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Amicus Plato: la FSSPX e i vaccini

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Anch’io, come altri, ho ascoltato con amarezza e sconcerto le parole pronunciate dal superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X (FSSPX) don Davide Pagliarani nel corso di un recente convegno.

 

L’intervento, pubblicato sul canale YouTube della Fraternità con il titolo «The Superior General of the SSPX Clarifies the Vaccine Debate», si prefiggeva di rispondere a una domanda che agita le coscienze – e sempre più anche le esistenze – di molti cattolici: «Is it morally wrong to take the COVID-19 vaccine?».

 

È ragionevole immaginare che la massima autorità della società fondata da Mons. Marcel Lefebvre abbia così voluto rispondere alle molte sollecitazioni, critiche e richieste d’aiuto provenienti dai fedeli su un tema che sinora ha suscitato nelle gerarchie lefebvriane una reazione ondivaga e reticente, quando non proprio appiattita sulle posizioni dell’antagonista vaticano e quindi del mondo.

 

Va infatti ricordato che la FSSPX si era già espressa in passato sulle questioni morali sollevate dalla vaccinazione anti-COVID e dalle modalità della sua imposizione, pubblicando sul suo sito le riflessioni del segretario generale della società, padre Arnaud Sélégny.

 

In uno di questi scritti («Considérations pratiques sur la vaccination contre la COVID-19», 24 settembre 2021) il sacerdote e medico francese concludeva che «ognuno può prendere liberamente la sua decisione» e giudicava «anormale voler dettare a qualcuno come comportarsi in questi casi», avendo peraltro concesso in premessa la fondatezza di alcune perplessità avanzate dagli scettici.

 

Nel capitolo delle «considerazioni aggiuntive» spuntava però un argomento morale che ha fatto saltare qualcuno, incluso chi scrive, sulla sedia.

 

«Data la necessità (?) di un pass sanitario», scriveva l’autore, «può accadere che l’obbligo di adempiere a un dovere di carità ci spinga ad accettare di farci vaccinare».

 

Proponeva quindi gli esempi del sacerdote che non potrebbe altrimenti entrare negli ospedali per dare gli ultimi conforti ai morenti, del medico che non potrebbe curare gli infermi, del soldato che non potrebbe difendere la patria.

 

Ecco una parafrasi più sottile (e quindi più pericolosa) dell’«atto d’amore» bergogliano: non pecca chi mette la condizione («necessaria»?) né in generale chi vi si sottrae, ma chi nel sottrarsi ad essa si preclude la possibilità di adempiere ai propri doveri di carità e giustizia.

Il succo dell’allocuzione è che la FSSPX non entra ufficialmente nel dibattito («steps aside») perché quel dibattito concernerebbe una «questione medica» estranea alla sua missione

 

Insomma non pecca il sequestratore che prende in ostaggio anziani, malati, adolescenti, bambini, famiglie e lavoratori indigenti… ma chi non paga il riscatto!

 

Qui il sacerdote non era minimamente sfiorato dal sospetto che questo conflitto non è lo spiacevole ed eventuale corollario di un teorema («necessario»?), ma la ratio portante delle restrizioni di volta in volta imposte dai governi, il frutto atteso di una volontà acclarata di mettere i renitenti sotto scacco morale, specialmente verso gli affetti più cari.

 

Nel finale, riprendeva le considerazioni già oggetto di altri interventi sulla liceità di usare prodotti il cui sviluppo ha implicato lo sfruttamento di feti abortiti, non facendo che ripetere con parole proprie la dottrina della «cooperazione remota al male» impostata dalla Pontificia accademia per la vita nel 2005.

 

I documenti del Sélégny e dei suoi collaboratori hanno suscitato aspre reazioni nel mondo del tradizionalismo cattolico e anche tra gli stessi fedeli della Fraternità (vedi ad es. la documentata risposta di un medico australiano), sicché da più parti si è auspicata una presa di posizione al vertice, chiara e definitiva.

 

Ora quel momento è arrivato, ma è onesto dire che l’intervento di don Pagliarani non è né chiaro né (speriamo) definitivo, né aggiunge nulla a quanto già detto se non un supplemento di approssimazione e disimpegno  Se il metodo è merito, già nella conduzione del discorso il reverendo relatore riesce nella non facile impresa di parlare ininterrottamente per venticinque minuti senza mai rispondere alla domanda sovraimpressa nell’anteprima del video. Ripete in continuazione che il tema è complesso («it’s complicated») e accumula spunti e prospettive di cui raramente tira le somme.

 

Il succo dell’allocuzione è che la FSSPX non entra ufficialmente nel dibattito («steps aside») perché quel dibattito concernerebbe una «questione medica» estranea alla sua missione. Una conclusione tanto disarmante quanto teoreticamente grave, da cui discendono tutte le altre incertezze.

L’unico motivo per cui tanti cristiani vivono con inquietudine spirituale la campagna di iniezione globale in corso è perché essa non riguarda più solo la medicina

 

In effetti è proprio vero l’opposto: l’unico motivo per cui tanti cristiani vivono con inquietudine spirituale la campagna di iniezione globale in corso è perché essa non riguarda più solo la medicina.

 

Del resto, se il più vasto esercizio di idolatria della storia umana a noi nota (ricordiamo che la pozione redentrice è adorata e somministrata anche nelle chiese, accompagnata da danze tribali, pubbliche abiure, professioni di fede), se un dispositivo di apartheid che impedisce ai figli di Dio di accedere dove sono ammessi anche i cani, se la menzogna, l’odio del prossimo istigato dalle istituzioni, la violazione generalizzata della legge naturale e morale, la sozzura della liturgia con riti e travisamenti mondani, l’imposizione di un marchio necessario per vendere e comprare (ricorda qualcosa?) e l’oppressione dei più ricattabili (terzo peccato che grida vendetta a Dio), ebbene se tutto ciò è solo una questione medica, allora anche le persecuzioni razziali sono solo una questione genetica, l’aborto una questione di salute riproduttiva, la fornicazione di benessere affettivo, l’interdizione delle sante messe di igiene e, per non farsi mancar nulla, le privazioni prossime venture in nome delle idee green di fisica dell’atmosfera.

Il mascheramento di ogni cosa, e specialmente delle cose spirituali e morali, sotto le etichette neutre della «razionalità scientifica» è la cifra inconfondibile della modernità, il cemento di cui è fatto il materialismo su cui poggia fin dalle origini

 

Il mascheramento di ogni cosa, e specialmente delle cose spirituali e morali, sotto le etichette neutre della «razionalità scientifica» è la cifra inconfondibile della modernità, il cemento di cui è fatto il materialismo su cui poggia fin dalle origini. Accettare i mascheramenti moderni è modernismo. Ridurre un cataclisma morale di queste proporzioni a un fatto tecnico è appunto riduzionismo cartesiano, tecnocrazia in purezza.

 

Non dovrebbe d’altronde sfuggire che da più di due secoli le offese peggiori a Dio si perpetrano avendo sempre cura di non nominarlo e che la scristianizzazione, come aveva già intuito Robespierre, è tanto più trionfante quanto più si nega allo scontro diretto con Cristo e lavora in disparte per spodestarlo coi surrogati del progresso sociale, del relativismo e, appunto, della scienza.

 

Se insomma per riconoscere la dimensione anche teologica del problema qualcuno si aspettasse che un Traiano verghi nero su bianco il collegato obbligo di apostasia, allora possiamo metterci comodi: nulla, neanche l’avvento della società «realizzata con mezzi scientifici… spaventosa che pretende di essere libera e che non avrà più alcuna libertà» profetizzata da mons. Lefebvre nel 1979 gli farà cambiare idea.

 

Resterebbe deluso anche chi cercasse in questi pronunciamenti ufficiali una parola di condanna della violenza tracotante, idolatrica e persecutoria che si sta abbattendo su miliardi di persone. Don Davide si limita brevemente a evidenziare come la dimensione globale dei provvedimenti in atto rendano patente un processo iniziato «trecento anni fa», di sostituzione della missione ecclesiale di unire il mondo in Cristo con il progetto babelico della fraternité universale.

Non dovrebbe d’altronde sfuggire che da più di due secoli le offese peggiori a Dio si perpetrano avendo sempre cura di non nominarlo

 

Il che è verissimo, ma non si capisce allora come si possa condannare l’albero assolvendone i frutti, come si possa credere e far credere che da una radice dissacrante nascano germogli privi di succo teologico, indegni di una prescrizione morale. Né, d’altronde, perché negli ultimi tre secoli i suoi e nostri riferimenti di santità abbiamo denunciato e avversato le emanazioni storiche di quel progetto mentre invece noi dobbiamo solo passare la pratica agli infettivologi.

