Cina
Prove di blocco militare: la risposta di Pechino alla visita di Pelosi a Taipei
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
I cinesi annunciano quattro giorni di esercitazioni aeronavali vicino all’isola «ribelle». Tre zone di esclusione sconfinano nelle acque territoriali taiwanesi. Il blitz di Pelosi ha messo Xi Jinping in una posizione scomoda: il presidente cinese deve placare l’ira dei nazionalisti cinesi. Rischio escalation.
Quattro giorni di esercitazioni aeronavali e missilistiche in sei aree marittime vicino a Taiwan, interdette al passaggio di navi e velivoli non autorizzati.
La risposta «forte» e «risoluta» della Cina comunista alla visita a Taipei di Nancy Pelosi, speaker della Camera USA dei rappresentanti, è una prova tecnica di blocco militare: una delle opzioni in mano ai cinesi in un possibile, futuro scenario d’invasione dell’isola, considerata da Pechino una provincia “ribelle” da riconquistare anche con la forza.
Le manovre militari dovrebbero partire domani, quando Pelosi avrà già lasciato Taiwan.
L’arrivo ieri a Taipei dell’esponente democratica – numero tre nella gerarchia di potere a Washington – ha scatenato l’inevitabile reazione dei cinesi, che parlano di interferenza nei propri affari sovrani.
La minaccia di Xi Jinping nel suo recente incontro virtuale con Joe Biden («chi gioca con il fuoco, finisce per bruciarsi») non sembra però essersi materializzata – almeno per il momento.
Come osservato da diversi analisti, con l’annuncio delle imminenti esercitazioni la Cina ha fatto la mossa più provocatoria in più di 20 anni, da quando nel 1996 ha sparato missili nei pressi di Taiwan in concomitanza con le prime elezioni presidenziali locali.
Nathan Ruser dell’Australian Strategic Policy Institute fa notare che secondo i canoni delle Nazioni Unite, le operazioni cinesi dei prossimi giorni possono rientrare nella definizione di “stato di aggressione”. Tre delle sei zone d’interdizione segnalate dai media cinesi di Stato sconfinano nelle acque territoriali di Taiwan (v. foto).
Pechino ha evitato però nell’immediato azioni più minacciose, come l’intercettazione dell’aereo su cui viaggiava Pelosi, che avrebbe creato una crisi istantanea con gli USA.
In queste situazioni il rischio maggiore rimane sempre quello dell’incidente dovuto a un calcolo errato di una delle parti in causa.
Una delle zone destinate alle esercitazioni cinesi si trova a meno di 20 chilometri da Kaohsiung, la seconda città per grandezza di Taiwan. Non lontano dall’area, in navigazione nel Mar delle Filippine, è presente la portaerei USA Ronald Reagan con il suo gruppo di combattimento; a nord di Taiwan, vicino a Okinawa, Washington ha schierato invece la nave anfibia USS Tripoli.
Nelle prossime settimane i cinesi potrebbero aumentare la pressione su Taipei. Oltre alle manovre militari, Pechino ha imposto sanzioni al settore agroalimentare taiwanese: altri divieti all’import dall’isola non sono da escludere, ma il timore maggiore dei taiwanesi è che le Forze armate cinesi inizino in modo sistematico a violare la «linea mediana» che divide informalmente lo Stretto di Taiwan: un tentativo da parte della Cina di tramutare in realtà la sua pretesa che le acque in questione siano sotto la propria sovranità nazionale e non «internazionali».
Washington e Pechino si sono messe nella posizione di non poter evitare questo stato di alta tensione. Biden si era detto contrario al viaggio di Pelosi (o almeno ha finto di esserlo), ma di fronte alle minacce cinesi Washington non ha potuto fare un passo indietro: avrebbe rischiato di apparire debole davanti agli alleati e ai partner nella regione.
Da parte sua, Xi deve sempre rispondere alla frangia nazionalista del regime e della popolazione: messo in una posizione scomoda dal blitz di Pelosi, il suo ordine di effettuare esercitazioni militari era il minimo che ci si poteva aspettare.
Portare navi e aerei cinesi nelle acque territoriali e nello spazio aereo di Taiwan rappresenterebbe però una pericolosa escalation.
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Cina
Storie di utero in affitto in Cina
Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.
Questa storia nasce dall’intersezione tra la politica cinese del figlio unico, l’assenza volontaria di figli, la maternità surrogata e le norme tradizionali di pietà filiale.
Come riportato dal South China Morning News, un uomo di Yiyang, nella provincia di Hunan, nella Cina centrale, desiderava disperatamente un nipote. Ma sua figlia, 29 anni, ha rifiutato di avere figli o di sposarsi. Così, all’insaputa della moglie, ha organizzato tramite un’agenzia una studentessa universitaria come madre surrogata. Era impregnata del suo stesso sperma.
Sua moglie è tornato a casa un giorno nel 2022 e trovò una tata con un bambino. Lo sconosciuto disse alla moglie che la bambina apparteneva a lei e a suo marito. E infatti, poiché il marito aveva rubato la carta d’identità della moglie, lei e il marito erano stati registrati come genitori del bambino.
La moglie infuriata ha detto ai media: «Mio marito ha detto [a mia figlia]: “La tua scelta significa che non sarò mai nonno. Che senso ha crescerti? Non avere un bambino significa non essere filiale, secondo la cultura tradizionale cinese”». Ora minaccia di divorziare da lui.
