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Joseph Ratzinger: è lui «l’ultimo» papa profetizzato da San Malachia?

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La morte di papa Benedetto XVI segna un evento epocale.

 

Nel libro intervista Ultime conversazioni, pubblicato nel 2016, tre anni dopo la rinuncia al pontificato, il giornalista e scrittore tedesco Peter Seewald, pose al papa emerito questa domanda:

 

«Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato. E se lei fosse effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora?»

 

La risposta di papa Ratzinger è sorprendente.

 

«Tutto può essere. Probabilmente questa profezia è nata nei circoli attorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di papi, che invece non era così. Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!».

 

Le profezie di Malachia sono un testo pubblicato a Venezia nel 1595 da un monaco benedettino, Armand de Wion, attribuito al santo vescovo Irlandese Malachia, amico di san Bernardo di Chiaravalle, vissuto agli inizi del XII secolo, in cui vengono elencati 111 papi, a partire dal 1143, poco prima della morte del santo irlandese.

 

L’ultimo dei 111 della lista è Joseph Ratzinger. Come dice Seewald, l’ultimo dei papi, in quanto finirebbe la Chiesa stessa, oppure «l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora». E in effetti, l’attuale vescovo di Roma, Jorge Mario Bergoglio, che da 9 anni non vive negli appartamenti pontifici, ma nel residence di santa Marta, da anni si è significativamente discostato da stili, contenuti, dottrine dei suoi predecessori.

 

Ma relativamente al dopo Benedetto XVI, cioè dopo l’ultimo dei papi dell’elenco di Malachia, cosa dice la profezia? «Durante l’ultima persecuzione di Santa Romana Chiesa siederà Pietro Romano che pascerà il gregge in mezzo a molte tribolazioni; terminate queste, la città dei sette colli sarà distrutta, e il terribile Giudice giudicherà il suo popolo. E così sia».

 

È papa Bergoglio Pietro il romano che pascerà il suo gregge tra molte tribolazioni? Non lo sappiamo. In realtà la profezia di Malachia parla di Pietro il Romano, Pietro II, che porterà alla fine il nome del primo pontefice, ma non lo indica come un centododicesimo, ma come l’ultimo. Quindi, teoricamente, ci potrebbero essere altri papi fra il numero 111, De gloria Olivae, e Petrus Romanus. Saremmo quindi entrati in una fase particolare della storia dei papi e della Chiesa.

 

Di sicuro ciò che abbiamo visto negli scorsi nove anni ha rappresentato una situazione molto particolare, come non si vedeva da secoli: la compresenza di due papi. Un fatto assolutamente straordinario. E in effetti nel medioevo la presenza di due papi significava che in realtà uno di loro fosse un antipapa.

 

Sulla presenza contemporanea di due papi nei tempi ultimi del mondo aveva parlato una veggente tedesca, Anna Katharina Emmerick, che tra il 1819 e il 1824, anno della sua morte, dettò allo scrittore Clemens Brentano le descrizioni delle visioni che aveva ricevuto.

 

Anche alla grande santa medievale Ildegarda di Bingen, contemporanea di Malachia, è attribuita una profezia secondo la quale nei tempi ultimi vi saranno due papi. Il primo cadrà sotto i colpi di un cardinale geloso che diventerà antipapa, il secondo sarà l’ultimo della storia, il più santo di tutti.

 

In effetti il passaggio di consegne tra Benedetto XVI e il suo successore è avvenuto in circostanze particolari, che hanno suscitato stupore ed emozione. Pur vivendo nell’ipertecnologico mondo del XXI secolo, molti avevano notato anche dei segni misteriosi e inquietanti che hanno accompagnato questo passaggio.

 

Il primo segno fu il fulmine che colpì il crocifisso sulla cupola di San Pietro durante un temporale alle 17:56 dell’11 febbraio 2013, il giorno in cui Benedetto XVI annunciò le proprie dimissioni. Il fatto venne documentato da un fotografo dell’agenzia ANSA, e la foto divenne famosissima.

 

Il secondo segno è del 26 gennaio 2014, non meno significativo: papa Francesco al termine della preghiera dell’Angelus liberò nel cielo sopra san Pietro due bianche colombe, che subito vennero attaccate da un gabbiano (bianco) e un grosso corvo (nero). Quella attaccata dal corvo venne uccisa di fronte alle migliaia di presenti nella piazza.

