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Bioetica

Il significato del codice di Norimberga: il diritto universale del consenso informato agli interventi medici

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Renovatio 21 traduce e pubblica questo articolo per gentile concessione di Alliance for Human Research Protection

 

 

 

Il diritto universale del consenso informato agli interventi medici è stato riconosciuto nella legge statunitense almeno dal 1914.

 

 

  1. Quell’anno, la Corte d’Appello di New York stabilì il diritto al consenso informato all’intervento medico in un caso che coinvolgeva un intervento chirurgico non consensuale (Schloendorff contro Society of New York Hospital 105 N.E. 92, 93 N.Y. (1914)).

 

Il giudice Benjamin Cardozo ha così articolato il ragionamento della corte:

 

«Ogni essere umano di età adulta e di mente sana ha il diritto di determinare cosa deve essere fatto con il proprio corpo; e un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del suo paziente commette un’aggressione per la quale è responsabile dei danni»

«Ogni essere umano di età adulta e di mente sana ha il diritto di determinare cosa deve essere fatto con il proprio corpo; e un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del suo paziente commette un’aggressione per la quale è responsabile dei danni».

 

 

  1. Il Codice di Norimberga del 1947 è il documento legale più importante nella storia dell’etica della ricerca medica. Ha stabilito 10 principi fondamentali della ricerca clinica etica.

Il primo e più importante principio è inequivocabile:

 

«Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale».

 

«Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale»

Esso vieta di condurre ricerche su esseri umani senza il consenso informato dell’individuo.

 

Il significato del codice di Norimberga è il seguente:

 

  • Il Codice di Norimberga è stato formulato da eminenti giuristi del governo degli Stati Uniti in collaborazione con eminenti consulenti medici statunitensi;

 

Ai sensi del Codice di Norimberga, la responsabilità per le violazioni del consenso informato spetta ai singoli medici, funzionari governativi – e ai loro assistenti e sostenitori – ognuno dei quali può essere perseguito per crimini contro l’umanità.

  • Aveva l’accordo multilaterale dei governi di USA, URSS, Francia e Regno Unito;

 

  • Il Codice di Norimberga ha esteso i diritti umani oltre i confini dei singoli Paesi;

 

  • Il diritto al consenso informato è riconosciuto in tempo di Pace e in tempo di guerra.

 

  • Il Codice di Norimberga fornisce una giustificazione legale per contestare le violazioni del consenso informato.

 

  • Ai sensi del Codice di Norimberga, la responsabilità per le violazioni del consenso informato spetta ai singoli medici, funzionari governativi – e ai loro assistenti e sostenitori – ognuno dei quali può essere perseguito per crimini contro l’umanità.

 

 

  1. Sulla scia della divulgazione pubblica dell’esperimento sulla sifilide di Tuskegee del governo degli Stati Uniti (1932-1972), il governo convocò la Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani della ricerca biomedica e comportamentale. La Commissione ha pubblicato il Rapporto Belmont: Principi etici e linee guida per la protezione dei soggetti umani di ricerca (Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research – 1979).

 

Il Rapporto Belmont riconosce fin dal’esordio che il Codice di Norimberga «è diventato il prototipo di molti codici successivi destinati a garantire che la ricerca che coinvolge soggetti umani sarebbe stata condotta in modo etico».

Il Codice di Norimberga «è diventato il prototipo di molti codici successivi destinati a garantire che la ricerca che coinvolge soggetti umani sarebbe stata condotta in modo etico»

 

Tuttavia, i regolamenti federali si applicano solo alla ricerca umana sponsorizzata dal governo e, a differenza del Codice di Norimberga, questi regolamenti sono stati «modificati» in risposta alle pressioni politiche. Ad esempio, 45 CFR 46.408 (c) rinuncia al consenso dei genitori per l’utilizzo dei bambini come soggetti umani. «Questa rinuncia è solitamente ma non sempre limitata alla ricerca sul rischio minimo…».

 

 

  1. La prima decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti in cui è stato invocato il Codice di Norimberga è stata nel 1987. Il querelante era un sergente dell’esercito degli Stati Uniti che ha chiesto un risarcimento – essendo stato vittima di un esperimento segreto di controllo mentale con l’LSD sponsorizzato dalla CIA [Stati Uniti contro Stanley, 483 YS 669 (1987)].

