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Libano, La sentenza dell’Aia sull’assassinio Hariri: «Non ci sono prove di un coinvolgimento di Hezbollah e del governo siriano»

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews.

 

 

Stupefacente conclusione di un processo durato 15 anni. Secondo «i soliti complottisti» ci deve essere stato un qualche accordo fra Iran e Stati Uniti, con la Francia come mediatrice, per far uscire il Libano dal tunnel. Manifestanti sunniti da Tripoli e Sidone si preparavano a invadere Beirut. Gruppi di cristiani in marcia verso Baabda. Alla fine la sentenza ha condannato due persone: uno, Mostafa Badreddin, morto e l’altro, Salim Ayash, introvabile.

 

 

 

La sentenza emessa oggi dalla Corte internazionale dell’Aia è deludente per almeno metà degli abitanti libanesi. Essa arriva dopo 15 anni dall’assassinio del premier libanese Rafiq Al Hariri, in un attentato avvenuto il 14 febbraio 2005.

 

Stupefacente conclusione di un processo durato 15 anni. Secondo «i soliti complottisti» ci deve essere stato un qualche accordo fra Iran e Stati Uniti, con la Francia come mediatrice, per far uscire il Libano dal tunnel

Con una mossa senza precedenti, la lettura della sentenza, fissata per il 7 agosto scorso, era stata rinviata al 18 agosto, in modo ingiustificato.

 

Per quale motivo? Tutti a Beirut si chiedono cosa sia avvenuto fra il 4 (giorno delle esplosioni) ed il 18 agosto per «modificare il contenuto della sentenza o almeno attenuarne l’utilizzo politico». Quel che pare sicuro è che la capitale libanese è stata teatro di colloqui segreti indiretti fra Iran e Stati Uniti, con mediazione francese, finora senza esiti positivi di riconciliazione.

 

Durante la visita ufficiale di due giorni a Beirut, il ministro iraniano degli Esteri Jawad  Zarif, ha espresso parole di elogio verso Emmanuel Macron. Esse seppur «frenate dagli Usa» – come dicono alcuni amanti del complottismo – sembravano parte di un’iniziativa per far uscire il Libano dal tunnel.

 

Testimoni oculari a Tripoli e Sidone, contattati da AsiaNews, affermano che centinaia di «manifestanti sunniti» si preparavano da ieri a dirigersi su furgoncini già prenotati a Beirut. Essi si dovevano muovere subito dopo la lettura della sentenza che si pensava avrebbe condannato gli Hezbollah e la Siria.

 

In contemporanea, un folto gruppo di cristiani, aveva preparato una marcia verso il Palazzo presidenziale a Baabda. Da ieri, 17 agosto, Il figlio di Rafiq Hariri, Saad, si trova all’Aia.

Nella sentenza si legge che «forse esistevano motivi seri per la Siria e gli Hezbollah» per assassinare Hariri, ma non esistono prove certe sulle responsabilità dirette della leadership degli Hezbollah in quanto organizzazione mandataria, né del governo siriano»

 

E invece nella sentenza si legge che «forse esistevano motivi seri per la Siria e gli Hezbollah» per assassinare Hariri, ma non esistono prove certe sulle responsabilità dirette della leadership degli Hezbollah in quanto organizzazione mandataria, né del governo siriano».

 

L’Aia accusa però «le forze della sicurezza generale in Libano di aver inquinato molte prove della scena del reato, spostando perfino le vetture esplose» nell’attentato.

 

La lettura della estesissima sentenza, definita la più lunga della storia, è avvenuta in tre sezioni, fino al tardo pomeriggio di oggi.

 

Badreddin, il principale accusato «dell’assassinio di Hariri» è morto nel maggio del 2016 nei pressi dell’aeroporto di Damasco, in un attacco dei gruppi integralisti takfiri siriani all’età di 55 anni

La Corte ha tuttavia menzionato 5 responsabili dell’attentato, tutti coinvolti con prove certe, tutti vicini agli Hezbollah, senza però che vi sia «alcuna prova su chi l’abbia ordinato» né una «prova diretta del coinvolgimento» del governo siriano. Fra i cinque si cita il capo della cellula criminale, Mostafa Badreddin, ex capo militare degli Hezbollah, assassinato nel 2016 in Siria, cognato del capo militare Imad Moghniyeh, assassinato anch’egli in Siria.