 

Un anno prima, nel gennaio 2013, anche Benedetto XVI dalla stessa finestra aveva liberato una colomba, attaccata anch’essa da un gabbiano, che si era salvata rientrando nell’appartamento papale. Una differenza che può far pensare.

 

In altri tempi questi eventi avrebbero assunto un forte significato simbolico. La colomba è da secoli uno dei simboli più importanti della Chiesa: simbolo di pace, ma anche dello Spirito Santo, la cui azione sembrerebbe – in chiave simbolica- essere aggredita da esseri voraci e spietati come un rapace.

 

Al di là di questi piccoli fatti, resta la realtà di una Chiesa che non gode di buona salute. Una realtà certamente non di oggi. Il 29 giugno del 1972 – solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, durante l’omelia che segnava l’inizio del suo decimo anno di Pontificato – papa Paolo VI affermò con tristezza di avere la sensazione che «da qualche fessura era entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio».

 

Dal resoconto di quella storica omelia, curata dalla Santa Sede nella pagina web dedicata a Papa Montini, leggiamo:

 

«Si direbbe che da qualche misteriosa, no, non è misteriosa, da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. (…) La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno».

 

La Chiesa per Paolo VI è dunque intossicata dal «fumo di Satana». Come vi è entrato? Il papa ha sempre più evidente che c’è qualcosa di profondo e negativo che inizia ad affliggere la Chiesa. È forse il primo momento in cui il papa avverte seriamente che la via del secolarismo e la mancanza di unità interna stiano diventando due grossi problemi per la Chiesa.

 

La fessura è da ricercarsi nel post Concilio. «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli…».

 

Lo scenario descritto da Paolo VI col passare degli anni è andato peggiorando. Dopo l’entusiasmo del dinamico pontificato di Giovanni Paolo II, in cui si è assistito al crollo dei muri, alla fine dell’Unione Sovietica, alla fine della Guerra Fredda, il nuovo millennio si è aperto con nuove gravi crisi internazionali, con l’emergere di un terrorismo islamista globalizzato, con l’evento drammatico anche da un punto di vista dell’immaginario collettivo dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, alle nuove migrazioni dalle dimensioni quasi bibliche, e infine alla pandemia da COVID con relativa gestione «emergenziale» con molti Paesi che hanno introdotto legislazioni illiberali, e col Vaticano che ha sposato in toto la narrazione mainstream.

 

Nella Chiesa sono emerse nuove criticità, come gli scandali sessuali del clero. Nuove, ma forse in realtà antichissime: erano quelle contro cui si era scagliato il profeta biblico Malachia, e che il suo omonimo irlandese tanti secoli dopo si era sforzato di sanare con la parola, con i gesti, con l’esempio.

 

Se la presenza del fumo di Satana era stato segnalato con dolore e preoccupazione da Paolo VI, oggi sembra che la Chiesa si sia rassegnata a conviverci. Secondo molti anche ad alimentarlo. Le dimissioni di Benedetto XVI sono apparse come una resa di fronte a queste insormontabili difficoltà.

 

Se la profezia di Malachia annunciava già da secoli questi fatti, è a partire dal XIX secolo che si è cominciato ad avere eventi soprannaturali che annunciavano tempi drammatici per la Chiesa.

 

Nel 1846 la Madonna apparve in una località delle Alpi francesi, La Salette, e tra i messaggi che lasciò ai veggenti c’era quello secondo cui Roma avrebbe perso la fede e sarebbe diventata la sede dell’Anticristo, e che malvagità e perversione si sarebbero diffuse sempre di più. Il messaggio sulla perdita di fede di Roma era terribile, e benché la Chiesa abbia riconosciuto queste apparizioni e consentito la devozione alla Madonna di La Salette, il messaggio in questione venne ridimensionato e quasi occultato.

 

Era una tremenda rivelazione: la Chiesa avrebbe conosciuto lacerazioni profonde e persino il caos: vescovi contro vescovi, cardinali contro cardinali, mentre il papa terrorizzato sarebbe fuggito dal Vaticano.

 

Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un profetismo di sventura esagerato, una visione cupa di una Chiesa che è invece chiamata a essere portatrice di speranza.

 

Tuttavia questi temi vennero ripresi settant’anni dopo in una delle più celebri e importanti apparizioni mariane della storia, quella di Fatima. Ancora una volta l’umanità veniva richiamata all’urgenza del pentimento, della riparazione, della conversione, al fine di evitare di percorrere la china che porta all’autodistruzione del mondo.

