondatore della Accademia Internazionale di Filosofia (IAP).

 

Seifert, durante l’introduzione iniziale al convegno, ha esordito ribadendo ciò che la fede cattolica e la stessa filosofia classica insegnano: «Noi abbiamo un’anima spirituale, e la vita umana esiste prima ancora della formazione del cervello». 

 

Questo primo dato essenziale sarebbe già sufficiente per comprendere quanto la «Brain Death» sia una totale invenzione, essendo il cuore il primo e sostanziale organo a formarsi subito dopo il concepimento. Da questo possiamo comprendere come una persona, finché viva biologicamente, è viva anche spiritualmente. La tendenza utilitarista secondo la quale la persona è ridotta alle sue azioni, in base alla sua «qualità di vita», espone a considerare la persona non per ciò che realmente è, ma per ciò che fa. Questo va contro il disegno di Dio, che ha creato l’uomo, nella sua essenza, a Sua immagine e somiglianza.

 

«Noi abbiamo un’anima spirituale, e la vita umana esiste prima ancora della formazione del cervello»

Abbiamo inoltre già detto che la morte è un evento e non un processo.

Un evento che ha segni biologici evidenti, primo fra tutti la cessazione del battito cardiaco, delle stesse funzioni cardiache e, quindi, della circolazione ematica e del respiro. Pensando al Vangelo potremmo meditare sulla «scrupolosità» di Nostro Signore Gesù Cristo, che prima di risuscitare l’amico Lazzaro attese ben tre giorni per esser certo che fosse davvero morto. Morire vuole infatti dire cessare di vivere, in tutto e per tutto, ma questi due elementi – la vita e la morte – non possono essere oggetti strettamente legati alla scienza, quest’ultima non potendo approfondire gli aspetti sovrannaturali della questione.

 

Come diceva il grande filosofo cattolico Robert Speamann, venuto a mancare non molto tempo fa e citato nel convegno romano durante l’intervento di un altro interessantissimo relatore, Padre Waldstein, un monaco circestense, «l’anima è ciò che dà vita al corpo, è la prima attualizzazione dell’essere umano, la forma sostanziale che costituisce l’uomo nella sua totalità».

 

Se ne evince allora che nessuna parte del corpo in sé può rappresentare il tutto se non si tiene conto dell’anima e se non si guarda all’uomo nella sua totalità integrativa biologica, psicologica e spirituale. 

«L’anima è ciò che dà vita al corpo, è la prima attualizzazione dell’essere umano, la forma sostanziale che costituisce l’uomo nella sua totalità»

 

Potrebbe mai l’anima scindersi dal corpo, abbandonare il corpo per una disfunzione del cervello? La risposta è ovviamente negativa, poiché questo si porrebbe in palese contraddizione con l’unità integrale di anima e di corpo: ovverosia l’essere umano stesso. 

 

Qualcuno, anche fra presunti filosofi cattolici ma in realtà figli di una filosofia materialista, ha tentato di risolvere ed arrivare alla conclusione che l’anima risiederebbe nel cervello. Questa conclusione però risulta assurda sia da un punto di vista biostorico che da un punto di vista evolutivo: se l’anima è presente sin dal concepimento, quando ancora il cervello non è presente, come può l’anima risiedere nel cervello? L’anima risiede, piuttosto, in tutto il corpo.

 

Chiesa predatrice, chiesa espiantatrice

La poca conoscenza dell’anima e dell’interesse per la sua salvezza, è prerogativa della chiesa vatican-secondista. Non stupisce, quindi, che il lascia passare per alcune delle teorie che vorrebbero far risiedere l’anima nel cervello in modo da scavalcare eventuali ostacoli filosofici e teologici per uccidere le persone sia pervenuto proprio dai modernisti.

I discorsi di Wojtyla sui trapianti sono infarciti, come il solito modernismo insegna, da una agghiacciante ambiguità

 

Nonostante l’Accademia Giovanni Paolo II porti proprio il nome di Papa Wojtyla, non sono mancate, durante il convegno, critiche obiettive ad alcuni suoi pronunciamenti a proposito della «MC», in particolare nei discorsi rivolti ai partecipanti del Congresso Mondiale per i Trapianti, la fine degli anni ’90 e il 2000.

 

Se è vero che la Chiesa ufficiale non si è mai pronunciata in modo autorevole sul tema (e questo certo non è un bene), è altresì vero che i pochi discorsi e i pochi documenti esistenti a cui si può fare riferimento – come ad esempio i capitoli dedicati ai trapianti presenti nella Nuova Carta degli Operatori Sanitari del 2017 – sono infarciti, come il solito modernismo insegna, da una agghiacciante ambiguità.

 

Prendiamo appunto ad esempio uno stralcio di discorso che Giovanni Paolo II pronunciò il 29 agosto del 2000 ai partecipanti al Congresso Internazionale sui trapianti:

 

«La morte della persona, intesa in questo senso radicale, è un evento che non può essere direttamente individuato da nessuna tecnica scientifica o metodica empirica. Ma l’esperienza umana insegna anche che l’avvenuta morte di un individuo produce inevitabilmente dei segni biologici, che si è imparato a riconoscere in maniera sempre più approfondita e dettagliata. I cosiddetti “criteri di accertamento della morte”, che la medicina oggi utilizza, non sono pertanto da intendere come la percezione tecnico-scientifica del momento puntuale della morte della persona, ma come una modalità sicura, offerta dalla scienza, per rilevare i segni biologici della già avvenuta morte della persona».

 

Era il 1999 quando, in un’ intervista rilasciata a La Repubblica l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger dichiarò apertamente di essere iscritto all’albo dei donatori di organi

In particolare nell’ultima frase, si può facilmente individuare una ambigua definizione di nuovi «criteri di accertamento della morte», affidando sostanzialmente il rilevamento dei segni biologici per constatare la morte ad una «modalità sicura offerta dalla scienza».

