Geopolitica
Esplodono gli scontri tra fazioni in Sudan: è strage
Spari ed esplosioni nella capitale del Sudan hanno continuato a scuotere la città per un secondo giorno. Il bilancio delle vittime civili del conflitto tra i militari e una forza paramilitare pesantemente armata è salito a 56, con «dozzine» di morti in più tra i militari, scrive il Washington Post.
I combattimenti sono scoppiati sabato anche in diverse altre città del Sudan, tra cui Merowe, El Obeid e le città di Al Fashir e Nyala nella turbolenta regione del Darfur. Secondo alcune fonti i combattimenti si sono estesi anche alle regioni orientali di Kassala e Gadarif, al confine con Eritrea ed Etiopia, dove si trovava poc’anzi in visita la premier italiana Giorgia Meloni.
Il Comitato centrale dei medici sudanesi ha dichiarato che il numero totale dei feriti è arrivato a 595, comprese dozzine in condizioni critiche.
⚡️There's a bit of a mess in Sudan.
The Sudanese Armed Forces are battling the Rapid Reaction Force.
For clarity, the Armed Forces are pro-American and the SIS is pro-Russian. To simplify as much as possible pic.twitter.com/A5efHA7VJx— MARIA (@its_maria012) April 15, 2023
I combattimenti sono scoppiati sabato mattina nella nazione del Corno d’Africa dopo settimane di crescenti tensioni tra le Forze di supporto rapido (RSF), un importante gruppo paramilitare guidato dal vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo – universalmente indicato come Hemedti – e l’esercito, guidato dal presidente, tenente generale Abdel Fattah al-Burhan.
Sono stati riferiti attacchi aerei nella capitale e tre aerei all’aeroporto principale sono stati incendiati o colpiti da colpi di arma da fuoco. Uno aveva passeggeri ed equipaggio a bordo.
#BREAKING: Coup in Africa's 3rd Largest Country
Sudan's RSF forces have taken control of the presidential palace & airport.
Sudan has gone through decades of civil war killing millions.
Stories like this make all issues we face in the Western World seem like 'nothing burgers' pic.twitter.com/ZUYUuyi3U6
— Mario Nawfal (@MarioNawfal) April 15, 2023
Le fazioni in gioco hanno legami internazionali riconosciuti: Hemedti avrebbe stretti legami con la Russia, mentre Burhan sarebbe sostenuto dal vicino Egitto, la nazione più popolosa del mondo arabo.
L’instabilità in Sudan si è spesso estesa anche ai suoi fragili vicini. Il Ciad ha già annunciato di aver chiuso il confine condiviso tra le due Nazioni.
Domenica, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato di aver parlato con il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan al-Saud e il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed al-Nahyan, e i tre diplomatici «hanno convenuto che era essenziale per le parti porre immediatamente fine alle ostilità senza precondizione».
BREAKİNG NEWS 🚨🇸🇩
Many military helicopters are actively flying in Sudan#Sudan #Khartoum #السودان #الخرطوم pic.twitter.com/S3H41dCH6e— Eren 𝕮🇹🇷 (@Eren50855570) April 15, 2023
«Esorto il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e il generale Mohamed Hamdan Degalo ad adottare misure attive per ridurre le tensioni», ha affermato Blinken in una nota. L’unica via da seguire per le parti in guerra, ha affermato Blinken, sarebbe «tornare a negoziati che sostengano le aspirazioni democratiche del popolo sudanese».
Il Sudan era già diplomaticamente isolato prima delle ultime violenze. Hemedti e Burhan hanno preso il potere nel 2021 con un colpo di stato che ha deposto il governo civile di breve durata della nazione. Prima di allora, il Sudan era stato governato per 30 anni da Omar Hassan al-Bashir, incriminato dalla Corte penale internazionale con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.
BREAKİNG NEWS 🚨🇸🇩
Street clashes continue in Sudan. And the official army wants the putschists to leave the capital, Khartoum, or all the military forces in the country will intervene. #Sudan #Khartoum #السودان #الخرطوم pic.twitter.com/YTa9wUO8Uo— Eren 𝕮🇹🇷 (@Eren50855570) April 15, 2023
Fighting continues in Khartoum, the capital of Sudan.
Most of the country's capital is de-energized.
The Commander-in-Chief of the Sudanese Armed Forces issued a decree disbanding the Rapid Reaction Forces. pic.twitter.com/sebb9aK7ss
— Spriter (@Spriter99880) April 15, 2023
La forza RSF di Hemedti originariamente è nata dai Janjaweed, una milizia filogovernativa accusata di gravi violazioni dei diritti in Darfur, tra cui stupri, incendi di villaggi e uccisioni di massa. I Janjaweed preferivano tuttavia farsi chiamare semplicemente mujaheddin, cioè guerrieri di Dio.
Si tratta di un ulteriore rivolgimento della fine dell’influenza occidentale – americana, francese, britannica, etc. – in Africa. Oltre alla Cina, che lavora nelle strutture del continente nero da decenni (a Djibuti ha costruito perfino la sua prima base militare extraterritoriale, e ora ne sta cercando una sulla costa atlantica) ora l’attore di riferimento in terra africana, dalle regioni occidentali alla Libia (dove, peraltro assieme all’Egitto, sostiene il generale Haftar) e ora al Sudan, è la Federazione Russa, che per bocca di Lavrov l’anno scorso ha parlato dell‘Europa come di una «potenza neocoloniale».
Pochi mesi fa la Russia aveva ultimato i preparativi per la costruzione in Sudan di una sua base militare sul Mar Rosso.
Immagine screenshot da YouTube
Geopolitica
Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati
Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.
In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».
Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.
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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.
Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.
L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.
«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».
Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».
Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.
«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.
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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato
Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.
L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.
Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.
Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.
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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
Geopolitica
Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine
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Geopolitica
L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.
Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.
«Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.
Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in Israele.
L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.
La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.
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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.
Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.
Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.
Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.
Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.
Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».
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Immagine di duma.gov.ru via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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