 

Prima di questa catastrofe, tuttavia, sembra che verrà una crisi gravissima della Chiesa. Forse le profezie di Malachia riguardano in primo luogo la fine della Chiesa, e non la fine del mondo. Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti.

 

La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di un’impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità.

 

La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.

 

È il tempo dell’impostura anti-cristica, che dopo la morte di Benedetto XVI potrebbe dilagare nel mondo.

 

 

Paolo Gulisano

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni

 

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Danimarca, l’esecutivo nota una secolarizzazione sfinita

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In Danimarca è emerso un fenomeno unico, passato inosservato ai media mainstream. All’inizio di giugno, il primo ministro danese Mette Frederiksen, parlando pubblicamente in un’università, ha dichiarato: «abbiamo bisogno di una forma di riarmo che sia altrettanto essenziale [del riarmo militare]. È un riarmo spirituale». Questa consapevolezza senza precedenti, che si spera si diffonda.

 

Il Partito Socialdemocratico Danese, a cui appartiene il primo ministro, non gode di una reputazione di bigottismo: ha ampiamente contribuito a ridurre l’influenza della Chiesa protestante danese nella sfera pubblica. Tuttavia, la Frederiksen aveva già sorpreso tutti all’inizio di quest’anno annunciando un importante riarmo militare: un’estensione della coscrizione obbligatoria, un aumento significativo della spesa per la difesa e un addestramento intensificato a tutti i livelli.

 

Tuttavia, incombe un problema profondo, che il capo dell’esecutivo danese, cosa insolita per un leader occidentale, ha osato nominare. Molti giovani danesi sono riluttanti a combattere. Alcuni ammettono apertamente che non sacrificherebbero la propria vita per la Danimarca, né per la democrazia, né per la bandiera, tanto meno per un moderno stato sociale che promette tutto ma non ispira nulla.

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Questa crisi non riguarda solo la Danimarca; riguarda tutte le società post-cristiane. Pone una domanda, sotto forma di sfida, che le nazioni europee farebbero bene ad affrontare: cosa unisce un popolo quando i sistemi puramente umani in cui credeva iniziano a vacillare? Come diceva Péguy, bisogna sempre dire ciò che si vede, ma la parte più difficile è vedere ciò che si vede.

 

La Danimarca è una delle nazioni più secolarizzate al mondo. Il protestantesimo è ancora la religione di Stato, ma svolge solo un ruolo marginale nella vita della maggior parte dei cittadini. La religione è stata a lungo relegata alla sfera privata. Lo Stato ha gradualmente assorbito le funzioni assegnate alla religione: assistenza ai poveri, educazione civica, funerali, matrimoni civili, etc.

 

Il primo ministro del governo danese invita quindi la Chiesa protestante danese a rivendicare il suo giusto posto. In un’intervista al quotidiano cristiano Kristeligt Dagblad, Mette Frederiksen si è spinta oltre, esortando il protestantesimo di Stato a non accontentarsi di essere un’istituzione culturale, ma a tornare a essere un pilastro della vita nazionale.

 

«Credo che le persone si rivolgeranno sempre più alla Chiesa», ha affermato, «perché offre un naturale senso di comunità e un’ancora nazionale. (…) Lo spazio religioso ha sostenuto le persone in molte crisi. Penso che la Chiesa scoprirà che i tempi attuali richiedono una riscoperta di uno spazio religioso».

 

Infine, in una riflessione che sarebbe stata inconcepibile per una leader socialdemocratica danese solo dieci anni fa, conclude: «se fossi la Chiesa, mi chiederei ora: come possiamo essere un quadro sia spirituale che fisico per ciò che i danesi stanno attraversando?»

 

Questo non vuol dire, tuttavia, che il primo ministro danese abbia percorso la via di Damasco: si tratta piuttosto di una dichiarazione di realismo politico. La Frederiksen riconosce che diritti, servizi pubblici e tutele sociali non sono sufficienti a sostenere una società. I ​​cittadini non rischieranno la vita per una democrazia burocratica. Ma combatteranno per ciò che ritengono sacro.

 

La Danimarca sta scoprendo ciò che molte nazioni occidentali stanno – si spera – iniziando a comprendere: un sistema costruito su comfort, diritti e libertà individuale non lascia nulla da difendere quando le avversità colpiscono. Eppure le avversità – sotto forma di guerra, minacce o sacrifici – stanno tornando sul continente europeo.

