Geopolitica
È crisi diplomatica tra Libano ed Arabia Saudita
Mentre da metà ottobre crescono le tensioni, anche armate, in un Paese già fiaccato da una crisi economica ed energetica senza precedenti, il Libano si trova ora in piena crisi diplomatica con l’Arabia Saudita e con altri paesi del Golfo.
Il tutto ha avuto inizio con la diffusione sui social media, in data 26 ottobre, di alcune esternazioni sulla guerra in Yemen, risalenti all’agosto 2021, da parte dell’attuale ministro dell’informazione libanese Georges Kordahi, prima che divenisse responsabile del dicastero.
Il Libano si trova ora in piena crisi diplomatica con l’Arabia Saudita e con altri paesi del Golfo
In tale occasione, Kordahi, anchorman e volto noto della televisione libanese e mediorientale, avrebbe espresso forti perplessità sugli attacchi indiscriminati delle forze saudite contro la popolazione yemenita oltre che sostegno per gli Houthi, movimento sciita che dal 2014 ha preso le armi sostenuto dall’Iran ed è ora in guerra con altri gruppi yemeniti, milizie salafiste legate ad al Qaeda e all’ISIS, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
La reazione saudita alle parole di Kordahi non si è fatta attendere e l’ambasciatore libanese in Arabia Saudita è stato espulso mentre le trasmissioni dal Libano del colosso mediatico saudita MBC sono state sospese.
Nel frattempo tutte le importazioni di merci libanesi in Arabia Saudita sono state congelate. Anche Kuwait ed Abu Dhabi hanno convocato gli ambasciatori libanesi nei rispettivi Paesi.
L’attuale situazione sembra dunque essere la goccia che fa traboccare il vaso, in un un susseguirsi di relazioni politiche e diplomatiche conflittuali, in cui il Libano è da decenni terreno di scontro tra diverse potenze, occidentali ed arabe
Come osserva la navigata giornalista libanese Scarlett Haddad, esperta di politica libanese e mediorientale, i rapporti tra Libano ed Arabia Saudita si sarebbero però «raffreddati» fin dall’elezione dell’attuale presidente della Repubblica Michel Aoun, alleato di Hezbollah ed Amal, principali movimenti sciiti, nell’Alleanza 8 marzo che attualmente governa il Libano.
Oltretutto nel novembre 2017, il primo ministro Saad Hariri, leader del partito sunnita Movimento del futuro, legato a «doppio filo» all’Arabia Saudita o addirittura (dice qualcuno) marionetta della monarchia del Golfo, invitato in Arabia Saudita per una scampagnata con il controverso principe Mohamed Bin Salman, era stato «rapito» e tenuto in custodia da agenti sauditi che, secondo fonti del mainstream liberal americano, lo avevano addirittura schiaffeggiato.
Venne poi costretto a dare le dimissioni da primo ministro del Libano in diretta TV su un canale saudita adducendone la causa alle ingerenze di Hezbollah e dell’Iran nella politica libanese. In quei mesi, la tensione tra Libano ed Arabia Saudita e tra Hezbollah e gruppi sunniti salì alle stelle e sparatorie tra opposte fazioni ebbero luogo in diverse zone di Beirut.
Potremmo dire che in Libano si combatta de facto una proxy war (guerra per procura) a bassa intensità, finora limitata ad occasionali scontri armati e a tensioni diplomatiche i cui principali protagonisti restano Iran ed Arabia Saudita, nonostante i due Paesi siano vicini alla ripresa delle relazioni diplomatiche
L’attuale situazione sembra dunque essere la goccia che fa traboccare il vaso, in un un susseguirsi di relazioni politiche e diplomatiche conflittuali, in cui il Libano è da decenni terreno di scontro tra diverse potenze, occidentali ed arabe.
Potremmo dire che in Libano si combatta de facto una proxy war (guerra per procura) a bassa intensità, finora limitata ad occasionali scontri armati e a tensioni diplomatiche i cui principali protagonisti restano Iran ed Arabia Saudita, nonostante i due Paesi siano vicini alla ripresa delle relazioni diplomatiche.