 

In una delle sue riflessioni, padre Arnaud si era spinto un po’ più in là concedendo che «è vero, le condizioni attuali possono essere considerate abusive, come anche le pressioni esercitate per obbligare alla vaccinazione. Ma», aggiungeva subito dopo, «dobbiamo riconoscere che [per] il semplice fatto di utilizzare uno smartphone o una carta di credito, di navigare su internet o anche solo di guidare un’automobile, accettiamo di subire molte pressioni e costrizioni per ragioni di giustizia, carità, bene comune e spirituale». Tutto nella norma, insomma, riposiamo tranquilli.

 

Altrettanto deluso resterebbe chi sperasse di trovare nelle parole dei vertici lefebvriani non dico riconoscenza o solidarietà, ma almeno caritatevole vicinanza ai fedeli che stanno sopportando il bisogno, l’accanimento di Cesare e il disprezzo delle masse per trattenere con la propria testimonianza l’avanzamento di quel progetto trisecolare, farsi kathecon della profezia lefebvriana e rivendicare nella libertà a cui siamo chiamati il rifiuto di «idolatria… inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni», i frutti della carne (Gal 5,20) dispensati dai crociati della sanitas, la salus terrena.

Don Davide arriva a sostenere che nell’eterogenea «alleanza» dei renitenti si radunerebbero «in prevalenza persone di estrema sinistra» e partiti «green» animati dallo stesso spirito anarchico e libertario figlio del «nuovo ordine mondiale», lo stesso che aveva ispirato le lotte per la libertà di aborto. Ora, chiunque abbia seguito con un po’ di attenzione il dibattito sa che è invece vero il contrario

 

No, non c’è empatia in quei discorsi, e forse neanche simpatia, se don Davide arriva a sostenere che nell’eterogenea «alleanza» dei renitenti si radunerebbero «in prevalenza persone di estrema sinistra» e partiti «green» animati dallo stesso spirito anarchico e libertario figlio del «nuovo ordine mondiale», lo stesso che aveva ispirato le lotte per la libertà di aborto.

 

Ora, chiunque abbia seguito con un po’ di attenzione il dibattito sa che è invece vero il contrario, che la militarizzazione della profilassi ha trovato proprio nei contestatori d’antan e nelle sinistre in genere, con poche eccezioni, i suoi araldi più fanatici e pronti ad additare negli scettici i «nuovi kulaki», gli «individualisti piccolo-borghesi» nemici del bene collettivo e specialmente i negatori della salvezza scientifica: «complottisti», retrogradi, superstiziosi, malati.

 

E che tra questi ultimi i più colpiti sono stati precisamente i cattolici e i fedeli di altri culti più vicini alle dottrine tradizionali, perché meno propensi a farsi trascinare dai «trionfi» moderni. L’insinuazione del sacerdote è quindi gratuita, ingiustificata e soprattutto immeritata. Nell’offrire un quadro invertito della realtà mette insieme persecutori e perseguitati, con un terzismo che non avrebbe sfigurato nella chiesa di Laodicea degli ultimi tempi.

 

***

 

Resta sullo sfondo, come un convitato di pietra, la questione dei feti abortiti utilizzati per sviluppare i vaccini oggi obbligatori de facto o de iure, nel nostro e in altri Paesi.

 

La descrizione in calce al filmato si apre con l’avvertimento che «la FSSPX non ha la competenza (orig. competence) di lanciare un boicottaggio dei prodotti macchiati dall’aborto».

Resta sullo sfondo, come un convitato di pietra, la questione dei feti abortiti utilizzati per sviluppare i vaccini oggi obbligatori de facto o de iure, nel nostro e in altri Paesi

 

Ma, precisamente, di quale «competenza» si sta parlando qui?

 

In che cosa differirebbe questa «competenza» da quella dottrinale e morale di promuovere il boicottaggio dei siti pornografici, della stampa atea o delle messe in vernacolo?

 

Chi la dispensa, chi la certifica, chi ne stabilisce il perimetro? Non si sa.

 

Come si è scritto, sul tema la FSSPX segue la dottrina vaticana della «cooperazione materiale passiva» a un male – un aborto volontario, o meglio una serie – che sarebbe moralmente lecita se intesa a scongiurare «un pericolo grave» in mancanza di altri rimedi.

 

Alcuni esponenti del mondo cattolico hanno contestato la solidità di questo argomento. Anche accettandone l’impianto teologico, astrattamente valido, rimarrebbe aperto il problema logico delle sue condizioni nel punto concreto: la sussistenza del «pericolo grave» (che nel contesto in specie non è certo e decresce drasticamente in funzione inversa dell’età e delle patologie concorrenti); la mancanza di altri rimedi (mentre oggi si sono perfezionati protocolli di cura efficaci); l’efficacia e la sicurezza del rimedio proposto. A queste critiche del testo, nel cui merito non ho la competenza (questa volta davvero) di entrare, se ne possono aggiungere almeno un paio di contesto.

 

Storicamente, l’attuale dottrina è stata impostata nel 2005 dalla Pontificia accademia per la vita nelle «Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule provenienti da feti umani abortiti».

 

Lì, restando ferma la condanna dei prodotti in qualsiasi modo preparati con materiale abortivo umano, si forniva una doppia prescrizione morale «per quanto riguarda i vaccini senza alternative», di «ribadire sia il dovere di lottare perché ne vengano approntati altri, sia la liceità di usare i primi nel frattempo nella misura in cui ciò è necessario per evitare un pericolo grave».

 

La posizione fu integrata alcuni anni dopo anche nell’istruzione Dignitas personae (par. 34) della Congregazione per la dottrina della fede, in deroga al principio generale sancito dall’enciclica Evangelium vitae (1995), che «l’uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona» (par. 62).

Sul tema la FSSPX segue la dottrina vaticana della «cooperazione materiale passiva» a un male – un aborto volontario, o meglio una serie – che sarebbe moralmente lecita se intesa a scongiurare «un pericolo grave» in mancanza di altri rimedi

 

Seguirono altri due documenti nel 2017 (Accademia per la vita, CEI, Associazione Medici Cattolici Italiani, «Nota circa l’uso dei vaccini») e nel 2020 (Congregazione per la dottrina della fede, «Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini anti-COVID-19») in cui si ribadivano gli stessi concetti.

 

La lettura contestuale di questi pronunciamenti offre spunto a qualche riflessione critica. La prima riguarda il tempismo degli ultimi due documenti, il primo pubblicato nel mezzo delle polemiche che accompagnarono l’inasprimento degli obblighi vaccinali per l’infanzia (la nota dell’Accademia usciva il 30 luglio, due giorni dopo la conversione in legge del decreto Lorenzin, mentre norme simili entravano in vigore anche in Francia, Germania, Stati Uniti, Israele e altri Paesi), il secondo una settimana prima dell’inizio della campagna di vaccinazione globale contro il COVID-19.

 

Ora, siccome queste dichiarazioni non aggiungono proprio nulla ai documenti precedenti, è logico concludere che il loro scopo non sia stato altro che quello di rinforzare le agende politiche del momento e spingere i fedeli verso i desiderata del mondo in una fase critica di dubbio e di contestazione. Questo ruolo contingente e ausiliario della Chiesa cattolica può suscitare qualche legittima riserva sull’indipendenza delle sue iniziative e dei suoi giudizi.

 

In secondo luogo, non si può non rilevare in questi ragionamenti teologici la singolarità assoluta della deroga vaccinale, il suo riguardare cioè nei fatti l’unica pratica a cui sia data facoltà di ergersi sopra i principi posti in via generale e costituirsi così come una casistica morale sui propri generis.

 

Il che fa riflettere, da un lato, sulla solidità della pretesa di derubricarla a una questione minore e dottrinalmente neutra (appunto, «medica»), dall’altro sulla straordinaria forza sovversiva attribuitale nell’immaginario moderno, tale da farne la testa d’ariete di rinnovamenti e riforme legibus soluti.