 

Ciò che sta diventando evidente in Danimarca sono i limiti di una governance secolarizzata, l’esaurimento di un secolarismo meno aggressivo e totalitario che in Francia. Diritti e libertà, per quanto nobili, non esistono nel vuoto. Sono il frutto di una visione etica più profonda, radicata nella trascendenza, nella religione e nella comprensione della verità, del bene e della bellezza. Separata da queste radici, la società si sgretola. E quando il sacrificio diventa necessario, la volontà di compierlo svanisce.

 

Ironicamente, persino coloro che hanno sostituito la Chiesa con lo stato sociale stanno iniziando a sentire il terreno tremare sotto i piedi e invocano i giorni delle cattedrali. Speriamo che questa epidemia di lucidità si diffonda oltre i fiordi della Scandinavia.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine di News Oresund via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

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Mons. Eleganti: le riforme del Vaticano II sono state un esperimento «sconsiderato» e «fallito»

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Renovatio 21 pubblica il testo del già vescovo ausiliare della diocesi di Coira Marian Eleganti, OSB apparso su LifeSiteNews.   Sono nato nel 1955 e da bambino ero un chierichetto entusiasta. All’inizio ho servito con il vecchio rito, sempre un po’ nervoso per non sbagliare le risposte in latino, poi sono stato riqualificato nel bel mezzo dell’azione per la cosiddetta Nuova Messa.   Da bambino, ho assistito all’iconoclastia nella venerabile Chiesa di Santa Croce nella mia città natale. Gli altari gotici scolpiti furono abbattuti davanti ai miei occhi di bambino. Ciò che rimase fu un altare popolare, una sala del coro vuota, la croce nell’arco del coro, Maria e San Giovanni a sinistra e a destra su pareti bianche e spoglie. Nuove vetrate inondate dal sole nascente a Est. Nient’altro: fu un disboscamento senza precedenti. Noi bambini trovammo tutto normale e appropriato, e risparmiammo diligentemente per il nuovo pavimento in pietra, per dare il nostro contributo alla riforma o al restauro della chiesa.   L’euforia del concilio era portata ovunque dai sacerdoti, venivano convocati sinodi, ai quali io stesso partecipai da adolescente. Non avevo assolutamente idea di cosa stesse succedendo.

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Da novizio ventenne, ho sperimentato in prima persona – e dolorosamente – le tensioni liturgiche tra i tradizionalisti e i progressisti tra i riformatori. Furono introdotte nuove professioni ecclesiastiche, come quella dell’assistente pastorale (per lo più sposato). Ricordo i miei commenti critici a riguardo, perché le tensioni e i problemi che lentamente si stavano delineando tra ordinati e non ordinati erano prevedibili fin dall’inizio. Il calo del numero di candidati al sacerdozio era prevedibile e divenne presto evidente.   Da giovane, ho sostenuto senza riserve il Concilio e in seguito ne ho studiato i documenti con assoluta fiducia. Tuttavia, dall’età di 20 anni, ho notato diverse cose: la desacralizzazione della sala del coro, del sacerdozio e della Santa Eucaristia, così come la ricezione della Comunione, e l’ambiguità di alcuni passaggi nei documenti conciliari. Da giovane laico ancora privo di formazione teologica, ho notato tutto questo molto presto.   Sebbene il sacerdozio fosse stata l’opzione più forte nel mio cuore fin dall’infanzia, non sono stato ordinato sacerdote fino all’età di 40 anni. Sono cresciuto con il Concilio, sono diventato maggiorenne e ho potuto osservarne gli effetti fin da quando si è svolto. Oggi ho 70 anni e sono vescovo.   Guardando indietro, devo dire che la primavera della Chiesa non è mai arrivata; al suo posto è arrivato un declino indescrivibile nella pratica e nella conoscenza della fede, una diffusa difformità e arbitrarietà liturgica (a cui io stesso ho contribuito in parte senza rendermene conto).   Da una prospettiva odierna, vedo tutto con crescente critica, incluso il Concilio, i cui testi la maggior parte delle persone ha già abbandonato, invocandone sempre lo spirito. Cosa non è stato confuso con lo Spirito Santo e attribuito a Lui negli ultimi 60 anni? Cosa è stato chiamato «vita» che non ha portato vita, ma piuttosto l’ha dissolta?   I cosiddetti riformatori volevano ripensare il rapporto della Chiesa con il mondo, riorganizzare la liturgia e rivalutare le posizioni morali. E lo stanno ancora facendo. Il tratto distintivo della loro riforma è la fluidità nella dottrina, nella moralità e nella liturgia, l’allineamento con gli standard secolari e la spietata rottura post-conciliare con tutto ciò che era accaduto prima.   Per loro, la Chiesa è innanzitutto ciò che è stata dal 1969 (Editio Typica Ordo Missae, Cardinale Benno Gut). Ciò che è venuto prima può essere trascurato o è già stato rivisto. Non si torna indietro. I più rivoluzionari tra i riformatori erano sempre consapevoli dei loro atti rivoluzionari. Ma la loro riforma postconciliare, i loro processi, sono falliti – su tutta la linea. Non sono stati ispirati. L’altare del popolo non è un’invenzione dei Padri conciliari.   Io stesso celebro la Santa Messa nel Nuovo Rito, anche privatamente. Tuttavia, grazie alla mia attività apostolica, ho riscoperto la vecchia liturgia della mia infanzia e ne noto la differenza, soprattutto nelle preghiere e nelle posture, e naturalmente nell’orientamento.   Retrospettivamente, l’intervento postconciliare nella forma liturgia, vecchia di quasi duemila anni e molto coerente, mi sembra una ricostruzione piuttosto violenta e provvisoria della Santa Messa negli anni successivi alla conclusione del Concilio, che è stata associata a grandi perdite che devono essere affrontate. Ciò è stato fatto anche per ragioni ecumeniche   Molte forze, anche da parte protestante, sono state direttamente coinvolte in questo sforzo di allineare la liturgia tradizionale con l’Eucaristia protestante e forse anche con la liturgia ebraica del Sabato. Ciò è stato fatto in modo elitario, dirompente e sconsiderato dalla Commissione Liturgica Romana e imposto all’intera Chiesa da Paolo VI, non senza causare gravi fratture e lacerazioni nel corpo mistico di Cristo, che persistono ancora oggi.