 

Il discorso continua poi con una sostanziale ammissione ed accettazione della «concezione antropologica» della «morte cerebrale»:

 

«Di fronte agli odierni parametri di accertamento della morte, – sia che ci si riferisca ai segni “encefalici”, sia che si faccia ricorso ai più tradizionali segni cardio-respiratori -, la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita ad esercitare la responsabilità evangelica di confrontare i dati offerti dalla scienza medica con una concezione unitaria della persona secondo la prospettiva cristiana, evidenziando assonanze ed eventuali contraddizioni, che potrebbero mettere a repentaglio il rispetto della dignità umana».

 

«In questa prospettiva, si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica».

 

Una totale impreparazione su di un argomento che avrebbe poi fatto breccia, di lì in avanti, in tutte le accademie «pro-Life» della Chiesa Cattolica.

 

È ora di finirla con i falsi buonismi secondo il quale donare organi è un atto di bontà

Anche Ratzinger – quando ancora era Cardinal Ratzinger -, non sfuggì.

In pochi sanno che il prelato bavarese ci tenne a fare un notevole coming-out. Era il 1999 quando, in un’ intervista rilasciata a La Repubblica l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò apertamente di essere iscritto all’albo dei donatori di organi, definendo tale «donazione» come «un atto d’amore moralmente lecito, che deve però essere fatto volontariamente». Fu poi cancellato una volta eletto al Soglio, giacché ai papi gli organi non possono essere « almeno per ora »  estratti. La cosa in effetti fungerebbe da perfetta analogia: la Chiesa predata dalla neo-chiesa predatrice. 

 

Tornando all’atto di amore: si può parlare di «atto di amore» per la donazione di organi?

Evidentemente, viste le condizioni e le argomentazioni sin qui espresse circa il concetto di «morte» per gli addetti ai trapianto, no. Ma non solo per questo, e a spiegarlo è stato sempre il Dr. Paul Byrne, a Roma, quando con coraggio ha detto chiaro e tondo che è ora di finirla con i falsi buonismi secondo il quale donare organi è un atto di bontà. Byrne ha argomentato questa sua presa di posizione sostenendo, giustamente, che il nostro corpo è una cosa inviolabile e disposta da Dio, e che per nessuna ragione può essere privato di ciò che lo compone.

Il nostro corpo è una cosa inviolabile e disposta da Dio, e che per nessuna ragione può essere privato di ciò che lo compone

 

 

Conclusioni 

Da tutte queste considerazioni fatte possiamo arrivare ad una sola conclusione: la definizione ed il criterio di «morte cerebrale» deve essere considerato come aberrante sotto ogni punto di vista: clinico, etico, filosofico. Dobbiamo continuare a combattere per affermare che l’unica nozione a cui si può far riferimento è quella di morte clinica o naturale. Tutto il resto è una nebulosa di parole creata ad arte per permettere gli espianti a cuore battente, una vera e propria industria di organi e di corpi macellati, che si stima frutterà 51 miliardi di dollari dal 2017 al 2025 [3].

 

La morte non è legata ad un giudizio arbitrario poiché porta con sé caratteristiche evidenti e potenti. È totalmente arbitrario, invece, identificare un evento così lampante come la morte con la «morte» del tronco encefalico. 

Una vera e propria industria di organi e di corpi macellati, che si stima frutterà 51 miliardi di dollari dal 2017 al 2025

 

Opponiamoci ai necrocultori del nuovo millennio, fedeli eredi di una cultura pagana riemersa e pronta a fare il proprio mortifero proclamo: ritornare al sacrificio umano, ovvero all’idea di «aiutare qualcuno» uccidendo e sacrificando qualcun altro. Ucciderne uno per salvaguardare la collettività. 

 

Tutto questo non è null’altro che la sovversione bioetica. Ma, soprattutto, è un satanico rovesciamento della Croce di Cristo, che con il Suo Sacrificio perpetuo ha distrutto ogni tentativo di sacrifico umano ai dei gentium, riabilitando l’uomo nella sua nobiltà spirituale e corporea, dal suo concepimento sino alla morte naturale. 

 

Un satanico rovesciamento della Croce di Cristo, che con il Suo Sacrificio perpetuo ha distrutto ogni tentativo di sacrifico umano

Citando uno splendido riadattamento latino del Prof. Joseph Seifert, possiamo concludere dicendo: Ceterum censeo definitiones mortis cerebrali esse delendam.

 

Cristiano Lugli 

 

NOTE

[1] M GIACOMINI, “A Change of Heart a d a Change of Mind? Technology and the Redefinition of Death in 1968”, in «Social Science and Medicine», 44, 10, 1997, pp. 1465-1482.

CICERO GALLI COIMBRA, “Il test di apnea: un ‘disastro’ letale al capezzale del malato per evitare un ‘disastro’ legale in sala operatoria”, in «Finis vitæ. La morte cerebrale è ancora vita?,  p.144.

 

[2] “A Definition of Irriversible Coma. Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School of Examine Brain Death”, in «Journal of the American Medical Association», 205, 1968, pp. 337-340. 

 

[3] https://www.grandviewresearch.com/press-release/global-transplantation-market

 

 

Articolo apparso anche su Tradizione Cattolica.

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Autismo

Autismo, 28enne olandese sarà uccisa con il suicidio assistito: i medici la ritengono che «incurabile»

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Una donna autistica di 28 anni morirà di suicidio assistito a maggio nei Paesi Bassi dopo aver lottato con depressione e malattie mentali, con il suo psichiatra che le dice che le sue condizioni sono incurabili e non miglioreranno mai. Lo riporta LifeSiteNews.

 

La giovane, che non soffre di alcuna malattia fisica, ha deciso di porre fine alla sua vita con il suicidio assistito dopo che gli psichiatri hanno affermato di aver esaurito ogni mezzo per aiutarla ad affrontare le sue malattie mentali, che include il disturbo borderline di personalità, scrive The Free Press.