 

Se nelle cose del governo civile i ribaltamenti dell’eccezione vaccinale si misurano contando le carcasse dei diritti e dei principi giuridici che le abbiamo sacrificato, persino la morale religiosa si ritrae al suo incedere spalancando brecce altrimenti inammissibili. La presa d’atto di questa anomalia consentirebbe di dissipare il fumus medicale per cogliere i sottostanti semi di disagio di una civiltà fatalmente tentata dalla liquidazione di sé e dal sogno di una qualche palingenesi sinora frenata dai compromessi della legge e del costume.

Va infine ricordato che, al contrario di ciò che scrivono i giornali, la Chiesa cattolica non ha mai «assolto» i vaccini collegati all’aborto, ma ne ha solo autorizzato l’uso in circostanze straordinarie

 

Va infine ricordato che, al contrario di ciò che scrivono i giornali, la Chiesa cattolica non ha mai «assolto» i vaccini collegati all’aborto, ma ne ha solo autorizzato l’uso in circostanze straordinarie.

 

In tutti i documenti citati si deplora in effetti l’utilizzo delle cellule di feti umani per sviluppare e produrre farmaci e si rivolgono appelli all’industria affinché li sostituisca al più presto con «vaccini etici», chiedendo in certi casi ai fedeli di pretendere che ciò avvenga. Pur riconoscendo il punto, non si può ciò nondimeno ignorare che negli oltre quindici anni trascorsi dalla diffusione del primo documento la produzione e il consumo di questi farmaci si sono moltiplicati a ritmi esponenziali, fino al boom dell’ultimo anno.

 

Dal 2005, quando si trattava quasi solo dei vaccini infantili contro la rosolia (allora neanche obbligatori), si sono nel frattempo aggiunte decine di miliardi (!) di dosi di vecchi e nuovi farmaci sviluppati con le stesse tecniche e, negli ultimi tempi, con l’ambizione di imporli ripetutamente e forzatamente a tutta popolazione mondiale.

 

Di fronte a un fallimento così spettacolare dei propri appelli, il fatto che ora la Chiesa non sappia fare di meglio che ripeterli a mo’ di ciclostilato e incoraggiare anche questa volta la nuova campagna «purché sia l’ultima volta» non è minimamente credibile. Non è credibile, né serio, né razionale.

 

Sarebbe stato piuttosto logico intensificarli e rinforzarli con altre iniziative: documenti di gerarchia superiore, campagne di stampa, pressioni diplomatiche, mobilitazioni di popolo e altro, fino al boicottaggio o almeno alla sua minaccia. Ma siccome nulla di tutto ciò è accaduto, e anzi dall’iniziale concessione a denti stretti si è passati alla promozione attiva in ogni sede possibile, non si può biasimare chi ha letto in questo ripetersi di autorizzazioni condizionate un’autorizzazione piena, perpetua e senza condizioni, un assegno in bianco su cui contare anche in futuro. Né, di conseguenza, chi ha smesso di credere che vi sia una qualche seria intenzione di risolvere il problema.

 

***

 

Tornando a don Davide, alla fine del suo intervento si rivolge a un ascoltatore preoccupato dai profili etici della profilassi globale proponendo alcuni exempla nel solco della dottrina vaticana, e quindi anche della sua problematicità.

 

Prendiamo il primo. Al caso di un uomo assassinato dal quale sarebbe moralmente lecito asportare e trapiantare una cornea manca semplicemente tutto ciò che possa renderlo applicabile al demonstrandum: 1) la sistematicità del nesso tra il malum (l’omicidio) e il bonum (il recupero della vista), trattandosi di un caso del tutto eccezionale; 2) la necessità di quel nesso (la causa di morte non rileva ai fini dell’intervento); 3) l’intenzionalità di quel nesso, ricordando che nel caso in esordio il malum non è costituito solo dagli aborti, ma anche dall’«uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione» (Evangelium Vitae, cit.) direttamente finalizzato allo sviluppo di farmaci, mentre invece l’omicidio in exemplo non è neanche indirettamente finalizzato al trapianto; e soprattutto 4) il conflitto tra codici e sensibilità morali diversi e il conseguente rischio di legittimare un mezzo accettandone il fine.

 

Contrariamente all’aborto e alla sperimentazione sui tessuti fetali, l’uccisione di un uomo è infatti un atto già condannato dalle leggi statuali, sicché non vige il rischio di «aumentare l’indifferenza, se non il favore con cui queste azioni sono viste in alcuni ambienti medici e politici» (Dignitas personae, par. 35). Si è già visto quanto invece questo rischio si sia rivelato reale nel caso in dibattito, oltre le più nere previsioni.

 

In un altro esempio il superiore della Fraternità richiama, sulla scorta di una riflessione già del Sélégny, la diatriba sorta tra i cristiani delle origini sulla liceità di cibarsi dei cosiddetti «idolotiti», le carni degli animali precedentemente sacrificati agli dei pagani. Anche in quel caso, argomentano i due sacerdoti, il consumo dei resti delle offerte non costituiva né un sacrilegio né un peccato di partecipazione al male, mancando l’intenzione e la cooperazione diretta all’idolatria.

 

Oltre a riproporsi qui il solito nesso difettoso tra delitto e beneficio (il sacrificio non era finalizzato a far sì che i non pagani mangiassero bistecche, sicché, nel farlo, i secondi non potevano giustificare il primo), andrebbe menzionato che in effetti il precetto di «astenervi dalle carni offerte agli idoli» (At 15,22) vige almeno formalmente dai tempi del concilio di Gerusalemme (49 d.C.).

 

Qui evidentemente si fa riferimento alla successiva e più articolata trattazione del problema offerta da Paolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi, dove invece il consumo degli idolotiti è autorizzato in via generale perché «noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo» (1Co 8,4), perché, come si direbbe oggi in tribunale, «il fatto non sussiste».

«Se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello» (1Co 8,13)

 

Fissato il principio, l’Apostolo solleva però un’eccezione nel caso in cui ciò suscitasse scandalo nei fratelli teologicamente meno edotti: «se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello» (1Co 8,13).

 

Nel caso odierno è purtroppo innegabile che la profanazione sia sussistita nella materia pulsante degli esseri umani e non verso un’idea superstiziosa, ma è altresì evidente che chi accetta i suoi frutti intenzionali e diretti ne giustifica appunto l’intenzione e si collocherebbe semmai nel caso condannato ai versetti 20, 21 e 22 del capitolo 10, di chi siede proprio alla mensa del sacrificio.

 

In quanto allo scandalo, ai due sacerdoti basterebbe discutere coi propri fedeli per scoprire quanto sia esso profondo e diffuso nel popolo di Dio e quanto avrebbero perciò il dovere di attenersi al monito di carità dell’Apostolo, prima di tirarlo per la tunica sul proprio terreno.

 

Perché, in effetti, il vizio più grave di tutto il ragionamento è sotto gli occhi di tutti. Se è vero che una dimostrazione per exempla non può essere apodittica, non deve però mancare di proporzione e decenza. Mettere nello stesso sillogismo la carne delle bestie da macello e i corpi innocenti dei figli di Dio è un azzardo che offende l’umanità e il buon senso molto prima della dottrina.

 

Il presupposto dell’insegnamento paolino, quello che traccia il perimetro invalicabile della sua applicazione letterale e anche analogica, è che «gli animali furono da Dio messi a disposizione delle creature per loro nutrimento» (card. Parente, in Dizionario di teologia dommatica, 1945).

 

«Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza fare inchieste per motivo di coscienza», scrive l’Apostolo ai corinzi, «perché al Signore appartiene la terra e tutto quello che essa contiene» (1Co 10,25-26). Il chiaro senso di citare qui l’incipit del salmo 24 è quello della benedizione data da Dio a Noè e ai suoi figli: «Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo, vi do tutto questo, come già le verdi erbe» (Gen 9,3), la stessa che alla riga successiva fissa invece la sacralità del corpo e della vita degli uomini:

 

«Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo» (Gen 9,5-6).

Bisognerebbe insomma spiegare in quale passo delle scritture il Creatore avrebbe (mi sento male solo a scriverlo) messo a disposizione dell’uomo anche le membra assassinate e immature dei suoi simili per cavarne pozioni

 

Bisognerebbe insomma spiegare in quale passo delle scritture il Creatore avrebbe (mi sento male solo a scriverlo) messo a disposizione dell’uomo anche le membra assassinate e immature dei suoi simili per cavarne pozioni.

 

L’orrore suscitato dalla metafora dimostra più di mille esegesi che nelle cose di fede non c’è rigore senza cuore, e viceversa.

 

***

 

Il cattolicesimo degli ultimi decenni deve molto alla Fraternità San Pio X, al suo fondatore e ai suoi sacerdoti.