 

Il giudice Brennen ha scritto l’opinione dissenziente – condivisa dai giudici Marshal, Stevens e O’Connor:

 

«I test medici mostrati a Norimberga nel 1947 hanno profondamente convinto  il mondo che la sperimentazione con soggetti umani inconsapevoli è moralmente e legalmente inaccettabile. Il Tribunale militare degli Stati Uniti ha istituito il Codice di Norimberga come standard rispetto al quale si applica a tutti i cittadini, sia militari che civili»

  • «Negli esperimenti progettati per testare gli effetti dell’LSD, il governo degli Stati Uniti ha trattato migliaia di suoi cittadini come se fossero animali da laboratorio, trattandoli con questo farmaco pericoloso senza il loro consenso. Una delle vittime, James B. Stanley, chiede un risarcimento ai funzionari del governo che lo hanno ferito…»

 

  • «… è importante collocare la condotta del governo in un contesto storico».

 

«I test medici mostrati a Norimberga nel 1947 hanno profondamente convinto  il mondo che la sperimentazione con soggetti umani inconsapevoli è moralmente e legalmente inaccettabile. Il Tribunale militare degli Stati Uniti ha istituito il Codice di Norimberga come standard rispetto al quale si applica a tutti i cittadini, sia militari che civili».

 

  • Il suo primo principio era: «Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale».

 

 

  1. Nel 1994, il Comitato consultivo per gli esperimenti con radiazioni sugli uomini è stato incaricato di indagare e documentare la portata degli esperimenti non etici con radiazioni del governo degli Stati Uniti. Il Rapporto (ACHRE) (1995) include esperimenti di controllo mentale della CIA e dedica due capitoli al Codice di Norimberga, e descrive la crescente influenza che il Processo dei Medici di Norimberga e il Codice di Norimberga hanno avuto sull’establishment medico americano.

«Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale»

 

Mentre nell’edizione del 1949 del più noto libro di testo di giurisprudenza medica americana, Doctor and Patient and the Law di Louis Regan, medico e avvocato, non citava nemmeno il Codice di Norimberga, dedicando solo poche righe al tema della sperimentazione umana, nell’edizione del 1956 l’argomento è stato ampliato a tre pagine e il preambolo del codice è stato ribadito alla lettera (senza virgolette). Il dottor Regan ha aggiunto: «tutti sono d’accordo» su questi principi. Sono «l’insieme di precetti più attentamente sviluppato e specificamente disegnato per affrontare il problema della sperimentazione umana».

 

Il rapporto ACHRE osserva che: «mentre la causa [di Stanley] non ha avuto successo, le opinioni dissenzienti hanno messo l’esercito – e per associazione l’intero governo – sull’avviso che l’uso di individui senza il loro consenso è inaccettabile. L’applicazione limitata del Codice di Norimberga nei tribunali statunitensi non sminuisce il potere dei principi che esso sposa…» [«Rapporto ACHRE» capitolo 2 e capitolo 3 (1995)]

 

 

Il codice di Norimberga è una sintesi dei requisiti legali per la sperimentazione sugli esseri umani: il codice richiede che sia ottenuto il consenso informato, volontario, competente e comprensivo del soggetto di ricerca. Sebbene questo principio sia posto al primo posto nei dieci punti del Codice, gli altri nove punti devono essere soddisfatti prima ancora che sia opportuno chiedere al soggetto il consenso

  1. Nel 2001, la Corte d’Appello del Maryland ha citato esplicitamente il Codice di Norimberga come fonte di standard etici legalmente applicabili nel caso contro il Kennedy Krieger Institute.

Il caso ha coinvolto un esperimento governativo di abbattimento del piombo che ha esposto i bambini neri del centro città alla vernice al piombo. Lo scopo era registrare gli effetti dannosi del piombo.

 

I genitori non sono stati informati sullo scopo o sui rischi. [Grimes / Higgins contro Kennedy Krieger Institute, Maryland Court of Appeals, 366 Md 29; 782 A2d 807 (2001)].

 

«I ricercatori e il loro comitato di revisione istituzionale apparentemente non hanno visto nulla di sbagliato nei protocolli di ricerca che prevedevano il possibile accumulo di piombo nel sangue di bambini altrimenti sani a seguito dell’esperimento, oppure credevano che i consensi dei genitori dei bambini facessero la ricerca appropriata».