 

Badreddin, il principale accusato «dell’assassinio di Hariri» è morto nel maggio del 2016 nei pressi dell’aeroporto di Damasco, in un attacco dei gruppi integralisti takfiri siriani all’età di 55 anni.

 

Badreddin si era arruolato negli Hezbollah nel 1982, dopo l’invasione di Israele in Libano. È stato responsabile di molti attentati fra I quali quelli contro le ambasciate di Francia e Stati Uniti nel 1983 in Kuwait. Arrestato, la sua liberazione è stata chiesta dopo due dirottamenti di aerei kuwaitiani nel 1985 e 1988. Egli è poi «fuggito» dal carcere nel 1990 durante l’invasione dell’Iraq in Kuwait.

Le prove della sentenza sono basate soprattutto su intercettazioni telefoniche di utenze utilizzate dagli accusati per condurre il reato

 

Gli altri accusati (foto 2) sono Salim Ayash (56 anni)«responsabile delle cellule che hanno eseguito l’attentato» in cui è stato ucciso Hariri e 21 altre persone, oltre a ferirne altre 226. Egli è anche accusato di essere dietro un attentato fallito nel 2004, contro l’ex ministro Marwan Hamadé.

 

Fra gli altri accusati risulta Hussein Hassan Oneissi (46 anni) e Assad Hassan Sabra (43 anni) per aver diffuso un video falso trasmesso sull’emittente Al Jazeera, che accusa un gruppo fittizio denominato Jamaat al Nasr e della «Jihad nei paesi dello Sham (Levante)». Il quarto accusato è Hassan Habib Marii (54anni). Gli ultimi tre sono stati giudicati innocenti dell’assassino di Hariri e assolti dalla Corte in absentia.

 

Le prove della sentenza sono basate soprattutto su intercettazioni telefoniche di utenze utilizzate dagli accusati per condurre il reato. La Corte tuttavia non è convinta che «Badreddin sia la sola mente organizzatrice».

 

I quattro responsabili ancora in vita sono introvabili

La cellula dei cinque ha intercettato, seguito ed osservato ogni mossa di Hariri e della sua scorta dall’ottobre 2004 al febbraio 2005. Essa avrebbe poi organizzato e realizzato l’attentato che ha portato all’assassino dell’ex premier libanese utilizzando materiale altamente esplosivo.

 

I quattro responsabili ancora in vita sono introvabili. I contenuti delle indagini della corte sono raccolti in cinque copiosi volumi di 148 mila pagine, messi oggi a disposizione delle parti. Il testo della sentenza verrà presto pubblicato sul sito ufficiale della Corte dell’Aia.

Alla fine la sentenza ha condannato due persone: uno morto e l’altro, Salim Ayash, introvabile!

 

Alla fine la sentenza ha condannato due persone: uno morto e l’altro, Salim Ayash, introvabile!

 

 

Pierre Balanian

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Geopolitica

Mosca inserisce Zelens’kyj nella lista dei ricercati

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Ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj è apparso sulla lista dei ricercati del ministero degli Interni russo. Lo riporta il sito governativo russo RT. Il reato esatto di cui è accusato non è ancora chiaro.

 

Il sito web del ministero russo afferma che il presidente ucraino è ricercato ai sensi di un articolo del codice penale russo e contiene il suo nome completo e la sua fotografia, nonché la sua data e luogo di nascita. Non sono stati rilasciati dati sui procedimenti penali contro di lui.

 

Lo sviluppo arriva il giorno dopo che anche il capo del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale ucraino, Aleksandr Litvinenko, è stato inserito nella lista dei ricercati della Russia. A marzo ha preso il posto del suo predecessore Oleksyj Danilov. Anche in questo caso non è stato specificato il dettaglio delle accuse.