 

I suoi problemi con la malattia mentale le hanno impedito di finire la scuola o di iniziare una carriera.

 

Secondo le disposizioni della donna, dopo essere stata uccisa, il suo corpo sarà cremato senza funerale e le sue ceneri sparse nel bosco.

 

La scelta di togliersi la vita è stata presa nonostante la sua ammessa paura della morte derivante dall’incertezza di ciò che accade dopo la morte. «Ho un po’ paura di morire, perché è l’ultima incognita», ha detto. «Non sappiamo davvero cosa accadrà dopo – o non c’è niente? Questa è la parte spaventosa».

 

La diagnosi di autismo e malattia mentale come «incurabili» e «insopportabili» è diventata una tendenza crescente nei Paesi Bassi, con uno studio pubblicato nel giugno 2023 che ha rivelato 40 casi durante un periodo di 10 anni dal 2012 al 2021, scrive LifeSite. In un terzo di questi casi, a quelli con autismo o disabilità intellettiva veniva detto che non c’era speranza di migliorare la loro vita, e quindi la loro condizione veniva considerata «incurabile».

 

«Aiutare le persone con autismo e disabilità intellettive a morire è essenzialmente eugenetica», ha dichiarato Tim Stainton, direttore del Canadian Institute for Inclusion and Citizenship presso l’Università della British Columbia.

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L’uccisione programmata della donna autistica di 28 anni arriva mentre i Paesi Bassi continuano ad ampliare la portata di ciò che legalmente qualifica per l’eutanasia, con una nuova legge in vigore dal 1° febbraio che consente l’uccisione di bambini malati terminali di età compresa tra 1 e 12 anni ritenuti  malati al punto di «soffrire disperatamente e insopportabilmente».

 

La legge consente ai genitori di decidere di uccidere il proprio figlio anche se il bambino non è disposto o non è in grado di acconsentire, scrive LifeSite.

 

Come riportato da Renovatio 21, è in atto una Finestra di Overton in cui la popolazione viene portata gradualmente a considerare l’eutanasia degli autistici come un fatto razionale, accettabile, legale.

 

Tale manipolazione massiva verso l’uccisione degli autistici è destinata a crescere esponenzialmente visti i numeri dell’aumento dei casi di autismo, che fanno parlare di un vero e proprio «tsunami dell’autismo» che sta per investire la Sanità mondiale, le cui risorse economiche ed umane sono calcolate come insufficienti rispetto alla spaventosa quantità di persone colpite dalla malattia.

 

Nel frattempo, sta emergendo in tanta letteratura scientifica, come sottolineato di recente anche  dal dottor Peter McCullough: una correlazione netta tra autismo e transgenderismo.

 

L’eutanasia degli autistici – in quanto possibili danneggiati da vaccino – era stata preconizzata diversi anni fa da Renovatio 21, che ne parlò in una delle sue prime conferenze pubbliche. Il video è stato, ovviamente, censurato e tolto da YouTube, qualche mese fa.

 

Ne abbiamo testé caricato un brano su X.

 

«Quindi io mi chiedo, e sono conscio della forza di questa mia domanda: quanti anni ci vorranno prima che i bambini autistici finiranno in questo calderone?» domandavamo nel 2017.

 

L’eutanasia dei bambini autistici sarà una proposta che la realtà globale comincerà a discutere, e ad accettare, a brevissimo. Il cittadino del futuro è dipendente, prevedibile, domestico – e soprattutto spendibile. Scartabile a piacere, eliminabile magari pure con l’assenso dei famigliari.

 

Il Regno Sociale di Satana passa anche da qui.

 

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Eutanasia

La «Costituzione materiale» dell’Italia umanoide, tra eutanasia e gender di Stato