 

«Di particolare interesse per questa Corte, il Codice di Norimberga, almeno in parte significativa, era il risultato del pensiero giuridico e dei principi legali, in contrasto con i principi medici o scientifici, e quindi dovrebbe essere lo standard preferito per valutare la legalità della ricerca scientifica su soggetti umani. Sotto di esso sorgono doveri verso i soggetti di ricerca».

 

Il codice di Norimberga è una sintesi dei requisiti legali per la sperimentazione sugli esseri umani: il codice richiede che sia ottenuto il consenso informato, volontario, competente e comprensivo del soggetto di ricerca. Sebbene questo principio sia posto al primo posto nei dieci punti del Codice, gli altri nove punti devono essere soddisfatti prima ancora che sia opportuno chiedere al soggetto il consenso.

 

Il Codice di Norimberga è la «dichiarazione più completa e autorevole della legge sul consenso informato alla sperimentazione umana». Fa anche parte del diritto comune internazionale e può essere applicato, sia in cause civili che penali, da tribunali statali, federali e municipali negli Stati Uniti.

 

 

Il Codice di Norimberga è la «dichiarazione più completa e autorevole della legge sul consenso informato alla sperimentazione umana»

  1. Nel 2009, la Corte d’Appello del Secondo Circuito degli Stati Uniti nel distretto meridionale di New York ha citato il Codice di Norimberga come:

 

  • «la norma universalmente accettata nel diritto internazionale consuetudinario in materia di sperimentazione medica non consensuale”.

 

Il caso ha coinvolto Pfizer che ha condotto una sperimentazione non approvata del suo antibiotico sperimentale, Trovan, su bambini in Nigeria. La corte ha dichiarato colpevole Pfizer. [Rabi Abdullahi, et al. contro Pfizer, Inc., 562 F.3d (2d Cir.2009)]

 

«Tra gli esperimenti non consensuali che il tribunale ha citato come base per le proprie condanne c’erano i test di farmaci per l’immunizzazione contro la malaria, l’ittero epidemico, il tifo, il vaiolo e il colera. Sette dei medici condannati sono stati condannati a morte e gli altri otto sono stati condannati a diversi termini di reclusione».

 

«Norimberga era basata su principi [legali] duraturi e non su espedienti politici temporanei»

«La conclusione del tribunale americano secondo cui l’azione che violava il primo principio del Codice costituiva un crimine contro l’umanità è una lucida indicazione del significato giuridico internazionale del divieto di sperimentazione medica non consensuale».

 

Telford Taylor ha spiegato: «Norimberga era basata su principi [legali] duraturi e non su espedienti politici temporanei, e questo punto fondamentale è evidente dalla riaffermazione dei principi di Norimberga nella legge n. 10 del Consiglio di controllo e dalla loro applicazione e perfezionamento nelle 12 sentenze rese ai sensi di tale legge durante il periodo di tre anni, dal 1947 al 1949».

 

 

«Non puoi essere costretto a essere una cavia umana. Abbiamo diritto all’integrità fisica»

  1. Nel 2013, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribadito il principio legale del consenso informato in un caso che coinvolge un cittadino che ha rifiutato di acconsentire a un esame del sangue. Un campione di sangue è stato prelevato contro la sua volontà su ordine di un agente di polizia. In una sentenza 6 a 3, la Corte Suprema si è pronunciata a favore del ricorrente, anche se i giudici hanno riconosciuto che sia la privacy che il danno erano minimi [Missouri vs McNeely, 569 US 141 (2013)].

 

«Questa Corte non è mai venuta meno dal riconoscimento che qualsiasi intrusione forzata verso il corpo umano implica interessi di privacy significativi e costituzionalmente protetti…».

 

  1. Il 1 ° marzo Isaac Legaretta, un funzionario del centro di detenzione del New Mexico, ha intentato la prima causa negli Stati Uniti per vaccini COVID obbligatori [DOCKET: No.2: 21-cv-00179].

 

Il suo avvocato Ana Garner ha detto a Bloomberg News: «Non puoi essere costretto a essere una cavia umana. Abbiamo diritto all’integrità fisica».

«Quando i capi del Ministero della Salute e il primo ministro hanno presentato il vaccino in Israele e hanno iniziato la vaccinazione dei residenti israeliani, i vaccinati non sono stati avvisati, che, in pratica, stavano prendendo parte a un esperimento medico e che per questo è necessario il loro consenso ai sensi del codice di Norimberga».