 

Ciò è vero soprattutto oggi, mentre i fallimenti delle promesse moderne spingono molte persone a cercare – e trovare – altri riferimenti in una spiritualità che di quelle promesse rifiuta sia il contenuto sia gli annessi pratici e ideologici.

 

Il successo delle chiese «tradizionali» e la simmetrica caduta di quella ufficiale poggiano su questo bisogno di un’opposizione radicale e coraggiosa, come fu coraggiosa la resistenza che mons. Lefebvre pagò con la scomunica.

 

È perciò naturale che ogni inchino ai mitologemi moderni sia vissuto non come un errore, ma come un venir meno della ragion d’essere di queste istituzioni e perciò, date le circostanze attuali, una ferita che si apre sul vuoto. La guerra alla liturgia delle origini si sta facendo infatti troppo serrata e ossessiva per essere solo una questione di forma e i porti sicuri diventano sempre più rari. Domine, ad quem ibimus?

 

Nell’adesione delle alte gerarchie lefebvriane alla linea vaticana su un tema che oggi occupa in maniera così soffocante la dimensione intima e sociale di miliardi di persone, sembra intravedersi la volontà di non farsi trascinare su un campo di battaglia infuocato e irto di trappole.

 

Il che è forse (forse) comprensibile, ma innanzitutto dimostra quanto sia debole la pretesa di ridurre il fenomeno alla sua scorza tecnica, in secondo luogo rende incomprensibile la scelta di avventurarvisi comunque, e in modo così ambiguo e scalcagnato.

 

Tra le tante note negative di queste incursioni va però riconosciuto un merito, la volontà dichiarata dal superiore della Fraternità di rimettere ai sacerdoti le valutazioni di coscienza sul caso – come in effetti accade – distinguendosi almeno qui dall’esempio del soglio romano che invece ai suoi ministri distribuisce kit promozionali affinché si facciano piazzisti e apologeti del siero.

 

Ma se l’idea fosse davvero questa, di delegare la lotta alle retrovie, perché allora insistere con simili uscite? E per chi?

 

 

Il Pedante

 

Pensiero

Verso il liberalismo omotransumanista. Tucker Carlson intervista Dugin

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Il giornalista americano Tucker Carlson ha pubblicato una potente intervista con il filosofo russo Aleksandr Dugin. La conversazione è stata pubblicata lunedì sul sito Tucker Carlson Network e sul suo canale YouTube.

 

L’incontro è avvenuto durante in viaggio di Carlson a Mosca – città nella quale Dugin gli dà il benvenuto – per la notoria intervista che il californiano ha ottenuto con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.

 

Come riportato da Renovatio 21, Dugin in un editoriale aveva sottolineato l’intervista di Carlson a Putin come un evento epocale in grado di riunire due anime della società russa, sia quella tradizionalista che quella filo-occidentale. Durante il suo soggiorno a Mosca – dove secondo alcuni sarebbe pure scampato ad un attentato, cosa di cui non vuole parlare – Tucker ha voluto incontrare Dugin, perché, racconta, curioso delle sue idee.

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Nella sua introduzione, il giornalista statunitense – dopo aver detto di credere ai servizi segreti americani quando dicono che la figlia di Dugin, Darja Dugina, è stata uccisa dagli ucraini – racconta di essere interessato a sentire qualcuno i cui libri sono stati proibiti dall’amministrazione Biden: quando lavorava ancora a Fox, Carlson fece un servizio sull’improvvisa sparizione dei libri di Dugin da Amazon, fenomeno notato da Renovatio 21 due mesi prima.

 

Parlando con il filosofo, ha quindi deciso di filmare i discorsi. Secondo Alex Jones, Carlson avrebbe filmato molto materiale, di cui è uscito questo segmento editato.

 

La conversazione pubblicata, della durata di 20 minuti, è stata particolarmente ricca di spunti di pensiero.

 

 

Carlson chiede a Dugin cosa sta succedendo nei paesi di lingua inglese: «gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia hanno deciso all’improvviso di rivoltarsi contro se stessi con questo grande tumulto. E alcuni comportamenti sembrano molto autodistruttivi. Da dove pensa, come osservatore, che provenga questo?»

 

«Credo che tutto sia iniziato con l’individualismo» risponde Dugin. «L’individualismo era una comprensione sbagliata della natura umana, della natura dell’uomo. Quando si identifica l’individualismo con l’uomo, con la natura umana, si tagliano tutti i suoi rapporti con tutto il resto. Quindi si ha un’idea molto particolare del soggetto, del soggetto filosofico come individuo».

 

Qui Dugin offre una visione in linea con quella del tradizionalismo cattolico: «tutto è iniziato nel mondo anglosassone con la riforma protestante e prima ancora con il nominalismo: l’atteggiamento nominalista secondo cui non esistono idee, ma solo cose, solo cose individuali» spiega il filosofo.

 

«Quindi l’individuo, era la chiave ed è tuttora il concetto chiave che è stato posto al centro di un’ideologia liberale e del liberalismo poiché, nella mia lettura, è una sorta di processo storico e culturale, politico e filosofico di liberazione, dell’individuo, di qualsiasi tipo di identità collettiva, collettiva o che trascenda quella individuale».

 

«Tutto è iniziato con il rifiuto della Chiesa cattolica come identità collettiva, dell’impero, dell’impero occidentale come identità collettiva. Successivamente si è trattato di una rivolta contro uno Stato nazionalista come identità collettiva a favore di una società puramente civile. Dopo quella guerra, nel XX secolo ci fu la grande battaglia tra liberalismo, comunismo e fascismo. E il liberalismo ha vinto ancora una volta. E dopo la caduta dell’Unione Sovietica è rimasto solo il liberalismo».

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«Francis Fukuyama ha giustamente sottolineato che non esistono più ideologie all’infuori del liberalismo… il liberalismo, cioè la liberazione degli individui da ogni tipo di identità collettiva» spiega Dugin, citando il politologo noto negli anni Novanta per la nozione di «fine della Storia» a seguito del crollo del blocco sovietico.

 

«Erano rimaste solo due identità collettive da cui liberarsi: l’identità di genere perché è identità collettiva. Sei un uomo o una donna collettivamente (…) Quindi una liberazione dal genere. E questo ha portato ai transgender, alla comunità LGBT e a una nuova forma di individualismo sessuale. Quindi il sesso è qualcosa di facoltativo».

 

«Questa non era solo una deviazione del liberalismo. Erano elementi necessari per l’attuazione e il vincitore di questa ideologia liberale. E l’ultimo passo non ancora compiuto è la liberazione dall’identità umana. L’umanità è facoltativa. E ora stiamo scegliendo te in Occidente. Stai scegliendo il sesso che vuoi, come vuoi».

 

«L’ultimo passo in questo processo di liberalismo, nell’attuazione del liberalismo, significherà proprio l’umano come opzionale. Quindi puoi scegliere la tua identità individuale per essere umano, e per essere non umano. Questo ha un nome. Transumanesimo. Postumanesimo. Singolarità. Intelligenza artificiale».

 

«Klaus Schwab, Harari, dichiarano apertamente che il futuro dell’umanità è inevitabile. Arriviamo così alla storica stazione terminale: cinque secoli fa, siamo saliti su questo treno ed ora stiamo finalmente arrivando all’ultima stazione. Quindi questa è la mia lettura».

 

«Tutti gli elementi, tutte le fasi di questo, tagliano la tradizione con il passato. Quindi non sei più protestante. Sei un materialista ateo laico. Non hai più lo Stato nazionale che servì ai liberali per liberarsi dall’impero. Ora lo Stato nazionale diventa a sua volta un ostacolo. Ti stai liberando dallo Stato nazionale. Infine, la famiglia viene distrutta a favore di questo individualismo».

 

«E poi l’ultima cosa, il sesso, che è già quasi superato. Sesso facoltativo. E nella politica di genere c’è solo un passo per arrivare agli estremi di questo processo di liberazione, di liberalismo, cioè l’abbandono dell’identità umana come qualcosa di prescritto. Quindi essere liberi dall’essere umani, avere la possibilità di scegliere tra essere e non essere umani».

 

«Questa è l’agenda politica, l’agenda ideologica di domani. Ecco perché, come vedo il mondo anglosassone che mi ha chiesto» dice Dugin a Carlson. «Penso che sia solo avanguardia, perché è iniziato con gli anglosassoni, l’empirismo, il nominalismo, il protestantesimo. E ora siete in vantaggio con gli anglosassoni che sono più prosciugati dal liberalismo rispetto agli altri europei».