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Una cosa è certa per me: se si riconosce un albero dai suoi frutti, è urgente una rivalutazione spietata e veritiera della riforma liturgica postconciliare: storicamente onesta e meticolosa, non ideologica e aperta, come la nuova generazione di giovani credenti che non conoscono né leggono i testi del Concilio. E non hanno problemi con la nostalgia perché conoscono la Chiesa solo nella sua forma attuale. Sono semplicemente troppo giovani per essere tradizionalisti. Tuttavia, hanno sperimentato come funzionano le parrocchie oggi, come celebrano la liturgia e ciò che resta della loro socializzazione religiosa attraverso la parrocchia: molto poco! Per questo motivo, non sono nemmeno progressisti.   Dal punto di vista odierno, il cattolicesimo liberale o progressismo degli anni Settanta, più recentemente sotto le spoglie del Cammino Sinodale, ha fatto il suo tempo e ha spinto la Chiesa in un vicolo cieco. La frustrazione è di conseguenza grande. La possiamo vedere ovunque. Le funzioni domenicali e feriali sono frequentate principalmente da anziani. I giovani sono assenti, tranne che in alcuni punti caldi della Chiesa, che sono rari e distanti tra loro.   La riforma si sta autogestendo perché nessuno ci va più o legge i risultati, una legge ferrea.   Come è possibile che la riforma postconciliare venga ancora considerata in modo così acritico e ristretto, misurata dai suoi frutti? Perché un esame onesto della tradizione e della nostra storia (della Chiesa) non è ancora possibile? Perché non si vuole vedere che siamo a un bivio e che dovremmo fare il punto della situazione, soprattutto liturgicamente?   Essere o non essere, in termini di fede e di vita ecclesiale, si decide sulla base della liturgia. È qui che la Chiesa vive o muore. Tradizionalisti e progressisti hanno correttamente valutato questo aspetto fin dal 1965.   Allora perché la tradizione è in aumento tra i giovani? Cosa la rende così attraente per i giovani? Pensateci! I piedi votano, non i concili. Forse dovremmo semplicemente cambiare direzione! Capito?   + Marian Eleganti, OSB Già vescovo ausiliare della diocesi di Coira, Svizzera

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Immagine: Santa Messa tradizionale nella Chiesa dell’Assunzione e di San Carlo Magno, Praga Immagine di Karel Bilek via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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Mons. Viganò: il sacerdozio conciliare e la sua mediocrità fanno gioire Satana

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Renovatio 21 pubblica quest’omelia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò. 

 

Fulget Crucis mysterium

Omelia nell’Esaltazione della Santa Croce in occasione del conferimento della Sacra Tonsura e dell’Ostiariato

Indue me, Domine, novum hominem,
qui secundum Deum creatus est,
in justitia, et sanctitate veritatis.