In tale contesto i partiti cristiani libanesi, più divisi che mai, sembrano essere l’ago della bilancia nel difficile equilibrio politico e religioso libanese
In tale contesto i partiti cristiani libanesi, più divisi che mai, sembrano essere l’ago della bilancia nel difficile equilibrio politico e religioso libanese.
Se Suleiman Frangieh leader del partito Marada, vicino alla Siria e ad Hezbollah sostengono a spada tratta il già citato ministro Kordahi (membro di Marada) alcune fonti riportano che il patriarca maronita Beshara Al Rahi avrebbe invitato il ministro dell’Informazione all’origine dell’incidente diplomatico a rassegnare le dimissioni.
Dall’altro lato le Forze Libanesi, il cui coinvolgimento nei fatti di Tayyouneh sembra essere stato ampiamente confermato, hanno visto una corte militare spiccare un mandato di comparizione per l’ambiguo leader Samir Geagea, considerato il leader cristiano più vicino all’Arabia Saudita e visto dalla monarchia del Golfo come un argine al potere di Hezbollah in Libano.
Nicolò Volpe
Immagine di Giorgio Montersino via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)
Geopolitica
Turchia, effigie di Netanyahu appesa a una gru: «pena di morte»
Un’effigie raffigurante il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stata avvistata appesa a una gru edile nel Nord-Est della Turchia, suscitando forte indignazione in Israele.
Secondo la stampa turca, l’episodio si è verificato sabato in un cantiere nella città di Trebisonda, sul Mar Nero. L’iniziativa sarebbe stata organizzata da Kemal Saglam, docente di comunicazione visiva presso un’università locale. Saglam ha dichiarato ai media turchi che il gesto aveva un intento simbolico, volto a denunciare le violazioni dei diritti umani a Gaza.
Le immagini, diffuse viralmente e riportate anche dal quotidiano turco Yeni Safak, mostrano la figura sospesa alla gru, accompagnata da uno striscione con la scritta: «Pena di morte per Netanyahu».
Il ministero degli Esteri israeliano, tramite un post su X, ha condiviso un video dell’incidente, accusando un accademico turco di aver creato l’effigie «con il fiero sostegno di un’azienda statale». Il ministero ha condannato l’atto, sottolineando che «le autorità turche non hanno denunciato questo comportamento scandaloso».
Turkish academic creates model of hanged 🇮🇱PM Netanyahu, with a “Death Penalty” sign. Proudly aided by a state company.
Turkish authorities have not disavowed this disgraceful behavior.
In Erdoğan’s Turkey, hatred & antisemitism isn’t condemned. It’s celebrated. pic.twitter.com/19MALpzEEW
— Israel Foreign Ministry (@IsraelMFA) October 26, 2025
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Le autorità turche non hanno ancora fornito una risposta ufficiale.
I rapporti diplomatici tra Israele e Turchia sono tesi da anni e si sono ulteriormente deteriorati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha accusato Netanyahu di aver commesso un «genocidio» a Gaza.
La Turchia, unendosi agli altri Paesi che hanno portato il caso al tribunale dell’Aia, ha accusato Israele di aver commesso un genocidio a Gaza. Il presidente Recep Tayyip Erdogan in precedenza aveva definito il primo ministro Benjamin Netanyahu «il macellaio di Gaza», suggerendo a un certo punto – in una reductio ad Hitlerum che è andata in crescendo, con contagio internazionale – che la portata dei suoi crimini di guerra superasse quelli commessi dal cancelliere della Germania nazionalsocialista Adolfo Hitlerro.
Nel 2023 la Turchia ha richiamato il suo ambasciatore da Israele e nel 2024 ha interrotto tutti i rapporti diplomatici. Mesi fa Ankara aveva dichiarato che Israele costituisce una «minaccia per la pace in Siria». Erdogan ha più volte chiesto un’alleanza dei Paesi islamici contro Israele.