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Si è tenuta poche settimane fa, convocata dal neoeletto Presidente Augusto Barbera, la riunione straordinaria annuale della Corte Costituzionale, alla quale hanno partecipato anche il Presidente della Repubblica, rappresentanti delle camere e dell’esecutivo.   Nella sala a geometrie bianche e nere e con l’azzurro forte di certa araldica medievale, il quadro cromatico era adeguato al cipiglio polemicamente decisionista del presidente, accademico di lungo corso prestato alla politica su un versante che dall’ortodossia comunista degli inizi è scivolato fatalmente verso la metamorfosi ideologica del PD a trazione atlantista.   Dunque un uomo dei nostri tempi, nel senso della piena e progressiva consonanza con lo spirito del tempo prodotto dai potenti fabbricatori di etiche e di diritti, di pedagogie e di ideali, di cultura à la carte, ovvero del fantasmagorico luna park dove va in scena il nulla a tinta variabile, secondo le esigenze di mercato ma ad altissimo potenziale distruttivo.   E in una chiave «evolutiva» in ogni senso, il Presidente ha svolto il proprio discorso della corona, che come sempre in questi casi contiene il programma di governo e qualche nota sullo stato dell’unione, o meglio, della disunione che pare regnare tra la stessa Corte, la magistratura ordinaria e il Parlamento, disunione peraltro dovuta a qualche dissonanza di vedute etico politico giuridiche, peraltro opportunamente transeunti.   Anzitutto, in un fugace ma significativo preambolo è stato dispiegato tutto il repertorio canonico della correttezza politica in vigore. Dall’aggressione russa venuta dal nulla, all’orrore terroristico in medioriente che ha portato ad una «dura» reazione; dai femminicidi accostati ai morti sul lavoro, che così sono apparsi per quantità parificabili ai secondi, fino alla sempiterna condizione femminile, che non si sa se sia un dato archeologico o futurista.   Non sono mancate neppure le catastrofi ambientali causate, come è noto, oltreché dal cambiamento climatico, dalle abitudini umane, finché non è stata rievocata la fila dei camion militari pieni di bare a Bergamo e la consequenziale imposizione dell’obbligo vaccinale che, non per nulla, la Corte ha poi oculatamente legittimato.   Così, detto tutto quello che doveva essere detto, il Presidente Barbera è potuto entrare in medias res, per ribadire la fondatezza logica e giuridica di quell’obbligo, che era stato stabilito sulla base dei dati scientifici e sulle scelte, autorevoli per definizione, di altri autorevoli paesi. Riferimento doveroso nel giorno in cui si sono commemorate le vittime del covid, ma non quelle in continua espansione dei vaccini, per ovvi motivi di coerenza logica.   A proposito del rapporto tra la Corte e i giudici di merito cui spetta il compito di sollevare la questione di legittimità della norma da applicare nel caso concreto, ha lamentato come costoro, spesso, mossi da «eccesso valoriale» siano indotti a risolvere da soli tale questione, perché la overdose di scrupoli assiologici impedisce loro di attendere pazientemente il responso della Corte.   D’altra parte, tanto lavoro sarebbe risparmiato se questi giudici così zelanti, quando non sanno che pesci pigliare, si rivolgessero alle corti europee, vista la nota supremazia UE sull’ordinamento interno.   Ma la questione più grave da affrontare è, per il Presidente, quella della inerzia del Parlamento di fronte al necessario aggiornamento dei codici penale e civile sulle questioni cruciali del «fine vita», e delle note attitudini procreative e genitoriali della rinomata ditta LGBT etc.   Dunque una grande professione di fede progressista da parte di un attempato signore al quale la lunga esperienza di studio e di vita non impedisce di essere abbagliato dallo slancio vitale del nuovo, quello ritenuto capace di assicurare alla società sorti luminose a dispetto della realtà delle cose e della storia, della funzione ordinatrice e pedagogica del diritto, delle conseguenze di certe scelte politiche, di quella che dovrebbe essere la vocazione della intelligenza e della ragione.   Insomma il discorso presidenziale si è appuntato tutto sulla auspicata legalizzazione eutanasica, e sulla altrettanto auspicata legalizzazione delle «filiazioni» omosessuali, perché, in mancanza di lumi espliciti offerti dalla Carta costituzionale, è urgente che il Parlamento modifichi le norme ordinarie, in ossequio alla mutata «coscienza sociale», ovvero alla cosiddetta «costituzione materiale».   Solo che il problema giuridico e costituzionale è ben più complesso e sostanziale di quanto non vorrebbe far apparire la semplicistica, impavida e spericolata rappresentazione del Presidente.   Come ricordava Mortati, l’artefice principale della nostra, una Costituzione formale, scritta, serve a dare il necessario ordine e stabilità, con la fissazione di certi principi fondamentali, ad un ordinamento che non può giustificare la libera affermazione di comportamenti caotici lasciati a se stessi. Tuttavia, il medesimo ordinamento non può neppure rimanere estraneo alle continue mutazioni degli assetti sociali dovuti al divenire storico. Infatti sono proprio le istanze che vengono dal basso e dal diffuso sentire comune a formare una vera e propria «costituzione materiale» che precede e condiziona quella formale scritta nella quale essa si dovrebbe riconoscere.   Anche la Magna Charta fu il frutto della pressione e delle istanze dei baroni inglesi verso la Corona, perché il documento scritto non cade dal cielo, ma è la proiezione di forze sociali, di un sostrato ideale culturale e politico, che a sua volta è in continuo movimento. Non per nulla anche la nostra Carta costituzionale prevede la possibilità di una revisione delle proprie norme, a determinate condizioni procedurali.   Su questi presupposti concettuali ha fatto perno appunto il discorso del Presidente Barbera, volto a strigliare il Parlamento riluttante a legiferare su quei temi, che egli ritiene vitali per il progresso della civiltà italica, e a rispettare la «coscienza sociale» di un popolo che evidentemente, a suo modo di vedere, reclama a gran voce questo intervento e, se non lo reclamasse, mostrerebbe tutta la propria arretratezza.   Del resto, quando in passato il Parlamento ha registrato in via elettorale la volontà popolare, legalizzando l’aborto con la legge 194, ha posto una pietra miliare sulla via del progresso culturale e della affermazione di diritti fondamentali. Per non parlare del luminoso recente esempio fornito dalla Francia in cui l’aborto è salito al rango di diritto costituzionale.   Insomma «le assemblee parlamentari debbono rispondere alle esigenze della base elettiva. Il Parlamento deve cogliere le pulsioni evolutive e il continuo divenire della realtà. Mentre d’altro lato, la stessa Corte, se è custode della Costituzione, non deve costruire “una fragile Costituzione dei custodi”». Sicché, eventualmente, di fronte alla persistente inerzia del Parlamento, la Corte sarà costretta a farsi carico di dare riconoscimento in proprio ai «diritti fondamentali reclamati dalla coscienza sociale in costante evoluzione». In barba evidentemente anche alla separazione dei poteri e ad a una relativa spavalda usurpazione del potere legislativo.   