Ef 4, 24

 

 

Tre sono le ragioni di festa e di gioia di questo giorno benedetto.

 

La prima è certamente la ricorrenza liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce, che quest’anno cade provvidenzialmente nel giorno di domenica, a celebrare il trono sul quale è assiso l’Agnello Redentore. Oggi la Croce campeggia nel vessillo del Signore Risorto.

 

La seconda è che dopo anni di prove ed incertezze, ci ritroviamo riuniti come una famiglia nel senso antico del termine: un microcosmo organizzato sul modello di una comunità canonicale di vita in comune. Ci ritroviamo a vedere incoraggiata da un Vescovo, Successore degli Apostoli, la piccola Fraternità Sacerdotale della Familia Christi che dopo anni di tribolazioni riprende vita nella speranza di una rinnovata fecondità.

 

La terza ragione della nostra gioia in questo giorno è che durante questa Messa Pontificale conferisco la Sacra Tonsura a Mauro e Antonio e l’Ostiariato a Claudio. Ringraziamo dunque il Signore per la grazia che ci concede di veder crescere la nostra Comunità e nascervi nuove Vocazioni.

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La Sacra Tonsura è, nella vita di un chierico, uno dei momenti più importanti e altamente simbolici. Con il taglio dei capelli, cari Mauro e Antonio, rinunciate al mondo, per portare anche esteriormente il segno della vostra totale appartenenza a Dio. L’abito clericale e la tonsura vi identificano e vi rendono riconoscibili a tutti: chi vi incontrerà per strada, vedrà prima il vostro abito e poi voi che lo indossate.

 

Esso ricopre con i meriti di Nostro Signore le vostre umane debolezze, e mentre scompare l’uomo, appare il consacrato e il Ministro di Dio. Non dimenticate che questa vostra visibilità, se da un lato vi designa come discepoli di Nostro Signore, dall’altro vi impone di testimoniare con le opere e con una vita esemplare la vostra appartenenza alla Santa Chiesa.

 

Indossate l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità della verità, vi esorta l’Apostolo Paolo (Ef 4, 24). Nella giustizia e nella santità della verità: perché la verità è giusta e santa, in quanto promana da Dio, che è Verità somma, somma Giustizia e somma Santità.

 

Con l’Ostiariato, caro Claudio, sei reso degno di aprire e chiudere le porte del tempio e di suonare le campane per chiamarvi i fedeli. Quest’Ordine Minore ti conferisce le grazie di stato anche per allontanare dalla Casa di Dio chi ne è indegno, spronandoti ad essere tu stesso degno di dimorarvi cum timore et tremore (Fil 2, 12). O quam terribilis est locus iste (Gen 28, 17), esclama Giacobbe dopo il sogno in cui vede la scala che collega la terra al cielo, con angeli che salgono e scendono, e Dio che gli parla. Vere non est hic aliud nisi domus Dei et porta cœli. Luogo terribile, maestoso e solenne, in cui il Sacrificio perfetto offerto dalla Santa Chiesa sale al Padre, mentre dal Cielo discendono copiosi i frutti di quel medesimo Sacrificio.

 

Cari fratelli, da lunghi anni ormai, vediamo con immenso dolore una Gerarchia modernista in preda ad una mentalità totalmente secolarizzata che segue con tetragona ostinazione un preciso piano di dissoluzione della Chiesa, della Messa, del Sacerdozio e della vita religiosa. Questa Gerarchia ha imposto un modello ben preciso di chiesa, di messa, di sacerdozio e di vita consacrata che non ha più Nostro Signore Gesù Cristo al centro: è l’uomo che ha preso il suo posto, e con esso l’idea che gli Ordini Sacri possano essere superati da forme di ministero umanitario, di assistenza sociale, di mutevole dottrina.

 

Dopo sessant’anni il fallimento è incontestabile. Per questo vescovi, cardinali e superiori non possono permettere che il proprio potere sia messo in discussione dal silenzioso monito di un’esistenza come la vostra. I falsi pastori e i mercenari vedono nelle vocazioni sacerdotali e canonicali tradizionali una minaccia, perché costituiscono una pietra di paragone che manifesta e dimostra che quanto è stato colpevolmente abbandonato e distrutto in nome del Concilio Vaticano II costituisce non solo un valore sublime ed eterno ma la miglior difesa contro quelle scellerate «innovazioni» che la riforma conciliare ha imposto.