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Carlson procede con una domanda di approfondimento: «quindi le opzioni – per come le concepivo crescendo – erano l’individuo che può seguire la propria coscienza, dire quello che pensa, difendersi dallo Stato contro lo statalismo, il totalitarismo incarnato nel governo contro cui si lottava: il governo sovietico. E penso che la maggior parte degli americani la pensi in questo modo. Qual è la differenza?»

 

«Penso che il problema risieda in due definizioni di liberalismo» puntualizza Dugin. «C’è il vecchio liberalismo, il liberalismo classico. E nuovo liberalismo. Quindi il liberalismo classico era a favore della democrazia. Democrazia intesa come potere della maggioranza, del consenso, della libertà individuale. Ciò dovrebbe essere combinato in qualche modo con la libertà dell’altro».

 

«Ora siamo già completamente nella prossima stazione, nella fase successiva: il nuovo liberalismo. Ora non si tratta del governo della maggioranza, ma del governo delle minoranze. Non si tratta di libertà individuale, ma di wokismo. Quindi puoi essere così individualista da criticare non solo lo Stato, ma anche l’individuo, la vecchia concezione dell’individuo. Quindi ora hai bisogno di essere invitato a liberarti dall’individualità per andare oltre in quella direzione».

 

Dugin ricorda di averne parlato con Fukuyama in TV, «Come ha già detto in precedenza, la democrazia significa il governo della maggioranza. E ora si tratta del dominio delle minoranze contro la maggioranza, perché la maggioranza potrebbe scegliere Hitler o Putin. Quindi dobbiamo stare molto attenti con la maggioranza, e la maggioranza dovrebbe essere tenuta sotto controllo e le minoranze dovrebbero governare sulla maggioranza. Non è democrazia, è già totalitarismo».

 

«Ora non si tratta della difesa della libertà individuale, ma della prescrizione di essere woke, di essere moderni, di essere progressisti. Non è un tuo diritto essere o non essere progressista. È tuo dovere essere progressisti e seguire questo programma. Quindi sei libero di essere un liberale di sinistra. Non sei più abbastanza libero per essere un liberale di destra. Devi essere un liberale di sinistra. E questo è una sorta di dovere. È una prescrizione. Il liberalismo ha lottato nel corso della sua storia contro ogni tipo di prescrizione. E ora è diventato a sua volta totalitario, prescrittivo e non più libero com’era».

 

«E le crede che questo processo sia stato inevitabile? Sarebbe comunque successo?» domanda il Tucker.

 

«Percepisco qui una sorta di logica. Quindi un tipo di logica che non è solo un ritorno o una deviazione. Inizi con uno scopo: vuoi liberare l’individuo. Quando arrivi al punto in cui è possibile, viene realizzato. Quindi è necessario andare oltre. Da questo momento inizia la liberazione dalla vecchia comprensione dell’individuo in favore di concetti più progressisti. Non ci si poteva fermare qui. Questa è la mia visione».

 

«Quindi se dici “Oh, preferisco il vecchio liberalismo”, direbbero, i progressisti, direbbero, non si tratta del vecchio liberalismo, ma di fascismo: divieni il difensore del tradizionalismo, del conservatorismo, del fascismo. Quindi fermati qui. O divieni progressista liberale o sei finito, o ti cancelleremo. Questo è ciò che osserviamo».

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«E vedere i sedicenti liberali bandire il suo libro, che non è un manuale per fabbricare bombe o invadere l’Ucraina» dice Carlson. «Sai, queste sono opere filosofiche. Ti dice che non è, ovviamente, non è liberale in alcun senso. Mi chiedo però, quando si arriva al punto in cui l’individuo non riesce più a liberarsi da nulla, quando non è nemmeno più umano. Qual è il prossimo passo?»

 

«Ciò è descritto nei film, nei film americani, nei film, in molti modi. Quindi penso che, sai, tutta la fantascienza, quasi tutta quella del XIX secolo, è stata realizzata nella realtà negli anni Venti. Quindi non c’è niente di più realistico della fantascienza. E se consideriamo Matrix o Terminator, abbiamo tantissime versioni del futuro più o meno coincidenti, il futuro con la situazione post-umana o umana opzionale o con l’Intelligenza Artificiale», replica Dugin.

 

«Hollywood ha realizzato molti, molti, molti film. Penso che rappresentino correttamente la realtà del prossimo futuro. Ad esempio, se consideriamo l’uomo, la natura umana, come una specie di animale razionale, allora con la nostra tecnologia si può produrli, così da poter creare animali razionali o combinarli o costruirli con l’Intelligenza Artificiale».

 

«È una specie di re del mondo. Direi che non solo può manipolare, ma creare realtà perché le realtà sono solo immagini, solo sensazioni, solo sentimenti. Quindi penso che il futurismo post-umanista sia non solo una sorta di descrizione realistica di un futuro molto possibile e probabile, ma anche una sorta di manifesto politico. Questo è un pio desiderio».

 

«Il fatto che i film non descrivono un brillante futuro tradizionale. Non conosco nessun film sul futuro e sull’Occidente che dipinga un ritorno alla vita tradizionale, alla prosperità, alle famiglie con molti figli… e tutto è abbastanza nell’ombra, abbastanza oscuro. Quindi, se sei abituato a dipingere tutto di nero soprattutto nel futuro, quindi questo futuro nero una volta arriva e penso che sia il fatto che non abbiamo altra scelta. O Matrix o Intelligenza Artificiale o qualcosa del genere o Terminator. Quindi la scelta è già fuori dai limiti dell’umanità. E questa non è solo fantasia, credo. Questo è una sorta di progetto politico. Ed è facile immaginarlo, poiché abbiamo visto i film, seguono più o meno da vicino questa agenda progressista, direi».

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Carlson procede con un’ultima domanda, chiedendo del fenomeno per cui «per oltre 70 anni un gruppo di persone in Occidente e negli Stati Uniti, liberali, hanno difeso efficacemente il sistema sovietico e lo stalinismo, e molti vi hanno partecipato personalmente spiando per Stalin, lo ha sostenuto nei nostri media» dice il giornalista. «Amavano Boris Eltsin perché era ubriaco. Ma nel 2000, la leadership di questo Paese è cambiata e la Russia è diventata il loro principale nemico. Quindi, dopo 80 anni e passa di difesa della Russia, si sono messi ad odiare la Russia. Che cosa è tutto questo? Perché il cambiamento?»

 

«Penso che, prima di tutto, Putin sia un leader tradizionale. Quando Putin salì al potere, fin dall’inizio, ha cominciato a sottrarre il nostro Paese, la Russia, all’influenza globale. Così ha iniziato a contraddire l’agenda progressista globale. E queste persone che sostenevano l’Unione Sovietica erano progressisti, che hanno avuto la sensazione di avere a che fare con qualcuno che non condivide l’agenda progressista e che ha tentato con successo di restaurare i valori tradizionali, la sovranità dello Stato, il cristianesimo, la famiglia tradizionale».

 

«Questo non era evidente fin dall’inizio, da fuori. Ma quando Putin ha insistito sempre di più su questa agenda tradizionale, direi, sulla particolarità e spiritualità della civiltà russa come un tipo speciale di regione del mondo che aveva e ha ora, pochissime somiglianze con i progressisti, gli ideali progressisti. Quindi penso che abbiano scoperto, abbiano identificato cosa esattamente è Putin. È una sorta di leader, un leader politico che difende i valori tradizionali».

 

Solo di recente, un anno fa, Putin ha emanato un decreto di difesa politica dei valori tradizionali. É stato un punto di svolta, direi. Ma gli osservatori del campo progressista in Occidente, penso che lo abbiano capito correttamente fin dall’inizio del suo governo. Quindi, questo odio non è solo casuale, qualcosa di casuale o uno stato d’animo. Non lo è… È metafisico».

 

«Quindi, se il tuo compito principale e il tuo obiettivo principale è distruggere i valori tradizionali, la famiglia tradizionale, gli stati tradizionali, le relazioni tradizionali, le credenze tradizionali e qualcuno con l’arma nucleare – questo non è l’argomento più piccolo, ma nemmeno il meno importante – può resistere e difendere i valori tradizionali che stai per abolire… Ecco, penso che ci sia qualche fondamento per questa russofobia e per l’odio per Putin. Quindi non è solo un caso. Non si tratta di un cambiamento irrazionale dal filosovietismo alla russofobia. È qualcosa di più profondo direi. Questa è la mia ipotesi».