Come riportato da Renovatio 21, i turchi hanno guidato gli sforzi per far sospendere Israele all’Assemblea generale ONU. L’anno scorso il presidente turco aveva dichiarato che le Nazioni Unite dovrebbero consentire l’uso della forza contro lo Stato degli ebrei.
Un anno fa Erdogan aveva ventilato l’ipotesi che la Turchia potesse invadere Israele.
La Turchia ha avuto un ruolo attivo nei recenti negoziati per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, con diversi rapporti che indicano come l’influenza di Ankara su Hamas abbia facilitato il rilascio degli ostaggi nell’ambito del piano in 20 punti del presidente statunitense Donald Trump.
Venerdì, Erdogan ha dichiarato alla stampa che gli Stati Uniti dovrebbero intensificare le pressioni su Israele, anche attraverso sanzioni e divieti sulla vendita di armi, per garantire il rispetto degli impegni presi nel piano di Trump.
Domenica, Netanyahu ha annunciato che Israele deciderà quali forze straniere potranno partecipare alla missione internazionale proposta per Gaza, prevista dal piano di Trump per garantire il cessate il fuoco. La settimana precedente, aveva lasciato intendere che si sarebbe opposto a qualsiasi coinvolgimento delle forze di sicurezza turche a Gaza.
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Immagine screenshot da Twitter; modificata
Droga
Trump punta ad attaccare le «strutture della cocaina» in Venezuela
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Geopolitica
Thailandia e Cambogia firmano alla Casa Bianca un accordo di cessate il fuoco
Cambogia e Thailandia hanno siglato un accordo di cessate il fuoco ampliato per porre fine a un violento conflitto di confine scoppiato a inizio anno. La cerimonia di firma, tenutasi domenica, è stata presieduta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che aveva mediato la tregua iniziale.
Le tensioni storiche tra i due Paesi del Sud-est asiatico, originate da dispute territoriali di epoca coloniale, sono esplose a luglio con cinque giorni di scontri armati, che hanno spinto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalla zona di confine. Un incontro ospitato dalla Malesia aveva portato a una prima tregua, segnando l’inizio della de-escalation.
Trump ha dichiarato di aver sfruttato i negoziati commerciali con entrambi i paesi per favorire una riduzione delle tensioni.
HISTORIC PEACE BETWEEN THAILAND & CAMBODIA.
President Trump and Malaysia’s Prime Minister Anwar Ibrahim hosted the Prime Ministers of Thailand and Cambodia for the signing of the ‘Kuala Lumpur Peace Accords’—a historic peace declaration. pic.twitter.com/BZRJ2b2KLY
— The White House (@WhiteHouse) October 26, 2025
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Durante il 47° vertice dell’ASEAN in Malesia, il primo ministro cambogiano Hun Manet e il primo ministro thailandese Anutin Charnvirakul hanno firmato l’accordo, che amplia la tregua di luglio.
Il documento stabilisce un piano per ridurre le tensioni e assicurare una pace stabile al confine, prevedendo il rilascio di 18 soldati cambogiani prigionieri da parte della Thailandia, il ritiro delle armi pesanti, l’avvio di operazioni di sminamento e il contrasto alle attività illegali transfrontaliere.
Dopo la firma, il primo ministro thailandese ha annunciato l’immediato ritiro delle armi dal confine e il rilascio dei prigionieri di guerra cambogiani, insieme a un’intesa commerciale congiunta. Il primo ministro cambogiano ha lodato l’accordo, impegnandosi a rispettarlo e ringraziando Trump per il suo ruolo, proponendolo come candidato al Premio Nobel per la Pace del prossimo anno.
Trump ha definito l’accordo «monumentale» e «storico», sottolineando il suo contributo e descrivendo la mediazione di pace come «quasi un hobby». Dopo la cerimonia, ha firmato un accordo commerciale con la Cambogia e un importante patto minerario con la Thailandia.
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