Ma fermiamoci sull’insistita necessità di adeguamento ad una nuova coscienza sociale. Perché è anzitutto qui che casca l’asino.   Infatti, per parlare di coscienza sociale, bisognerebbe per prima cosa intendersi sul significato profondo e non superficialmente immaginifico di un lemma che ha bisogno di determinazione qualitativa e quantitativa. Non significa forse adeguamento ad uno zeitgeist che spira grazie alla imposizione mediatica, alla persuasione occulta attraverso il martellamento cinetelevisivo?   La coscienza sociale è forse quella performata attraverso la macchina mediatica? O non dovremmo guardare a una coscienza sociale che viene dal profondo dell’essere perché radicata come sedimentazione di un’etica che deve sussistere attraverso le generazioni per dare stabilità alla vita individuale e collettiva? Che a volte viene offuscata provvisoriamente dal frastuono e dalla prepotenza di minoranze chiassose e irresponsabili, come accadde proprio nei ribollimenti rivoluzionari, per tornare a riemergere una volta passata la tempesta?   Ma questa coscienza sociale propriamente detta non può di certo essere scambiata in modo tartufesco con quella ottenuta attraverso una omologazione programmata dall’alto. Con l’adeguamento alla pedagogia di un potere dominante munito di straordinari e sofisticati strumenti persuasivi. Un potere, tra l’altro, che dovrebbe essere incompatibile con la sbandierata eccellenza democratica, ogni riferimento alla quale è diventato indecoroso.   La coscienza di un popolo non è la sottomissione culturale indotta attraverso metodi sperimentali di psicologia sociale alla propaganda organizzata da una minoranza numerica che tiene in mano le redini della politica, magari come mandataria di mandanti più potenti.   Coscienza sociale non è l’addormentamento di sentimenti naturali attraverso l’indottrinamento di massa e la suggestiva necessità della omologazione. Non è la conformità di consensi falsamente spontanei, né la formazione di volontà e di fenomeni virtualmente «democratici».   Ora, se la necessità di un ordinamento giuridico è incontrovertibile, perché, come leggiamo nell’Odissea, solo i Ciclopi non hanno leggi, è anche vero che le leggi, per dirsi tali, non possono contravvenire a quella vocazione ordinatrice e di salvaguardia della comunità che chiamiamo bene comune. E questo fine non può essere perseguito senza l’ancoraggio a quel nucleo forte di valori che si traducono in principi, di regole scolpite, quelle sì, nella coscienza sociale, che chiamiamo in modo convenzionale «diritto naturale».   In altre parole, prima della Costituzione formale, e come sostrato stabile della costituzione materiale che la produce e la condiziona, ci deve essere un nucleo forte di principi saldi e irrefutabili, capaci di tenere in vita una società perché orientati a salvaguardare quella specificità umana che vede gli impulsi messi in forma dalla ragione, e la ragione orientata appunto al bene comune.   Questi sono i capisaldi morali della convivenza umana, che per i credenti sono stati scritti nelle tavole eterne della legge divina, ma che anche i laicisti possono individuare, secondo la nota lezione di Grozio «etsi Deus non daretur», nelle leggi che dovrebbero essere altrettanto eterne, individuate ed individuabili con la ragione.   Cose arcinote, si dirà. Ma che non ci si deve mai dimenticare di ricordare, perché è proprio qui che si annida il veleno, sempre in agguato nella retorica di una trappola terminologica. Rispetto a questo sostrato indefettibile, la Costituzione materiale di cui si parla da quando si è affermato il fenomeno costituzionale non rappresenta una entità sovrapponibile né omogenea, ma piuttosto una eccedenza sociopolitica sicuramente legata alle evoluzioni politico economiche e grosso modo culturali di un mondo in continuo movimento. Ma, al di là delle eccedenze legate a trasformazioni strutturali e istituzionali, l’etica profonda e sempre riaffiorante di una comunità umana è quella essenziale che rimane e deve rimanere immutata, in quanto ne garantisce un armonico perpetuarsi.   Sono le leggi fondamentali della convivenza volte teleologicamente al bene di una comunità che contiene anche l’io etico che va sottratto ai venti di dottrina e all’arbitrio del potere, che non deve essere esposto alle variabili ideologico culturali oggi più che mai dettate da interessi estranei al progresso morale e spirituale degli individui e della società di cui fanno parte.   Dunque, quando si parla di principi che precedono e devono precedere, per guidarla, la legge positiva, che è scritta perché posta dal potere politico, c’è il pericolo di un equivoco micidiale, di un corto circuito in cui il discorso viene imprigionato in un labirinto di parole senza uscita.   C’è il pericolo che per principi eterni e cogenti vengano spacciati quelli formulati nello spazio contingente occupato da una politica fine a se stessa, per dare senso alle proprie scelte operative. Basti pensare all’abusato principio di libertà intesa come affermazione di autonomia assoluta della volontà individuale, incurante delle conseguenze; o della cosiddetta uguaglianza che vorrebbe parificare capre e cavoli come appunto nel caso delle aspirazioni genitoriali della premiata ditta LGBT impegnata nella fabbricazione di umanoidi secondo scienza e incoscienza.   Per questo Barbera, da uomo esperto di giochi logici e paralogici, finisce per accennare polemicamente ad una mentalità positivistica, peraltro a suo dire declinante, di quanti, volendo rimanere ancorati a quello che i costituenti e il legislatore hanno scritto, evidentemente non immaginavano la deriva demenziale dei tempi avvenire, non si esaltano alla prospettiva di allargare il proprio orizzonte accogliendo le istanze di una «coscienza sociale» che invoca aborto, eutanasia e procreazioni fasulle.   Insomma egli critica velatamente quanti, dentro e fuori del Parlamento, rimangano ancora fermi alla attuale lettera delle leggi positive, negando la esistenza di un fantomatico diritto naturale legato alla nuova coscienza sociale, ovvero alla nuova costituzione materiale intesa nel senso che è stato indicato.   E non si accorge che, invocando l’intervento del Parlamento, auspica la cristallizzazione di nuovi principi etici i quali, lungi dall’essere iscritti nella coscienza comune come egli vorrebbe, sono frutto di una precisa ideologia adottata dalla politica. E non di una coscienza sociale che viene dalla sedimentazione di una storia dello spirito perché nutrita di esperienza secolare nella faticosa ricerca del bene collettivo, il solo capace di assicurare anche quello individuale. Attraverso una storia e una filosofia che in Occidente ha visto la fusione tra eredità greco romana e cristianesimo. O, più semplicemente, di una coscienza morale che sente in profondità quale vera filosofia della vita possa dare senso alla esistenza individuale e contribuire al bene comunitario al quale è non può non essere estranea l’uccisione dell’essere umano nel grembo materno, come l’unione sessuale contro natura o la morte inflitta per legge ad un innocente.   