 

Ad aprile, Litvinenko affermò che era necessario lanciare attacchi con droni all’interno del territorio russo, per esercitare «pressione» su Mosca, descrivendo questa tattica come un elemento chiave della strategia di Kiev.

 

Mosca ha ripetutamente accusato Kiev di utilizzare metodi terroristici durante il conflitto in corso tra i due vicini. Il mese scorso, il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha affermato che le minacce dello Zelens’kyj di distruggere le infrastrutture civili russe erano la prova delle intenzioni terroristiche del suo governo.

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Il Peskov ha risposto alle dichiarazioni del presidente riguardo al ponte di Crimea, che è già stato preso di mira da due importanti attentati, ciascuno dei quali ha causato la morte di diversi civili.

 

Sabato anche l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko è stato inserito nella lista dei ricercati. Finora, anche qui, non sono stati resi pubblici i dettagli di un caso contro di lui.

 

Il Poroshenko è entrato in carica nel giugno 2014, mentre il governo ucraino post-Maidan stava usando la forza militare nel tentativo di reprimere una ribellione nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Il presidente, già industriale cioccolataio, firmò gli Accordi di Minsk, volti a riconciliare Kiev con le due repubbliche del Donbass che si erano rifiutate di riconoscere il governo post-colpo di stato.

 

Nel 2023, Poroshenko ha affermato in un’intervista al Corriere della Sera che gli accordi erano stati utilizzati per guadagnare tempo extra per armare l’Ucraina. L’ex presidente ha affermato di essersi rivolto alla NATO per preparare un conflitto invece di seguire la tabella di marcia di pace degli accordi di Minsk.

 

Venerdì, pure l’ex ministro delle finanze ucraino, Aleksandr Shlapak, e l’ex capo della banca centrale nazionale, Stepan Kubiv, sono stati inseriti nella lista delle persone ricercate dalla Russia. Anche se i dettagli sui loro casi penali rimangono poco chiari, il comitato investigativo russo aveva già accusato entrambi gli ex funzionari di aver finanziato la repressione militare di Kiev sul Donbass nel 2014, l’operazione ha segnato l’inizio del bombardamento da parte delle forze armate ucraine delle aree popolate delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk.

 

Come riportato da Renovatio 21, il vice capo dell’Intelligence ucraina un anno fa dichiarò l’esistenza una un elenco di funzionari russi da assassinare, affermando che «Putin è in cima alla lista. Stiamo cercando di ucciderlo».

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.   La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.   Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.   Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.   Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.   In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.     Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».   Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».   Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.   Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.   Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 
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Cina

Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il nuovo primo ministro dell’arcipelago sarà Jeremiah Manele, che ha già ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri. Gli analisti si aspettano che, nonostante i legami con la Cina, addotti un approccio meno conflittuale. Ma la competizione resta aperta tra le nazioni del Pacifico, divise tra la fedeltà ai partner occidentali e gli accordi (soprattutto sulla sicurezza) con Pechino.

 

Il governo delle Isole Salomone resterà filo-cinese: i deputati designati dopo la tornata elettorale del 17 aprile hanno scelto come primo ministro Jeremiah Manele, che ha ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri nel 2019, anno in cui le Isole Salomone, sotto la guida del precedente premier Manasseh Sogavare, hanno deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan per firmare, tre anni dopo, un trattato sulla sicurezza (i cui dettagli non sono stati resi pubblici) con la Cina, che continua così a mantenere una certa influenza nel Pacifico.

 

Sogarave la settimana scorsa aveva dichiarato che avrebbe rinunciato alla corsa a primo ministro a causa dei risultati deludenti del suo partito, e ha poi appoggiato la candidatura e la nomina di Manele, il quale ha già annunciato che manterrà stretti legami con Pechino. Ma gli analisti si aspettano che, a differenza del predecessore, Manele adotti un approccio meno conflittuale verso i partner occidentali, che guardano con preoccupazione alle relazioni tra la Cina e le nazioni insulari che costellano l’Oceano Pacifico.