 

Tanto, tanto materiale su cui riflettere.

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Immagine screenshot da Tucker Carlson Network

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Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza

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Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.   Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».   Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?

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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.   Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.   La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.   La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.   Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.   Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.   Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.   Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.   Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.   In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.   Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.   In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.

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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.   Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.   Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?   Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.   Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.   Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.   Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.   E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.   Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.   Buon lavoro.   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo

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Ho sempre provato un certo disagio di fronte agli eroi di cartapesta creati dalla filiera economica della «cultura» nazionale. È l’apparato industrial-intellettuale che passa dai grandi editori (una volta soprattutto Feltrinelli, ma in realtà un po’ tutti, specie in era marinaberlusconiana), si innerva sui giornali (Repubblica, a seguire, come sempre il Corriere, e giù gli altri), corre per le librerie di tutta Italia (con incontri dove vanno, magari, trenta persone pensionate in tutto) e si riversa, oltre che nei teatri, nella TV pubblica a tutte le ore, soprattutto quelle notturne.

 

Avete presente: gli «intellettuali», gli «scrittori», quelli che hanno pubblicato un libro, a volte, tragicamente, un «romanzo». I giornalisti, i librai, gli enti teatrali, i dirigenti televisivi ve li indicano come persone da ascoltare, da seguire. Sono dei contenuti importanti, cui dovete dare la vostra attenzione.

 

Basta leggere qualche pagina delle loro opere per capire di trovarsi davanti al vuoto pneumatico, e quindi tornare con la mente all’ineludibile legge di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.

 

Cioè, qualsiasi «scrittore» vi propongano – in libreria, in televisione, al teatro comunale, sul giornale – non è che vogliano davvero portarvi un suo messaggio, una sua riflessione, un suo pensiero (di solito, anzi, non ce n’è traccia), ma vogliono semplicemente tenervi incollati al medium, cioè al sistema. Consuma questo importante autore di libri, ti dicono, ma in verità quello che stanno davvero chiedendo è che non cambi canale: resta con noi, non staccarti dal continuum dell’industria culturale nazionale.

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È una questione di rinforzo della dipendenza sistemica, camuffata da nobile impulso illuminista all’educazione: leggi qui, sarai migliore. O con più sincerità: fatti intrattenere da noi, è l’unica via.

 

Una questione di identità, di classe sociale. Ecco perché ci ritroviamo, tra i tanti scrittori che ci infliggono, un discreto numero di professori. Essi divengono la proiezione del famigerato «ceto medio riflessivo», cioè di quantità di insegnanti di elementari, medie e superiori (e università: vertice della sottocasta dell’istruzione statale) che si sentono migliori perché leggono i libri, e che sperano che, un giorno, leggendo Repubblica e collane Feltrinelli magari anche a loro un giorno daranno 15 minuti di gloria letteraria.

 

La cultura di sinistra – cioè la cultura italiana – vive di fatto su un grande ricatto identitario: se non consumi il prodotto culturale nazionale, se quindi non credi a tutti gli assiomi che vi sono inseriti (civili, storici, politici, religiosi, «laici»), se fuori dalla storia. Impresentabile, invisibile. Questa cesura, come in ogni altro campo della vita, si è rivelata in tutta la sua oscenità durante il COVID.

 

Ricordate, infatti, dove stavano gli intellettuali, durante il biennio di lockdown e sieri genici? Ricordate gli editoriali sui giornali? Gli inni al generale vaccinaro, e magari pure l’occhiolino fatto ad un possibile «golpe» pro-siero? Ricordate gli articoli in cui lo scrittore diceva, sconsolato, di aver trovato tra i suoi amici dei no-vax? Ricordate le preghiere dei saggi affinché nel Paese fosse realizzata l’apartheid biotica, che poi di fatto è stata concretata?

 

Per questo sul «caso Scurati», che tiene banco sui giornali ancora adesso, ho delle idee un po’ diverse da quelle che avrete letto in giro.

 

Diciamo intanto, che la figura dello Scurati ce la ho in qualche modo presente, perché rammento quando fu inserita nel circuito culturale ancora anni fa. Nel 2005, ad un premio letterario – il gateway per far entrare nel sistema-Paese nuovi personaggi cartonati con le loro idee sincero-democratiche – attaccò Bruno Vespa: di suo una cosa per cui, visti gli ultimi anni di mRNA e Zelens’kyj, sarebbe da stringergli la mano, ma il tono sarebbe stato un po’ pesante: «se dovessi uccidere qualcuno, questo sarebbe lei», avrebbe detto criticando il conduttore di Porta a Porta.

 

Il personaggio del resto pare essere focoso: nei giorni scorsi ha accusato, in un’intervista su un giornale straniero, il TG1, per poi scusarsi, e dare la colpa a tutta questa situazione che lo turba molto.

 

La simpatia a pelle che mi sale subito: le foto che lo ritraggono, alto e severo, mostrano questo sguardo duro e non centratissimo, e profili dove pare mancare il mento – cosa che potrebbe essere, in realtà, un preciso messaggio politico, ma è un pensiero che butto lì, come altro, per satira.

 

Perché l’uomo ha pubblicato una serie di libri sul mento più pronunciato del secolo – quello del Duce Benito Mussolini. Migliaia e migliaia di libri intitolati tutti grottescamente M., come se fosse M il Mostro di Duesseldorf, in realtà è uno dei babau assiomatici che servono al sistema culturale italiano per tenersi in piedi.

 

Eccerto: Roberto Saviano, uno dei principi del sistema culturale nazionale, scrive libri contro la Camorra, anche se gli effetti – visibili soprattutto in TV – hanno fatto esclamare a qualcuno che alla fine, eterogenesi dei fini, quello che si ottiene è la sua apologia.

 

Quindi: addosso – ancora – al cadavere appeso a Piazzale Loreto (che Renovatio 21 un anno fa ha modestamente chiesto di ribattezzare come «Piazzale Angleton»). Scriviamoci sopra un romanzo, anzi dei romanzi, una saga che Il Trono di Spade deve spostarsi. Ma quale banalità del male: fatecelo scrivere, fatecelo vendere, ‘sto male!

 

Mi viene in mente l’articolo di ferocia assoluta che gli riservò, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia, che descrisse il suo senso di sgomento di fronte ad errori storici incredibili – perché provenienti da uno scrittore, un intellettuale, un editore, e la ridda di correttori di bozze, consulenti, editor del caso – contenuti nel testo.

 

Il Gallo della Loggia non fu tenero: «Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato».

 

Giù duro: «Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, “porta sulla coscienza sei milioni di morti” (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci “un politologo”, avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a “Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede” (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura».

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Tanta roba. Tuttavia soprattutto uno di questi inguardabili errori ci sembra interessante: nel suo romanzone mussoliniano, lo Scurati scrive che gli italiani morti durante la Prima Guerra Mondiale erano sei milioni. Secondo i calcoli storici, i morti sono stati – compresi quelli della pandemia della Spagnola (chiamata così anche se può darsi che venga, come tante altre epidemie, dai vaccini) – un milione. Tuttavia, come resistere alla coazione a ripetere la cifra fatale dei sei milioni? Difficile: l’industria culturale, i sei milioni te li ripete ogni cinque minuti.

 

Ma che importa, alla fine. Rileva – ribadiamolo bene – solo che il canale resti saldo. Qualche refrain, qualche tormentone piazzato magari anche in modo errato, fa giuoco alla tenuta dell’impianto di trasmissione. Tenetelo sempre a mente: il medium è il messaggio.

 

Ecco perché quando è scoppiato lo scandalo della RAI melonica che «censura» il tizio, non è che ci siamo scomposti più di tanto.

 

In primis, perché sappiamo da dove arriva, che cosa rappresenta, qual è il messaggio – cioè il medium. Il mezzo dell’industria cultura italiana deve ripetere i suoi triti dogmi (perché agli intellettuali non è richiesta la fantasia, né l’estro, né il genio: anzi) con cui è stata imbastita da quando, durante il famoso patto racconto da Ettore Bernabei nel libro L’uomo di fiducia, De Gasperi cedette la cultura a Togliatti e al PCI – e le banche a Mattioli e alla massoneria.

 

Che ci volete fare: mica la mela può cadere lontano dall’albero. Piante cresciute con decadi di letame «laico» e sincero-democratico, che frutti possono dare?