Barbera arriva a dire che nella Costituzione non c’è traccia letterale di principi che precludano l’ingresso di queste nuove auspicate norme. È vero, ma soltanto perché per costituenti «normali» come uomini, come politici e come giuristi, erano semplicemente impensabili queste novità venute da lontano, ma ora tutte leggibili alla luce della morte di Dio che significa morte di quell’umanità che a Dio si è sempre rivolta per dare senso alla propria esistenza.   Egli, più che guardare alla «coscienza» fittizia a cui si appella, dovrebbe guardare a cosa i costituenti guardavano dal punto di vista etico quando scrivevano la legge fondamentale per assicurare alla nazione una tenuta spirituale duratura. Quella che sola può assicurare la sopravvivenza identitaria di un popolo a fronte dei mutamenti contingenti e artificiali della politica e per la quale, ad esempio, già nei primi anni novanta, dopo settant’anni di ateismo di Stato, le chiese dei territori ex sovietici tornavano a traboccare di fedeli.   Che la Costituzione scritta preveda la necessità di un adeguamento delle leggi al divenire storico e al nuovo che materialmente si inserisce nella realtà comunemente vissuta, è vero. Ma questo adeguamento non può fare a meno di perdere l’ancoraggio a quei principi etici senza i quali le novità materiali travolgono la convivenza umana come una valanga di detriti informi che si abbatta a valle senza trovare ostacoli.   Inoltre, se il diritto è un prodotto del potere politico, né potrebbe essere altrimenti dal momento che occorre un’autorità capace di renderlo effettivo, esso si snatura quando diventa strumento della politica intesa come esercizio del potere che alimenta se stesso. Tanto più quando lo si crea appellandosi, per autogiustificarsi, a un sostrato ideale sottostante e lo si fa passare, in altre parole, per diritto naturale positivizzato.   È quanto avviene non a caso nei regimi totalitari: fu teorizzato da Vishinskij per quello sovietico e fatto proprio parimenti dal nazionalsocialismo. Qui il diritto era al servizio della politica. Si spacciava per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica: non per nulla anche le leggi razziali furono introdotte in omaggio a un supposto sentimento popolare.   Allo stesso modo in cui le proposte normative del presidente rispecchiano la deriva culturale che la politica alimenta in ragione del proprio nichilismo ideologico. Dove il nulla morale della politica genera il nulla morale e culturale di cui fa uno strumento di potere, mentre viene spacciata per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica.   Intanto, il veleno della disintegrazione morale risulta persino più potente perché inoculato a dosi prima piccole e poi sempre crescenti, proprio per annichilire le coscienze, come l’oppio serviva ai britannici per fiaccare il popolo che essi intendevano sottomettere.   Barbera dovrebbe chiedersi piuttosto, da giurista di vaglia, quali siano le conseguenze, che già si vedono, della torsione indotta su larga scala di un sentire veramente radicato che ha sorretto la vita di un popolo, dando forma alla sua arte, alla sua filosofia, alla sua letteratura, prima della débacle contemporanea.   Questo popolo ha conservato sempre un senso alto della vita e della morte perché inserite nella metafisica cristiana.   Esso ha inteso custodire nella propria anima, ad esempio, i propri figli morti lontano nella inutile strage, fermandone la memoria scolpita anche in mille lapidi di mille piccoli antichi borghi d’Italia, come nel grande tempio di Redipuglia.   Anche se altri ricordi meno riparati saranno poi cancellati dalle diaboliche distruzioni della nuova guerra venuta dal progresso.   Ma gli accorati eutanasisti di oggi, che nulla sanno della morte solitaria sul Carso, si compiacciono alla idea appagante della morte umanitaria inflitta in una stanza sterile a dozzina, perché nulla sanno del senso che la morte assume quando viene incastonata nella idea della continuazione, del congiungimento degli anelli che danno senso alla esistenza umana.   Non vedono come la morte inflitta in applicazione di un protocollo sanitario, compiaciuto di essere anche umanitario, diventi, proprio nella coscienza comune, un evento che nulla conserva di quella sublimazione di cui soltanto l’uomo può essere capace.   Del resto, è proprio l’idea della scissione a dominare lo spirito filantropico degli eutanasisti. Quella che, vestendo i paramenti nobili della autonomia, separa i morti dai vivi, e recide legami famigliari e annienta il senso alto della vita – ce lo ricordava Mario Palmaro – e toglie valore all’uomo in sé e alla sua esistenza individuale e comunitaria.   Il culto e la memoria dei morti secondo il destino comune collega le generazioni e non le fa sentire abitatrici di un vuoto intermedio, come la radice comune che lega il genitore al figlio riempie un vuoto in cui ci perderemmo se non fossimo tenuti per mano da chi ci ha generato, nell’alveo sacro della famiglia.   Ora invece si apparecchia il nulla per tutti, attraverso le anomalie della vita contro natura, e della morte à la carte. E si ritiene di mettere in forma l’anomalia appunto usando la norma, che infatti comporta normalizzazione. In entrambi i casi viene calata l’arma ricattatoria della pietà e dei buoni sentimenti. Secondo lo stesso meccanismo per cui la cremazione è preferibile «perché è una cosa pulita». E secondo la psicologia di ogni bene-fattore di modello filantropico sorosiano.   Tuttavia è certo che le due proposte sul tappeto, unificate dalla stessa mentalità nichilistica, agnostica e antiumana, in una visione economica neomalthusiana, seguano strade proprie sotto l’ombrello del valore oggettivo delle scelte individuali, per confluire nel travisamento della funzione e delle finalità delle leggi.   Le pretese LGBT, non per nulla identificate da una sigla di tipo commerciale, e la cosa basta a fotografare il fenomeno, navigano nello spazio onirico della allucinazione, di una visione drogata dal delirio di onnipotenza che pretende di ottenere consacrazione giuridica, cioè di acquistare valore assoluto in via burocratica. Una visione che rispecchia bene la disintegrazione intellettuale, prima che morale, dell’Occidente.   A dimostrare la incongruità di fantomatici diritti sbandierati dalla prima, dovrebbe bastare la considerazione che diritto soggettivo può essere soltanto quella pretesa riconosciuta meritevole di tutela dalla legge in quanto coincidente con l’interesse collettivo. E che da quel concetto esula invece ogni pretesa, individuale e particolare, che con quest’interesse non abbia nulla a che fare.   Al contrario, le istanze eutanasiche muovono da una realtà di fatto: si connettono al problema reale della sofferenza prolungata spesso indotta paradossalmente dal progresso delle tecniche sanitarie, sfruttano una realtà oggettiva per nulla insignificante. Infatti è reale e oggettiva la possibilità, anzi la frequenza, con cui chi è aggredito da sofferenze inenarrabili sia indotto ad invocare la morte liberatrice. Ed è problema antico.   