 

  1. Il 7 marzo un gruppo di cittadini israeliani ha presentato una petizione alla Corte penale internazionale accusando il governo israeliano di aver violato il codice di Norimberga con la sua politica di vaccinazione obbligatoria.

 

Anshe Ha-Emet, una associazione composta da medici, avvocati e cittadini israeliani, ha presentato una denuncia contro l’«esperimento medico» nazionale del governo senza il consenso informato dei cittadini. Gli avvocati Ruth Makhachovsky e Aryeh Suchowolski hanno presentato la denuncia affermando:

 

«Quando i capi del Ministero della Salute e il primo ministro hanno presentato il vaccino in Israele e hanno iniziato la vaccinazione dei residenti israeliani, i vaccinati non sono stati avvisati, che, in pratica, stavano prendendo parte a un esperimento medico e che per questo è necessario il loro consenso ai sensi del codice di Norimberga».

 

 

 

 

 

Traduzione di Edoardo Malgarida

 

 

 

 

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Bioetica

Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

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Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.

 

Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.

 

Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.

 

In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.

 

La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.

 

Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.

 

I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.

 

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.

 

Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.

 

Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.

 

Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente.  Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.

 

A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.

 

In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.

 

La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».

 

Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali. 

 

Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.

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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari. 

 

Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.

 

La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.

 

Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?

 

Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano. 

 

Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute. 

 

Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?

 

Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.

 

Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?

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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!

 

Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.

 

Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).

 

Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.

 

Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi. 

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.

 

In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.

 

Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.

 

Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.

 

Ma quali sono questi test? In cosa consistono?

 

Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.

 

Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.

 

È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).

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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.

 

L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.

 

Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.

 

Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco) 

 

Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.

 

È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…

 

Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?

 

Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.

 

C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.

 

Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?

 

C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.

 

È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.

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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?

 

Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.

 

Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.

 

Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:

 

  • presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
  • presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
  • attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.

 

Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.

 

Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.

 

È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).

 

Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).

 

È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.

 

Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.

 

La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.

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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.

 

In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.

 

In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).

 

In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.

 

C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.

 

In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.

 

Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».

 

Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.

 

E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.

 

A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:

 

«Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».

 

«Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»

 

È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.

 

Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.

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Ambiente

Studi sui metodi per testare le sostanze chimiche della pillola abortiva nelle riserve idriche

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I funzionari governativi USA stanno valutando se sia possibile sviluppare metodi per rilevare le sostanze chimiche contenute nella pillola abortiva nelle riserve idriche degli Stati Uniti, in seguito all’iniziativa del gruppo Students for Life. Lo riporta LifeSite.   Quest’estate, i funzionari dell’Agenzia per la Protezione Ambientale americana (EPA) hanno incaricato gli scienziati di determinare se fosse possibile sviluppare metodi per rilevare tracce di pillole abortive nelle acque reflue. Sebbene al momento non esistano metodi approvati dall’EPA, è possibile svilupparne di nuovi, hanno recentemente dichiarato al New York Times due fonti anonime.   La divulgazione fa seguito alla richiesta di 25 membri repubblicani del Congresso USA che hanno chiesto all’EPA di indagare sulla questione.   «Esistono metodi approvati dall’EPA per rilevare il mifepristone e i suoi metaboliti attivi nelle riserve idriche?», chiedevano i deputati in una lettera del 18 giugno. «In caso contrario, quali risorse sono necessarie per sviluppare questi metodi di analisi?»