 

Il problema, quindi, è più profondo di un’eventuale museruola ad un intellettuale sistemico: è l’esistenza del sistema, e la sua persistenza nonostante qualsiasi governo di destra sperimentato dal 1994 ad oggi.

 

Non è questo, il punto che ci interessa sviluppare qui, purtuttavia.

 

La cosa che ci sconvolge, e vedere, a quattro anni dalla catastrofe di Wuhan, quanti anni luce il sistema politico-culturale sia distante dalla nostra visione – cioè dalla realtà. La politica, la storia, la letteratura dei normaloidi è a tal punto divorziata dalla sostanza dalle cose, che lo spettacolino delle sue beghe interne ci crea imbarazzo, malessere, se non ci fa vomitare punto e basta.

 

È stato ricordato che Scurati, quello della lettera «antifascista» da leggere alla TV pubblica, aveva scritto sul Corriere un editoriale in cui osannava il premier Draghi, lo implorava di tornare al suo posto: massì, il tecnocrate che nessuno aveva votato, calato per motivi imperscrutabili in luoghi fondamentali – il panfilo Britannia, dove salutò con affetto gli «Invisibili Britannici»; l’Eurotorre di Francoforte, luogo dove i tedeschi mai dovrebbero volere un italiano, e invece – piace tanto all’intellettuale antifascista.

 

Scommettiamo che, se lo sapesse, godrebbe anche al pensiero del ruolo primario del Draghi nel primo vero atto di guerra economica della storia umana, ovvero il congelamento dei beni della Banca di Russia detenuti all’Estero. Contro ogni legge internazionale, contro ogni decoro diplomatico (nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale…), contro ogni prospettiva a medio termine (l’effetto subitaneo: l’accelerazione della de-dollarizzazione): ma che importa, al cervello antifascistico? Bisogna applaudire i Draghi della palude, sempre, e spellarsi le mani.

 

Non solo. In una clip del novembre 2020 proveniente da La7 – lo sfogo televisivo del gruppo di via Solferino – lo Scurati affrontava di petto l’altra grande questione democratica degli ultimi anni. «Il 25% degli italiani, che secondo un sondaggio SVG sono complottisti o negazionisti» incalzava Lili Gruber. «Un dato assolutamente inquietante» replicava Scurati (mentre, a lato, l’idolo grillino Andrea Scanzi scuoteva la testa con vigore). Dice che il dato deve far riflettere «su cosa è stata l’Italia negli ultimo 10, 20 anni (…) su quale piccolo e significativo arretramento di civiltà abbiamo patito in questi decenni».

 

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L’esitazione davanti al siero genico sperimentale è un segno della decadenza della civiltà italiana – quella, di cui parlava imperialmente Mussolini, o quella della Costituzione, calpestata in ogni sua parte dall’obbligo vaccinale? Un attimo, questi ultimi sono pensieri nostri.

 

«Il discorso ha a che fare con l’educazione, con l’istruzione, con la cultura», dice ancora lo scrittore. Insomma, sei no-vax, perché sei ignorante – non hai studiato a scuola, né letto i libri propostiti dalla libreria, compresi magari quelli fondamentali dello stesso Scurati.

 

«Il fatto che un italiano su quattro stia arretrando su posizioni oscurantiste premoderne di ignoranza arrogante e professa, non nascosta, nella diffidenza dei riguardi dei vaccini, che sono una delle grandi invenzioni dell’umanità, nella diffidenza nei riguardi della scienza, ci deve far ricordare che la scuola, l’istruzione e l’educazione sono fondamentali per il Paese, non solo durante l’emergenza» continua lo Scurato.

 

Sì davvero: sta parlando della scuola, dove abbiamo visto ogni sorta di discriminazione biologica (il green pass anche per entrare nel sito dell’Università!), dove è penetrato il proselitismo omotransessualista più agghiacciante, dove ai bambini di otto anni vengono lette lettere anti-femminicidio sull’onda di casi di cronaca ancora tecnicamente irrisolti, dove sono in corso programmi rivoltanti di digitalizzazione tecnocratica della vita dei ragazzi?

 

Sta parlando sul serio di arretramento della civiltà, per poi tirare fuori, come esempio, la scuola, distruttrice della civiltà?

 

È così. Parlano per ritornelli sempreverdi («vaccini grande conquista»… «la scuola è importante»… «sei milioni di morti»), discorsi che non aggiungono nulla, non hanno un pensiero alcuno da offrire. Non dati, non riflessioni, né profondità di alcun tipo – niente.

 

È chiaro, soprattutto, che la nostra idea di civiltà è oramai incompatibile con quella che loro chiamano «civiltà», che per noi è invece dissoluzione, è anti-civiltà, è Cultura della Morte. E non è questione solo di idee – si tratta della nostra stessa esistenza quotidiana, della vita nostra, e di quella dei nostri figli.

 

Perché quelli che si dicono «democratici», quelli che ci vendono i loro discorsi «antifascisti», sono gli stessi che hanno inflitto alle nostre vite gli orrori più atroci, perfino a livello biomolecolare.

 

Gli «antifascisti», hanno spinto affinché la nostra esistenza personale e famigliare fosse devastata. Vi ritorna in mente? C’è chi ha perso il lavoro, c’è chi ha perso i parenti, c’è chi ha perso tutto – mentre tutti quanti perdevamo la libertà.

 

Però scusate: ma se la parola «fascista» è semanticamente riferibile a ciò che è autoritario, soverchiante, incapace di discutere, irriguardoso della dignità della persona, altamente discriminante (fino al razzismo), violento… allora, che cos’è, quella che abbiamo vissuto in pandemia, se non una piccola era fascista?

 

È meglio chiamarli con un termine più appropriato: essendo alla base dell’immane processo di sottomissione subìto un fattore biologico – la malattia, il siero genico sperimentale – è il caso di definirli, più che fascisti, «biofascisti». Gli antifascisti – come esattamente i fascisti ipoteticamente ancora in circolazione ed i postfascisti al governo – sono, esattamente, biofascisti.

 

Dal ventennio fascista, al biennio biofascista: che non è finito, perché nessuno, né al governo né all’opposizione, ha accettato di rivedere lo stupro della supposta democrazia popolare visto col COVID. Anzi: rilanciano, la Meloni firma a Bali per i passaporti vaccinali elettronici transnazionali, mentre masnade di operatori sanitari e trafficanti politici lavorano alacremente – pagati da voi – per l’approvazione sottotraccia del Trattato Pandemico OMS, che sarà un bel capitolo della fine certificata delle democrazie costituzionali.

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E già, la Costituzione. Gli intellettuali credono sia un testo importantissimo, ce lo hanno ripetuto ad nauseam, e il motivo è semplicissimo: avendo cacciato per ordine massonico il sacro dalla politica, non resta che basare lo Stato su un libro.

 

Abbiamo visto quanto ci credono: la Costituzione è stata tradita perfino nel suo primo, ridicolmente sovietico, articolo, quello della Repubblica fondata sul lavoro – se hai il green pass, ovvio, e i sindacati sono d’accordo con Draghi, gli scrivono lettere d’amore in concerto con i padroni di Confindustria, mentre dal palco, circondati da mascherine, i lider maximos sindacalisti parlano veramente di Nuovo Ordine Mondiale.

 

Diventa a questo punto definitivamente insopportabile guardare la pantomima «democratica» dei personaggi TV.

 

Palano di popolo, e sono quelli che una parte consistente del popolo italiano – qualcuno dice, dal 1978, sei milioni, sul serio – lo ha sterminato per legge, con l’aborto di Stato.

 

Parlano di democrazia, ma il popolo lo hanno chiuso in casa, sottomesso, capovolgendo lo Stato di Diritto: non più il cittadino latore di diritti, ma obbligato a coercizioni che riguardano la sua stessa biologia.

 

Parlano di Costituzione, e hanno tradito l’articolo 1, l’articolo 16, l’articolo 21, l’articolo 32 e tutti gli altri che il lettore vorrà aggiungere.

 

Parlano di antifascismo, dopo aver inflitto alla popolazione anni di terrore biofascista, dove se non accettavi di modificare la tua genetica cellulare non potevi entrare nei negozi – sì, come gli ebrei dopo le leggi razziali, come mostrano tutti quei filmetti strappalacrime come La vita è bella, che certamente in parte avete pagato sempre voi.