Anche la figlia è sconvolta. Lei sostiene che suo padre è del tutto incapace di allevare un figlio da solo. Teme di essere legalmente obbligata ad allevare lei stessa il bambino se i suoi genitori procedessero con il divorzio.
L’orgoglioso padre è ignaro dell’opposizione della sua famiglia. Il suo commento è stato che, poiché la bambina era così carina e sana, la prossima volta avrebbe potuto chiedere all’agenzia di maternità surrogata un maschio.
Michael Cook
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Cina
Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico
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Cina
Cina, nel 2024 calano i profitti per il settore delle terre rare
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
In una comunicazione alla borsa di Shenzhen, la China Rare Earth Resources and Technology ha riferito che l’industria sta affrontando una «fase cruciale» a livello mondiale. La Cina continua a essere leader nell’estrazione e lavorazione dei minerali, ma le difficoltà dell’economia nazionale e la volontà degli altri Paesi di creare nuove catene di approvvigionamento stanno generando ricavi nettamente minori.
Nonostante gli sforzi da parte del governo cinese di dominare a livello mondiale il settore strategico delle terre rare, i ricavi e i profitti delle aziende che si occupano di estrazione e lavorazione di questi minerali essenziali per il mondo digitale hanno registrato una contrazione. Il conglomerato China Rare Earth Resources and Technology, di proprietà statale, ha comunicato un calo del fatturato del 5,4% nel 2023 rispetto all’anno precedente, mentre l’utile netto è crollato del 45,7%.
I dati relativi al primo trimestre del 2024 sono ancora più gravi: il fatturato è sceso dell’81,9%, portando a una perdita netta di 288,76 milioni di yuan (meno di 40 milioni di dollari), contro un utile netto di 108,97 milioni di yuan nello stesso periodo dell’anno precedente. Anche altre aziende cinesi hanno riportato riduzioni del fatturato tra il 60% e il 79%, in linea con il generale rallentamento dell’economia nazionale.
In una comunicazione alla borsa di Shenzhen della settimana scorsa, la China Rare Earth Resources and Technology ha spiegato che il settore sta affrontando una «fase cruciale» caratterizzata da rapidi sviluppi e adattamenti strutturali su scala globale che hanno determinato un’erosione dei guadagni. In altre parole, nonostante la Cina resti di gran lunga il primo estrattore mondiale di terre rare, altri Paesi hanno cercato di costruire catene di approvvigionamento alternative.
Per alcuni tipi di minerali, nuove catene di approvvigionamento «sono già state create», ha proseguito il comunicato della China Rare Earth Resources and Technology, che ha affermato di aver attuato «aggiustamenti nella strategia di vendita», senza fornire ulteriori dettagli. Inoltre, un numero crescente di aziende cinesi ha importato minerali estratti all’estero (soprattutto dal Myanmar) a causa delle difficoltà economiche interne, e in particolare di un calo della domanda. Una situazione che non vede miglioramenti e potrebbe portare al «rischio» di un ulteriore calo di prezzi, ha sottolineato ancora la società.
I dati ufficiali delle dogane cinesi confermano tali affermazioni, secondo il Nikkei Asia: le importazioni di alcune terre rare sono aumentate di circa il 60% ed è stato rivisto il limite di estrazione delle terre rare, stabilito a livello nazionale, per consentire un aumento della produzione interna del 21%.
Le terre rare sono un gruppo di 17 minerali fondamentali per la produzione di una serie di tecnologie, che vanno dalle batterie delle auto elettriche alle turbine delle pale eoliche ai pannelli solari. Secondo i dati dell’US Geological Survey (USGS), le riserve mondiali di terre rare ammontano a 110 milioni di tonnellate, di cui il 40% si trovano in territorio cinese. Seguono poi, per estensione di giacimenti, il Myanmar, la Russia, l’India e l’Australia.
I dati dell’USGS mostrano anche che nel 2023 la Cina è stata responsabile dell’estrazione di 240mila tonnellate di terre rare, pari a circa due terzi della produzione globale. Gli Stati Uniti si sono piazzati al secondo posto, seguiti dal Myanmar, ed entrambi lo scorso anno hanno triplicato la produzione.
Negli ultimi anni la Cina è diventata leader del settore migliorando le proprie capacità di estrazione e lavorazione, ma anche ottenendo il controllo di diversi giacimenti in altre zone del mondo. Un’indagine della BBC ha individuato almeno 62 progetti destinati all’estrazione di litio, cobalto nichel o manganese (minerali necessari per la realizzazione di tecnologie verdi) in cui le aziende cinesi hanno una partecipazione.
La regolamentazione del settore a livello nazionale è iniziata nel 2010 e nel corso gli anni, a seguito di una serie di fusioni, sono state create quattro società principali, tra cui il gruppo China Rare Earth, controllato direttamente dal Consiglio di Stato cinese.
Anche il mese scorso il presidente Xi Jinping, durante una visita nell’Hunan una delle maggiori regioni produttrici, ha ribadito la necessità di «migliorare ulteriormente» lo sviluppo dell’utilizzo delle terre rare per generare una «crescita di alta qualità» e di fornire un «alto livello di sicurezza» alla nazione.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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