 

La Chiesa fiorisce di vocazioni sacerdotali proprio quando le tiene separate dal contagio del mondo non solo nei segni esteriori dell’abito e della Tonsura, ma anche e soprattutto nel formarle ad avere Cristo Re e Maria Regina al centro della propria vita e del proprio Ministero. Essere ministri di Dio significa prestare un servizio militare nell’esercito del Signore, nella militia christiana. Significa avere un alto ideale, un modello divino, una meta soprannaturale che rende ogni prova e ogni tribolazione degna di essere affrontata nel fiducioso abbandono alla divina Volontà.

 

La chiesa conciliare e sinodale, invece, agonizza nella crisi delle Vocazioni proprio perché non rappresenta una scelta eroica e non mostra alcuna meta ambiziosa da conquistare nel bonum certamen. Non vi è anzi alcun certamen da combattere, perché nella chiesa odierna non vi sono nemici, se non i Cattolici fedeli alla Tradizione e quanti hanno l’ardire di non inchinarsi all’idolo del Vaticano II.

 

Il sacerdozio conciliare è una scelta di forzata mediocrità, voluta e incoraggiata dall’alto, che demoralizza e anestetizza spiritualmente anche le Vocazioni più generose e oneste. E con il progressivo aggravarsi della situazione, le diaconesse sono già pronte a sostituire i parroci con cerimonie senza Ministro, per la gioia dei Modernisti e di colui che, più di tutti, odia i Sacerdoti e la Messa Cattolica: Satana.

 

Ogni anima consacrata che sia fedele alla spiritualità e al carisma dei propri Fondatori e all’immutabile Magistero Cattolico è un temibile soldato di Cristo, armato della Grazia di Dio e della preghiera. A maggior ragione lo è una Comunità di sacerdoti secolari che ha deciso di vivere insieme per Cristo, con Cristo e in Cristo, in quello scambievole esempio e reciproco sprone richiesto da un carisma esigente, come lo è quello che vi ha lasciato in eredità il Servo di Dio mons. Giuseppe Canovai fatto di continua offerta di sé stessi a Dio Padre per la salvezza degli uomini: «compiere ciò che manca alla Passione di Cristo e, per la salvezza del mondo, offrire, riparare, compensare, sostituire».

 

E come «vivere insieme» con profitto se non tramite una Fede infiammata dalla Carità e dallo zelo apostolico? Zelo che si alimenta con la celebrazione quotidiana della Messa Apostolica e la fedeltà assidua all’Ufficio Divino, pilastri imprescindibile – insieme al Santo Rosario – su cui si deve edificare la vostra vita sacerdotale e il vostro apostolato. Oportet semper orare, et non deficere (Lc 18, 1): pregate, pregate sempre senza stancarvi – vi esorta Nostro Signore. Sia la preghiera vostro scudo e vostra consolazione.

 

La vostra Comunità ha attraversato immani prove e persecuzioni da parte di falsi pastori e di mercenari, tanto a Ferrara quanto a Roma. Ma queste prove, che hanno causato tante sofferenze e richiesto tanta sopportazione, vi hanno dato modo di purificarvi, di abbandonare ogni compromesso con le forme liturgiche del Novus Ordo, di scegliere risolutamente la Tradizione, emendando tutti quegli aspetti che necessitavano di avanzamenti, così da far tesoro degli errori passati per non compierne in futuro.

 

Ma queste prove, che hanno causato tante sofferenze e richiesto tanta sopportazione, vi hanno dato modo di purificarvi, di emendare tutti quegli aspetti che necessitavano di miglioramenti, così da far tesoro degli errori passati per non compierne in futuro. E se il Signore si è degnato di vagliare la sincerità e l’autenticità dei vostri intenti e la vostra perseveranza nella verità e nel bene, benedite queste prove e ringraziateLo per l’aiuto che vi ha accordato, rendendovi degni della Sua grazia.

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Mi rivolgo in modo particolare a Voi, cari Claudio, Mauro e Antonio: fate che ogni vostro pensiero, ogni vostro respiro, ogni battito del vostro cuore ripeta silenziosamente – ma efficacemente – la preghiera dell’inno Crux fidelis:

 

Flecte ramos, arbor alta,
tensa laxa viscera,
et rigor lentescat ille
quem dedit nativitas,
ut superni membra Regis
mite tendas stipite.