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I legislatori hanno osservato che il mifepristone è un «potente bloccante del progesterone» che altera l’equilibrio ormonale e potrebbe «potenzialmente interferire con la fertilità di una persona, indipendentemente dal sesso».   Dopo l’annullamento della sentenza Roe v. Wade, Students for Life aveva rilanciato una campagna per indagare sulle tracce di pillole abortive e sui resti fetali nelle acque reflue. Il gruppo ha affermato che il mifepristone e i resti fetali potrebbero potenzialmente danneggiare gli esseri umani, gli animali e l’ambiente.   Nel novembre 2022, i dipendenti di Students for Life si sono lamentati del fatto che le agenzie governative non controllassero le acque reflue per individuare eventuali sostanze chimiche contenute nelle pillole abortive e hanno deciso di assumere i propri «studenti investigatori» per analizzare l’acqua.   La campagna era fallita sotto l’amministrazione Biden. Nella primavera del 2024, undici membri del Congresso, tra cui il senatore Marco Rubio della Florida, attuale Segretario di Stato, scrissero all’EPA chiedendo in che modo il crescente uso di pillole abortive potesse influire sull’approvvigionamento idrico.   Secondo due funzionari, l’EPA ha scoperto di non aver condotto alcuna ricerca precedente sull’argomento, ma non ha avviato alcuna nuova indagine correlata.   Kristan Hawkins, presidente di Students for Life, ha annunciato venerdì: «tre presidenti democratici hanno promosso in modo sconsiderato l’uso della pillola abortiva chimica. Ora l’EPA sta finalmente indagando sull’inquinamento causato dalla pillola abortiva».   «Ogni anno oltre 50 tonnellate di sangue e tessuti contaminati chimicamente finiscono nei nostri corsi d’acqua», ha continuato su X. «Spetta al presidente Trump e al suo team ripulire questo disastro».   A giugno un rapporto pubblicato da Liberty Counsel Action indicava che più di 40 tonnellate di resti di feti abortiti e sottoprodotti della pillola abortiva sono infiltrati nelle riserve idriche americane.   «Come altri farmaci noti per causare effetti avversi sul nostro ecosistema, il mifepristone forma metaboliti attivi», spiega il rapporto di 86 pagine. «Questi metaboliti possono mantenere gli effetti terapeutici del mifepristone anche dopo essere stati escreti dagli esseri umani e contaminati dagli impianti di trattamento delle acque reflue (WWTP), la maggior parte dei quali non è progettata per rimuoverli».  
Non si tratta della prima volta che vengono lanciati gli allarmi sull’inquinamento dei fiumi da parte della pillola abortiva RU486, detta anche «pesticida umano».
Come riportato da Renovatio 21, le acque di tutto il mondo sono inquinate da fortemente dalla pillola anticoncenzionale, un potente steroide usato dalle donne per rendersi sterili, che viene escreto con l’orina con effetto devastante sui fiumi e sulla fauna ittica. In particolare, vi è l’idea che la pillola starebbe facendo diventare i pesci transessuali.   Danni non dissimili sono stati rilevati per gli psicofarmaci, con studi sui pesci di fiume resi «codardi e nervosi».

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Nonostante i ripetuti allarmi sul danno ambientale dalla pillola, le amministrazioni di tutto il mondo – votate, in teoria, all’ecologia e alla Dea Gaia – continuano con programmi devastatori, come quello approvato lo scorso anno a Nuova York di distribuire ai topi della metropoli sostanze anticoncezionali. A ben guardare, non si trova un solo ambientalista a parlare di questa sconvolgente forma di inquinamento, ben più tremenda di quello delle auto a combustibile fossile.   Ad ogni modo, come Renovatio 21 ripeterà sempre, l’inquinamento più spiritualmente e materialmente distruttore è quello dei feti che con l’aborto chimico vengono espulsi nel water e spediti via sciacquone direttamente nelle fogne, dove verranno divorati da topi, pesci, insetti, anfibi e altri animali del sottosuolo.   Su questo non solo non si trovano ambientalisti a protestare: mancano, completamente, anche i cattolici.   Come riportato da Renovatio 21, l’OMS poche settimane fa ha aggiunto la pillola figlicida alla lista dei «medicinali essenziali». Il segretario della Salute USA Robert Kennedy jr. aveva promesso una «revisione completa» del farmaco di morte (gli sarebbe stato chiesto dallo stesso Trump) ma negli scorsi giorni esso è stato approvato dall’ente regolatore FDA.

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Bioetica

Aborto, il governo spagnuolo chiede la lista degli obiettori di coscienza

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La Spagna ha richiesto la creazione di registri per i medici che rifiutano di praticare aborti, suscitando proteste da parte dei professionisti pro-life, che considerano la misura un tentativo di stilare una «lista nera».

 

Il primo ministro Pedro Sánchez ha recentemente scritto ai presidenti delle regioni a guida conservatrice, invitandoli a «istituire un registro degli obiettori di coscienza all’aborto», come riportato da OSV News.

 

Questa iniziativa segue una legge che obbliga tutti gli ospedali pubblici spagnuoli a effettuare aborti, con l’obiettivo di migliorare l’accesso alla procedura nelle aree dove è difficile trovare medici disponibili a praticarla.