In una scena finale della Notte di San Bartolomeo di Mérimeèe, uno di due fratelli uniti da amore profondo ma divisi da opposte scelte teologiche e politiche, e che infatti combattono a La Rochelle su fronti opposti, viene ferito a morte e soccorso proprio dall’altro, che lo mette a riparo e si dispera non accettando neppure l’idea dell’irreparabile. Il ferito in preda ormai a dolori insopportabili chiede da bere, ma questo gli viene negato perché affretterebbe la morte. Finché sopraggiunge il chirurgo e, compreso che non c’è speranza di salvarlo, fa passare il fiasco del vino al morente che spira di lì a poco.   L’episodio ovviamente richiama solo alla lontana e soltanto per certi profili umani il problema con cui abbiamo a che fare. Ma sta a significare come il rapporto col dolore e la morte abbia sempre impegnato la coscienza su un terreno in cui da sempre aspetti personali, etici, affettivi, razionali spesso in contrasto fra loro si intreccino chiamando in causa anche la questione della responsabilità.   In altre parole, si tratta in ogni caso di un problema che appartiene anzitutto, impegnandola, alla vita dello spirito, e in questo senso implica e richiede una assunzione personale di responsabilità. Mentre si snatura quando il piano della coscienza viene invaso dalla autorità calcolante del legislatore e del giudice.   Infatti l’aporia oggi sta proprio nella pretesa di affidare per legge ad un terzo una decisione sulla vita altrui, che per forza di cose si fonda su fattori non controllabili e indeterminati.   L’indisponibilità oggettiva della vita umana, è principio primo della convivenza e quindi il frutto più maturo della civiltà giuridica approdata, dopo un faticoso cammino secolare, a sancirlo, anche nei confronti dello Stato, con la abolizione della pena di morte.   Il monito biblico «nessuno tocchi Caino» acquista in questo senso tutto il suo contenuto più profondo.   Una indisponibilità oggettiva ben messa a fuoco dalle norme del codice penale che puniscono ancora, occorre dirlo con una certa apprensione, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Norme da cui emerge non a caso la preoccupazione del legislatore che la possibilità dell’omicidio si possa insinuare surrettiziamente, attraverso il contributo di una minorata difesa della vittima.   Una preoccupazione che però non sembra sfiorare tutti i sensibilissimi promotori eutanasici incapaci di sollevare lo sguardo al di sopra dei pensieri e delle emozioni facili. Perché occorre ribadirlo in modo che può apparire brutale a chi osservi con superficialità il problema: la cosiddetta eutanasia, o la si ricolloca, sia pure con mille distinguo, nell’alveo del dominio degli affetti e delle esperienze famigliari, nella storia privata dello spirito e della vita, e della responsabilità degli individui, oppure la si getta nei meccanismi della irresponsabilità burocratica, dell’arbitrio individuale legalizzato oppure di quello sempre in agguato dello Stato.   Questo aspetto continua a sfuggire alle anime belle che, senza rendersene conto, preferiscono consegnare nelle mani del potere ciò che appartiene allo spazio sovrano e duttile, ma non disumanizzato, della vita irripetibile dello spirito e dei rapporti privati.   Il paradigma completo della questione sul tappeto, con tutte le sue inquietanti implicazioni, lo abbiamo avuto nella sacra rappresentazione allestita nel 2009 col caso Englaro.   Lì si sono giocati i falsi sentimenti, i falsi diritti, le falsificazioni materiali e mediatiche, le aberrazioni giuridiche e quelle politiche. Dove l’arbitrio e l’inconsapevolezza, la suggestione e la pressione psicologica, hanno fatto da padroni e allo stato di minorata difesa della vittima sacrificale ha corrisposto l’interesse e il pragmatismo, la forza del potere e le mille modulazioni psicologiche o psicopatologiche di tutti gli attori in commedia, meno le tante voci della compassione e quella di poche materne infermiere.   Il punto estremo a cui può arrivare un tale meccanismo inesorabile lo abbiamo potuto sperimentare con le mostruosità che continuano ad essere esibite impunemente negli infernali ospedali britannici ormai specializzati a sopprimere per ordine del giudice bambini piccolissimi di genitori inermi di fronte ad un potere dal volto diabolico.   Dunque, una strada aperta dalla raccapricciante vicenda di Terri Schiavo, replicata con piccole varianti da quella di Eluana Englaro e poi dai piccini uccisi in Inghilterra. Tutti casi accomunati dall’essersi trattato di condanne a morte di innocenti eseguite per ordine del giudice, dunque dalla possibile longa manus del potere politico, oppure da chi si troverà a dover applicare una legge anch’essa frutto di un accomodamento politico, o… di un ordine presidenziale.   Ed è proprio questo che, anche da un punto di vista strettamente giuridico, senza neppure richiamarci alla legge divina, sembra sfuggire ai nuovi illuministi. Essi non si chiedono se, una volta concessa la licenza di uccidere – non importa a quali condizioni, comunque sempre interpretabili e sempre valicabili – questo potere non possa essere usato per scopi che nulla hanno a che fare con la nobile propria con-passione per la sofferenza altrui. Ma potrebbe tornare utile anche allo Stato Leviatanico per eliminare qualche scomodo intruso.   Così come il giurista di vaglia assiso alla presidenza della Corte Costituzionale non si chiede neppure cosa sarà la vita inflitta ad individui venuti dal nulla oscuro dell’arbitrio individuale e di un cieco egoismo consacrato per legge. Perché, al concetto di diritto soggettivo quale pretesa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento perché coincidente con l’interesse collettivo, ha sostituito quello stabilito a suo tempo dalle Cirinnà, dai Vendola e dal Corriere della Sera, quale riconoscimento dovuto a qualsivoglia appetito individuale o di consorteria.   Che ne sarà di una società popolata dai prodotti di disadattati esistenziali in delirio di onnipotenza? Questa mancanza di riflessione dovrebbe preoccupare quanti finiranno per pagare e faranno pagare ad altri le costose conseguenze della propria follia.   Ci sono oggettive ragioni di contenuto etico e culturale che debbono guidare il diritto nel senso della sua vocazione di miglioramento antropologico. I presupposti di valore capaci di orientare la legge verso una oggettiva eticità, il bene comune, lo abbiamo chiamato diritto naturale scritto da Dio o messo in forma dagli uomini, sempre con la finalità di tracciare i limiti entro cui la legge non diventa quella del più forte, o di un potere antiumano.   Qui si gioca il senso stesso del diritto che o è per l’uomo, o non è. Per l’uomo considerato valore in sé, non quantificabile e non commerciabile, non riproducibile né sopprimibile a piacimento.   Patrizia Fermani   Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Eutanasia