 

Sono parole che non possono quasi essere pronunciate senza commuoversi, tanto esse grondano di carità soprannaturale: Piega i rami, alto albero, rilascia le [tue] fibre distese e si pieghi quella rigidità che avesti dalla nascita, per concedere alle membra del Re celeste un tronco tenero. Quando aprirete le braccia in croce, il giorno benedetto della vostra Ordinazione sacerdotale, fate che al legno del vostro Sacerdozio possa appoggiarSi il Salvatore, trovando in voi un tronco tenero che si adatti alle Sue membra.

 

Ricordate le parole dell’inno: Crux fidelis, croce fedele. La Croce è fedele perché non ci inganna, nella crudezza delle sofferenze e dei patimenti che evoca, ma anche nel trionfo della vittoria definitiva di cui è strumento. È fedele perché ha «servito» il suo scopo divino senza tradire la missione di essere l’altare su cui il Salvatore Si è immolato in obbedienza al Padre. È il segno tangibile della fedeltà di Dio al suo popolo e del sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo che ha portato a compimento il piano di salvezza. È fedele nel senso che rimane un simbolo eterno di amore, di redenzione e di vittoria, mai venuta meno al suo scopo divino.

 

Siate anche voi fedeli alla Croce, come lo fu Mons. Giuseppe Canovai, di cui leggiamo nel suo diario queste parole infuocate: «Vivere per la Croce soltanto, averla con se sempre e portare nell’anima la Croce invisibile della carità dolorante del Maestro, unica vera occupazione della vita, unica ragione di esistere». Questa fedeltà alla Croce si traduce nella vera obbedienza, che è obbedienza a Dio prima che agli uomini, specialmente quando, a causa dell’apostasia presente, vi sono uomini che usurpano l’Autorità di Dio contro la Sua santa Volontà, abusando del loro potere imponendo ordini iniqui.

 

La santa obbedienza, l’obbedienza virtuosa e meritoria, non è servile e pavida, ma coraggiosa e responsabile. E come il vostro Maestro è stato obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2, 8) disobbedendo doverosamente a Sommi Sacerdoti traditori e corrotti, così anche voi, sul Suo esempio, abbiate la costanza di rimanere fedeli a Colui che vi giudica e vi mette alla prova per vedervi partecipi della Sua vittoria, sapendo affrontare con fermezza la dolorosa croce di essere trattati come nemici da coloro che dovrebbero esservi padri.

 

Mancheremmo infatti di Carità verso i nostri Superiori, se per timore o per rispetto umano anteponessimo l’ossequio al potente alla doverosa proclamazione della Verità Cattolica e alla fedeltà a ciò che la Santa Chiesa ha sempre insegnato. Come potrebbero infatti rinsavire e convertirsi coloro che trovano in noi dei complici, anziché una voce ammonitrice che li richiami al loro dovere di Pastori?

 

Mancheremmo parimenti di Carità verso i nostri confratelli e verso i fedeli, perché il nostro esempio di obbedienza servile li indurrebbe a tollerare ciò che ogni battezzato ha il dovere di respingere e condannare non per orgoglio o per presunzione, ma per amore di Dio che è somma Verità.

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Non dimenticate che, ai piedi della Croce, vi aspetta la vostra santissima Madre, la Regina Crucis. Fate che Ella veda in voi un alter Christus, e Cristo crocifisso. Ella vi aspetta per consolarvi, e per patire con voi che patite insieme a Suo Figlio. Nei dolori della co-Passione che L’hanno resa Corredentrice, sono comprese anche le prove e le sofferenze di ogni anima sacerdotale che si immola insieme al suo Signore, Sommo ed Eterno Sacerdote.

 

A Lei, Madre della Chiesa e Madre nostra, noi tutti siamo stati affidati dal Salvatore morente quali Suoi figli. È Lei che Nostro Signore ha voluto quale nostra Madre, perché in questa lacrimarum valle potessimo avere l’Avvocata che intercede presso di Lui sino al Suo ritorno glorioso. Se dunque siete Familia Christi, siate anche Familia Mariæ, suoi famigli e suoi servi.

 

E non vi è onore più grande, né privilegio più insigne dell’essere al servizio di Cristo Re e di Maria Regina: oggi, nella battaglia che infuria; domani, nella gloria beata dei Santi.

 

E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

Viterbo, 14 Settembre MMXXV
In Exaltatione S.ctæ Crucis
Dominica XIV Post Pentecostem

 

 

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Immagine da Exsurge Domine

 

 

Renovatio 21 offre questo testo di monsignor Viganò per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

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