 

Ad esempio, nella regione di La Rioja, a lungo governata dai conservatori, la maggior parte dei medici degli ospedali pubblici si è rifiutata di eseguire aborti per obiezione di coscienza. «Il problema era che tutto il personale sanitario si opponeva agli aborti, anche nelle cliniche private», ha dichiarato a Euronews nel 2023 Izaskun Fernández Núñez, presidente del gruppo Donne Progressiste di La Rioja.

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In Castiglia e León, cinque delle nove province «non avevano registrato un solo aborto dal 2010» fino al rapporto del 2023. «Le donne non potevano accedere all’aborto nella loro provincia, nemmeno pagando o rivolgendosi a cliniche private», ha spiegato Nina Infante Castrillo, vicepresidente del Forum femminista di Castiglia e León.

 

Questi dati hanno spinto il governo a imporre l’obbligo di registrazione degli obiettori di coscienza in tutte le comunità autonome, con una scadenza di tre mesi. Sánchez ha avvertito che, in caso di mancata compilazione dei registri, «saranno attivati i meccanismi legali per garantire il rispetto della norma». «Il rispetto della coscienza dei professionisti sanitari non deve mai ostacolare l’assistenza sanitaria delle donne» ha aggiunto.

 

I difensori dell’obiezione di coscienza hanno definito la misura incostituzionale e una «lista nera». «Qualunque cosa dica il primo ministro, l’obiezione di coscienza è un diritto costituzionale. Chi può obbligare i cittadini a registrarsi in un elenco non richiesto nemmeno dalla Corte Costituzionale? Si tratta solo di espedienti», ha dichiarato José Antonio Díez, coordinatore generale dell’Associazione Nazionale per la Difesa del Diritto all’Obiezione di Coscienza (ANDOC), alla testata cattolica Alpha y Omega.

 

«Perché non creare un elenco di medici disposti a praticare aborti ed eutanasia, che sarebbe più pratico? Questi registri di obiettori sono liste nere per escludere professionalmente i medici che esercitano il loro diritto», ha aggiunto Eva Martín, presidente di ANDOC, citata da Alpha y Omega.

 

Secondo i dati del ministero della Salute, in Ispagna i tassi di aborto sono in aumento, avvicinandosi al picco del 2011. Nel 2023 sono stati registrati 103.097 aborti, con un incremento del 4,8% rispetto al 2022 e dell’8,7% rispetto al 2014.

 

L’aborto è legale in Spagna, con alcune restrizioni, dal 1985, e il numero di procedure è più che raddoppiato, passando da 54.000 nel 1998 a 112.000 nel 2007. Nel 2010, il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero ha ulteriormente liberalizzato la legge, consentendo l’aborto fino alla 14ª settimana di gravidanza, con estensioni fino alla 22ª settimana in caso di rischi per la salute della madre o di «gravi disabilità» del feto.

 

In Italia la situazione non è dissimile, con continui tentativi, compresi quelli dei sindacati lontani oramai anni luce dalla questione dei lavorativi, di limitare o cancellare l’obiezione di coscienza.

 

L’obiezione di coscienza, ritiene Renovatio 21, costituisce un compromesso non accettabile: chi «obietta» lascia tranquillamente che i bambini vengano trucidati dai colleghi nella stanza accanto, e quindi non si capisce esattamente in cosa credano gli «obiettori». Se pensano davvero che l’aborto sia omicidio, come possono vivere e lavorare tranquillamente in quegli spazi? Come possono magari pure andare fuori a pranzo con dei colleghi che hanno appena ammazzato degli esseri umani?

 

Si tratta della grottesca ipocrisia della legge 194/78, difesa oggi anche dai sedicenti «cattolici» perché appunto contiene la foglia di fico dell’obiezione, e più in generale dell’ipocrisia massimamente farisaica, e genocida, della Democrazia Cristiana e della sua opera.

 

Si aggiunga come, in Italia, l’obiezione agisce come una porta girevole carrieristica: il medico e l’infermiere diviene obiettore ad intermittenza, a secondo di chi sia il primario di turno.

 

La vera difesa della vita nascente non passa per la difesa dell’obiezione di coscienza – anzi, passa per la sua rimozione, di modo che quanti saranno costretti a praticare il diabolico feticidio di massa si sveglino e combattano per fermare il vero genocidio in atto.

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Immagine di PES via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-SA 2.0

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