 

Parlano di antifascismo, e sono gli stessi che finanziano ed armano un regime dove i collaborazionisti del Terzo Reich sono celebrati pubblicamente come eroi (anche fuori dai confini: ricorderete il caso di Trudeau che porta l’ex SS al Parlamento canadese per farlo applaudire) e dove armi e danari finiscono a Reggimenti provenienti da gruppi dove la svastica e le lettere runiche sono la norma, come simbolo, come tatuaggio, come ideologia.

 

Gli antifascisti, oggi, sostengono i neonazisti. Lo spettacolo lugubre degli ultimi cortei 25 aprile con tripudi di bandiere ucraine e della NATO rimarrà negli annali per i posteri che giustamente si gratteranno la testa cercando di capire.

 

I biofascisti, del resto, non è che si tirano indietro nei confronti dei paradossi. Prendiamo, ad esempio, il grande tema «antifascista» della provetta. Un idolo, per la sinistra: libertà riproduttiva, che vuol dire che anche gli LGBT si possono produrre la prole che la natura non consentirebbe loro di avere – si chiama progresso, bellezza.

 

Arrivano, tuttavia, tante storie aneddotiche interessanti. Per esempio: coppie lesbiche che spesse volte si rivolgono a banche del seme… in Danimarca. Essì: il bimbo lo vogliono biondo dolicocefalo occhioceruleo, esattamente come prescritto da Zio Adolf, che, poverino, lui la biotecnologia per farlo non ce l’aveva, limitandosi nel fallito programma Lebensborn a fare montare ragazzotte di paese ben disposte a giovinotti dai chiari capelli scelti tra le SS, per poi ucciderli subito dopo gettandoli nella fornace della guerra. È così: infatti quello si chiamava, appunto, «nazismo», e non «bionazismo», come invece dobbiamo chiamarlo oggi.

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E chiedetevi pure anche, cari antifascisti biofascisti: quanti dei politici gay, magari con figlio prodotto via utero in affitto all’estero fatto entrare in Italia in spregio alla legge 40/2004 (i giudici, dove sono?), secondo voi hanno sfogliato un bel catalogo delle «donatrici» di ovulo, scegliendo magari una bella ragazza bionda e atletica, come ad esempio l’Ucraina – capitale mondiale della surrogata anche sotto le bombe – offre a bizzeffe?

 

È difficile rendersi conto di cosa si tratta? La parola è conosciuta, in verità: eugenetica.

 

È più arduo capire che l’eugenetica biofascista opera ogni giorno anche al di fuori dei casi arcobalenati: la selezione degli embrioni, compiuta dagli «esperti della fertilità» che ora sono pagati dal contribuente (la FIVET è nei LEA) è, molto semplicemente un’altra forma di eugenetica, solo che invece dei cataloghi delle «biobanche» qui si usa il microscopio.

 

La sostanza non cambia, ed è quello che andiamo da sempre ripetendo su Renovatio 21. La continuità tra il nazismo e la moderna società riprogenetica è assoluta. Hitler ha perso la guerra cinetica, ha vinto quella bioetica. O meglio: i padroni di Hitler – quelli che ne hanno finanziato l’ascesa – sono esattamente gli stessi che hanno, da più di un secolo, elargito danari affinché si instaurasse l’eugenetica in America, in Europa, perfino in Cina.

 

E sono gli stessi – un nome lo vogliamo fare: la famiglia Rockefeller – che hanno suscitato e foraggiato quantità di movimenti fondamentali per la sinistra antifascista, cioè biofascista: il femminismo, ad esempio, o il movimento globale per l’aborto.

 

Capite, cari lettori, che questa è una visione della Storia abissalmente distante da quella che possono avere Scurati o la Meloni e chiunque altro vi propongano TV e giornali.

 

Perché quello che possono fare, loro, è farvi rimasticare quello che è stato dato loro da masticare, ricordando che a nessuno di loro è stata chiesta originalità e profondità di pensiero. La Storia, vi dicono, è fatta così… i fascisti, gli antifascisti, etc.

 

Qui abbiamo una visione radicalmente diversa. L’unico modo possibile per vedere il mondo, l’universo stesso, è quello che ha al suo centro il fenomeno più fondamentale del cosmo tutto: la vita.

 

Non comprendere che la Storia si sta rivelando semplicemente come una danza, fisica e metafisica, tra la Vita e la Morte – con lo Stato moderno e le sue schiere a combattere per quest’ultima – significa non aver compreso nulla. E quindi, accettare ogni possibile angheria che l’Impero della Morte prepara: l’aborto, la provetta, il vaccino… tutte realtà che qui abbiamo dimostrato essere intimamente interrelate, tutte questioni che toccano direttamente, carnalmente, le vostre esistenze, e soprattutto quelle dei vostri figli.

 

Così, in questa ignoranza invincibile, quella per lo stesso dono più alto che si è ricevuti dal creatore, l’antifascismo può trasformarsi tranquillamente in biofascismo, e continuare la sua patetica sceneggiata di lamento contro il fascismo 1.0.

 

In un articolo per il 25 aprile di diversi anni fa («Quello che Mussolini non ha capito: il dominio della Cultura della Morte»), scrivevamo parole che ci va qui di ripetere.

 

«Non è il capitale, non è il danaro ad essere in gioco. Non è nemmeno la terra, lo spazio, la geopolitica che interessa ai potenti dell’universo, oggi come allora. Ai principi di questo mondo interessa la distruzione dell’uomo. La sua umiliazione, il suo controllo, la sua riduzione».

 

«Non è visibile, per chi pensa ancora con le categorie ideologiche pubbliche dell’Ottocento o del Novecento, il cambio del paradigma già avvenuto. Non siamo più in una fase espansiva dell’essere (la produzione dell’acciaio dei sovietici, il Lebensraum dei nazisti, il natalismo dei fascismi, il consumismo delle democrazie liberali) ma in una fase di contrazione programmata, forzata. Meno figli, meno lavoro, meno esseri umani: decrescita».

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«Mussolini non poteva capire che è l’ascesa del biopotere il vero verso della Storia; i suoi oppositori nemmeno: anzi, ora sono divenuti kapò di qualcosa di molto peggiore del fascismo, il biofascismo: tutti i tuoi diritti sono sospesi, perfino il lavoro, la censura è operata su tutti i livelli, ogni libertà, perfino quella di spostamento, perfino quella di vedere i famigliari, è distrutta».

 

Già, Mussolini non aveva capito che il fascismo non serviva più al programma: il signore del mondo non voleva controllare più solo gli imperi e le nazioni, ma il corpo umano stesso, perfino nel codice più sacro contenuto dentro le sue cellule. Il Duce non poteva capire che il fascismo andava sostituito con il biofascismo. Lo hanno fatto, tra bandiere arcobaleno e ghigni pannelliani, facendo pure continuare l’oscena commedia dell’antifascismo militante, televisivo, autistico – perché altre sceneggiature, con evidenza, non ne hanno, né ne saprebbero scrivere.

 

Il programma è più vasto, ad ogni modo, di quello visibile tra Mussolini e gli intellettuali prodotti dal sistema culturale nazionale. Il programma è contenuto in un grande bestseller, nell’ultimo testo che lo compone. Si chiama Sacra Bibbia, da leggersi soprattutto quello che è definito Il libro della Rivelazione. Ci rendiamo conto che pochi scrittori e professori lo hanno fatto, ancora meno ci hanno creduto, o anche lo hanno preso sul serio per un secondo.

 

Qui noi lo facciamo, eccome. Il programma finale non riguarda la politica partigiana, riguarda l’umanità, la vita e la morte, il mistero dell’iniquità, la catastrofe globale, la fine dei tempi – insomma la vostra anima, e il vostro corpo.

 

Non è che chiediamo a chicchessia di accettarne i segni – i nostri lettori già lo fanno, a giudicare dalle lettere che ci arrivano.

 

Quello che domandiamo, è: non prestate attenzione a nessuna polemica, né alla voce degli intellettuali di cartapesta, né a quella dei politici.

 

Pensate, piuttosto, quanto è lontana da loro, oramai, la vostra concezione del mondo, la vostra visione della Storia, la vostra percezione della realtà, la vostra fede nella Verità.

 

È così: scrittori, deputati, giornalisti, professori, ministri, editori, fascisti, antifascisti, non hanno capito un cazzo.

 

Evitate, cari lettori, di perderci tempo, e concentratevi su ciò che è importante: onorate il Vero, e, soprattutto, cercate la pace interiore – perché a breve, quando sarà la tribolazione, servirà davvero.

 

Roberto Dal Bosco

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