 

Negli ultimi anni, infatti, Pechino ha rafforzato con diversi Paesi la cooperazione nell’ambito delle forze di polizia ed elargito fondi e investimenti per la costruzione di porti, strade e infrastrutture di telecomunicazione, in posti dove gli spostamenti e i contatti sono resi complicati dalla scarsità di risorse e dal progressivo aumento del livello dei mari dovuto al cambiamento climatico.

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Solo per fare alcuni esempi, dal 2013 è attivo uno scambio di agenti di polizia con le isole Figi, dove nel 2021 è arrivato per la prima volta, presso l’ambasciata cinese, anche un ufficiale di collegamento. Lo scorso anno sono state inviate squadre di esperti a Vanuatu e Kiribati (un altro Paese che ha revocato il riconoscimento a Taiwan nel 2019), mentre l’assistenza alle Isole Salomone è stata rafforzata dopo le proteste che sono scoppiate nella capitale, Honiara, nel 2021 e molti temono che il patto sulla sicurezza firmato nel 2022 preveda il dispiegamento di forze militari cinesi sull’arcipelago.

 

Ancora: dopo le rivolte di gennaio in Papua Nuova Guinea, il ministro degli Esteri papuano, Justin Tkachenko, ha dichiarato che a settembre la Cina si era offerta di fornire attrezzature e tecnologie di sorveglianza, ma subito dopo si è sincerato di sottolineare che, in ogni caso, la Papua Nuova Guinea non «metterà a repentaglio o comprometterà le relazioni» con i partner occidentali.

 

Inoltre, la Cina ha proposto investimenti per rilanciare il settore del turismo a Palau e sulle Isole Marshall, due Paesi che, insieme alla Micronesia, sono legati a Washington tramite dei Patti di libera associazione (Compacts of Free Association, COFA), che permettono agli Stati Uniti di avere accesso agli apparati di difesa e di sicurezza delle nazioni del Pacifico in caso di attacco (ma non solo).

 

Secondo gli esperti, la Cina ha un doppio interesse a promuovere la cooperazione di polizia con questi Paesi: da una parte vi è la necessità pratica di proteggere la diaspora e gli investimenti cinesi, soprattutto nel caso di rivolte e disordini, che si sono dimostrati frequenti.

 

Dall’altra è evidente che si tratta di un’area dove Pechino si è inserita per avere maggiore influenza nella regione a scapito degli Stati Uniti. I funzionari di Washington hanno nuovamente espresso le loro preoccupazioni all’inizio dell’anno dopo la visita di alcuni agenti di polizia cinesi a Kiribati, dove temono che la Cina possa ricostruire una pista d’atterraggio militare, a meno di 4mila chilometri dalle Hawaii.

 

Alle piccole nazioni del Pacifico, però, la competizione geopolitica tra la Cina e gli alleati occidentali potrebbe non dispiacere affatto, perché fornisce un elemento in più su cui fare leva nei rapporti diplomatici e ottenere così maggiori aiuti e risorse. Nel 2022 il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, non era riuscito a convincere i leader del Pacifico a firmare due nuovi accordi di cooperazione e l’anno successivo, il primo ministro delle Figi, Sitiveni Rabuka, aveva affermato che avrebbe stracciato l’accordo di scambio di ufficiali di polizia con la Cina, ma ha poi ammorbidito i toni.

 

In questa competizione per l’influenza nel Pacifico, Pechino sostiene che gli Stati Uniti non siano un partner affidabile, cercando di contrastare quella che ritiene essere una visione anti-cinese proposta dai media occidentali. A gennaio di quest’anno, in seguito a una fuga di informazioni, è stato scoperto che tra i compiti di un diplomatico cinese di stanza presso l’ambasciata di Honiara c’era anche quello di influenzare la copertura mediatica locale sulle elezioni presidenziali a Taiwan.

 

Gli Stati occidentali, dal canto loro, hanno evidenziato lo stile autoritario della polizia e dei funzionari provenienti dalla Cina, dove i diritti umani spesso passano in secondo piano. Nel 2017, per esempio, la polizia delle Figi aveva arrestato 77 cittadini cinesi, poi estradati in collaborazione con le autorità locali.

 

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