Capo della sanità belga sostiene che l’eutanasia è la soluzione all’invecchiamento della popolazione

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.

 

Il presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Luc Van Gorp ha dichiarato questa settimana ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.

 

Come tutti gli altri Paesi europei e, in effetti, il resto del mondo a parte l’Africa sub-sahariana, il Belgio deve far fronte a un enorme aumento del numero dei suoi anziani. Gli ultraottantenni raddoppieranno entro il 2050, passando dai circa 640.000 attuali a 1,2 milioni. La pressione finanziaria sull’assistenza sanitaria, sui farmaci e sulle case di cura aumenterà.

 

Più soldi non sono la soluzione, dice Van Gorp. «Non importa quanto finirai per investire, non sarà comunque sufficiente. Semplicemente non ci sono abbastanza operatori sanitari per svolgere questo lavoro», ha affermato.

 

«Abbiamo davvero bisogno di tutti quei centri di assistenza residenziale aggiuntivi? Costruire semplicemente stanze senza fare nulla per risolvere la carenza di personale non è un modello sostenibile. Mi manca la domanda sul perché nell’assistenza agli anziani. Perché facciamo affari nel modo in cui li facciamo adesso? Spesso non c’è risposta a questo».

 

È a favore di «un approccio radicalmente diverso» – non chiedendo «per quanto tempo posso vivere?», ma «per quanto tempo posso vivere una vita di qualità?». Propone l’eutanasia per le persone che credono che la loro vita sia completa. «Il suicidio è un termine troppo negativo», afferma Van Gorp. «Preferirei chiamarlo: ridare indietro la vita. So che è una questione delicata, ma dobbiamo davvero avere il coraggio di sostenere questo dibattito».

 

In un’intervista a Nieuwsblad, Van Gorp ha dichiarato:

 

«Tutti vogliono che i loro genitori e i loro nonni restino il più a lungo possibile, giusto? Ma quelle persone lo vogliono anche loro? E di cosa hanno bisogno per questo? Queste domande vengono poste troppo poco. Alcune persone con più di 80 anni non avranno bisogno di nulla per invecchiare bene. Potranno anche sostenere gli altri, ad esempio tenendo loro compagnia. Altri hanno bisogno di molte cure e, per essere chiari, dobbiamo continuare a fornirle».

 

«Ma che dire della categoria degli anziani che ricevono la massima assistenza, ma che ancora non hanno la qualità di vita che desiderano? Questa domanda viene posta troppo poco».

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Numerosi politici hanno sostenuto l’appello di Van Gorp a fare di «una vita completa» una giustificazione per l’eutanasia. Tuttavia, il leader cristiano-democratico Sammy Mahdi ha criticato i commenti. «Questo mi fa arrabbiare”, ha scritto su X. “Se qualcuno è stanco della vita e sente di essere d’intralcio o di non ricevere più visite, non stiamo semplicemente fallendo come società?»

 

Van Gorp ha ribadito i sentimenti espressi nella sua intervista a Nieuwsblad.

 

In un editoriale per il quotidiano belga De Morgen ha scritto:

 

«La domanda di cure non farà che aumentare nei prossimi anni. Se continuiamo a fare come stiamo facendo oggi, andremo incontro ad un vero e proprio crollo dell’assistenza sanitaria. Possiamo evitare che ciò accada solo se scegliamo un approccio radicalmente diverso, da quello di una società sana che metta al primo posto la qualità della vita anziché la quantità».

 

Semplicemente non ci sono abbastanza assistenti o spazio per far vivere gli anziani, dice: «numerosi operatori sanitari hanno da tempo indicato che non è possibile continuare in questo modo. Semplicemente non ci sono abbastanza mani professionali rimaste per fornire tutta l’assistenza. E come società, creiamo troppo poco spazio per prenderci cura di coloro che ci sono più cari».

 

Van Gorp chiede un dibattito nazionale urgente sulla questione: «per quanto delicata sia, dobbiamo avere il coraggio di entrare nel dibattito sulla qualità della vita, anche alla fine della vita. Meglio oggi che domani».

 

Michael Cook

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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