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«Quella Messa è intrinsecamente divina»: messaggio di Monsignor Viganò sulla Messa antica

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Renovatio 21 pubblica questo messaggio di Monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

 

 

DILECTA MEA

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

 

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Me lo sono chiesto più volte, in questi ultimi anni: perché io stesso, che pure questa Messa ho conosciuto sin da piccolo; che quando ancora portavo i calzoni corti avevo imparato a servirla e a rispondere al celebrante, l’avevo quasi dimenticata e perduta. Introibo ad altare Dei. In ginocchio sui gelidi gradini dell’altare, prima di andare a scuola, in inverno. A sudare sotto la veste di chierichetto, nella canicola di certe giornate estive.

 

Voi che vi permettete di proibire la Santa Messa apostolica, l’avete mai celebrata?

L’avevo dimenticata, quella Messa, che pure fu quella della mia Ordinazione, il 24 Marzo 1968: un’epoca in cui si percepivano già le avvisaglie di quella rivoluzione che di lì a breve avrebbe privato la Chiesa del suo tesoro più prezioso per imporre un rito contraffatto. 

 

Ebbene, quella Messa che la riforma conciliare ha cancellato e proibito nei miei primi anni di Sacerdozio, rimaneva come un remoto ricordo, come il sorriso di una persona cara lontana, lo sguardo di un parente scomparso, il suono di una domenica con le sue campane, le sue voci amiche. Ma era qualcosa che riguardava la nostalgia, la giovinezza, l’entusiasmo di un’epoca in cui gli impegni ecclesiastici erano ancora di là da venire, in cui tutti volevamo credere che il mondo potesse risollevarsi dal dopoguerra e dalla minaccia del Comunismo con un rinnovato slancio spirituale.

 

Volevamo pensare che il benessere economico potesse in qualche modo accompagnarsi ad una rinascita morale e religiosa del Paese. Nonostante il Sessantotto, le occupazioni, il terrorismo, le Brigate Rosse, la crisi del Medioriente. Così, tra i mille impegni ecclesiastici e diplomatici, si era cristallizzato nella mia memoria il ricordo di qualcosa che in realtà rimaneva irrisolto, messo «momentaneamente» da parte per decenni. Qualcosa che pazientemente attendeva, con l’indulgenza che solo Dio usa nei nostri riguardi.

 

 

La mia decisione di denunciare gli scandali dei Prelati americani e della Curia Romana fu l’occasione che mi riportò a considerare, sotto un’altra luce, non solo il mio ruolo di Arcivescovo e di Nunzio Apostolico, ma anche l’anima di quel Sacerdozio che il servizio in Vaticano prima e da ultimo negli Stati Uniti, avevano in qualche modo lasciato incompleto: più per il mio essere sacerdote che non per il Ministero.

 

E quello che sino ad allora non avevo ancora compreso, mi fu chiaro per una circostanza apparentemente inaspettata, quando la mia sicurezza personale sembrò in pericolo e mi trovai, mio malgrado, a dover vivere quasi nella clandestinità, lontano dai palazzi della Curia. Fu allora che quella benedetta segregazione, che oggi considero come una sorta di scelta monastica, mi portò a riscoprire la Santa Messa tridentina.

Voi che dall’alto delle vostre cattedre di liturgia sentenziate piccati sulla «vecchia Messa», avete mai meditato le sue preghiere, i suoi riti, i suoi gesti antichi e sacri?

 

Ricordo bene il giorno in cui al posto della casula indossai i paramenti tradizionali, con il cappino ambrosiano e il manipolo: ricordo il timore che provai nel pronunciare, dopo quasi cinquant’anni, quelle preghiere del Messale che riaffiorarono alla bocca come se le avessi recitate fino a poco prima. Confitemini Domino, quoniam bonus, al posto del Salmo Judica me, Deus del rito romano. Munda cor meum ac labia mea. Quelle parole non erano più quelle del chierichetto o del giovane seminarista, ma le parole del celebrante, di me che nuovamente, oserei dire per la prima volta, celebravo dinanzi alla Santissima Trinità.

 

Perché è pur vero che il Sacerdote è una persona che vive essenzialmente per gli altri – per Dio e per il prossimo – ma è altrettanto vero che se egli non ha la consapevolezza della propria identità e non coltiva la propria santità, il suo apostolato è sterile come il cembalo che tintinna. 

 

So bene che queste riflessioni possono lasciare impassibile, se non addirittura suscitare compatimento, in chi non ha mai avuto la grazia di celebrare la Messa di sempre. Ma accade la stessa cosa, immagino, per chi non si è mai innamorato e non comprende l’entusiasmo e il casto trasporto dell’amato verso l’amata, per chi non conosce la gioia del perdersi nei suoi occhi.

 

Il grigio liturgista romano, il Prelato con il suo clergyman sartoriale e la croce pettorale nel taschino, il consultore di Congregazione con l’ultima copia di Concilium o di Civiltà Cattolica in bella vista, guardano la Messa di San Pio V con gli occhi dell’entomologo (la scienza che studia gli insetti), scrutando quella pericope come un naturalista osserva le venature di una foglia o le ali di una farfalla. Anzi, talvolta mi chiedo se non lo facciano con l’asetticità del patologo che incide col bisturi un corpo vivente. Ma se un sacerdote con un minimo di vita interiore si accosta alla Messa antica, a prescindere dal fatto di averla mai conosciuta o di scoprirla per la prima volta, rimane profondamente scosso dalla composta maestà del rito, come se uscisse dal tempo ed entrasse nell’eternità di Dio. 

Quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo

 

Quello che vorrei far comprendere ai miei Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio è che quella Messa è intrinsecamente divina, perché vi si percepisce il sacro in un modo viscerale: si è letteralmente rapiti in cielo, al cospetto della Santissima Trinità e della Corte celeste, lontano dallo strepito del mondo.

 

È un canto d’amore, in cui la ripetizione dei segni, delle riverenze, delle parole sacre non ha nulla di inutile, proprio come la madre non si stanca mai di baciare il suo figlio, la sposa di ripetere «Ti amo» allo sposo.

 

Vi si dimentica tutto, perché tutto ciò che in essa si dice e si canta è eterno, tutti i gesti che vi si compiono sono perenni, al di fuori della storia, eppure immersi in un continuum che unisce il Cenacolo, il Calvario e l’altare sul quale si celebra.

 

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano

Il celebrante non si rivolge all’assemblea, con la preoccupazione di essere comprensibile o di rendersi simpatico o di apparire à la page, ma a Dio: e dinanzi a Dio vi è solo il senso di infinita gratitudine per il privilegio di poter portare con sé le preghiere del popolo cristiano, le gioie e i dolori di tante anime, i peccati e le mancanze di chi implora perdono e misericordia, la riconoscenza per le grazie ricevute, i suffragi per i nostri cari defunti.

 

Si è soli, e allo stesso tempo ci si sente intimamente uniti ad una sterminata schiera di anime che attraversa il tempo e lo spazio. 

 

Quando celebro la Messa apostolica, penso che su quel medesimo altare, consacrato con le reliquie dei Martiri, hanno celebrato tanti Santi e migliaia di sacerdoti, usando le mie stesse parole, ripetendo gli stessi gesti, compiendo gli stessi inchini e le medesime genuflessioni, indossando gli stessi paramenti. Ma soprattutto, comunicandosi allo stesso Corpo e Sangue di Nostro Signore, al Quale tutti siamo stati assimilati nell’offerta del Santo Sacrificio.

 

Quando celebro la Messa di sempre, mi rendo conto nel modo più sublime e completo del vero significato di ciò che la dottrina ci insegna.

 

L’agire in persona Christi non è una ripetizione meccanica di una formula, ma la consapevolezza che la mia bocca profferisce le stesse parole che il Salvatore ha pronunciato sul pane e sul vino nel Cenacolo; che mentre elevo al Padre l’Ostia e il Calice ripeto l’immolazione che Cristo fece di Sé sulla Croce; che nel comunicarmi consumo la Vittima sacrificale e mi nutro di Dio, e non sto partecipando a un festino.

 

E con me c’è tutta la Chiesa: quella trionfante che si degna di unirsi alla mia preghiera implorante, quella sofferente che la attende per abbreviare il soggiorno delle anime in Purgatorio, quella militante che se ne rafforza nella quotidiana battaglia spirituale. Ma se davvero, come professiamo con fede, la nostra bocca è la bocca di Cristo, se davvero le nostre parole nella Consacrazione sono quelle di Cristo, se le mani con cui tocchiamo l’Ostia santa e il Calice sono le mani di Cristo, quale rispetto dovremo avere per il nostro corpo, conservandolo puro e incontaminato?

 

Quale migliore sprone per rimanere nella Grazia di Dio?

 

Mundamini, qui fertis vasa Domini. E con le parole del Messale: Aufer a nobis, quæsumus, Domine, iniquitates nostras: ut ad sancta sanctorum puris mereamur mentibus introire

 

Mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato

Il teologo mi dirà che questa è dottrina comune, e che la Messa è esattamente questo, a prescindere dal rito. Non lo nego, razionalmente. Ma mentre la celebrazione della Messa tridentina è un costante richiamo ad una continuità ininterrotta dell’opera della Redenzione costellata di Santi e Beati, altrettanto non mi pare avvenga con il rito riformato.

 

Se guardo alla tavola versus populum, vi vedo l’altare luterano o la mensa protestante; se leggo le parole dell’Istituzione in forma di narrazione dell’Ultima Cena, vi sento le modifiche del Common Book of Prayer di Cranmer, e il servizio di Calvino; se scorro il calendario riformato vi trovo espunti gli stessi Santi che cancellarono gli eretici della Pseudoriforma.

 

E così per i canti, che farebbero inorridire un Cattolico inglese o tedesco: sentire sotto le volte di una chiesa i corali di chi martirizzava i nostri sacerdoti e calpestava il Santissimo Sacramento in spregio alla «superstizione papista» dovrebbe far comprendere l’abisso tra la Messa cattolica e la sua contraffazione conciliare. Senza parlare della lingua: i primi ad abolire il latino furono proprio gli eretici, in nome di una maggior comprensione dei riti per il popolo; un popolo che essi ingannavano, impugnando la Verità rivelata e propagando l’errore.

 

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio

Tutto è profano, nel Novus Ordo. Tutto è momentaneo, tutto accidentale, tutto contingente, variabile, mutevole. Non c’è nulla di eterno, perché l’eternità è immutabile, come immutabile la Fede. Come immutabile è Dio.

 

Vi è un altro aspetto della Santa Messa tradizionale che mi preme sottolineare, e che ci unisce ai Santi e ai Martiri del passato.

 

Sin dai tempi delle catacombe e fino alle ultime persecuzioni, ovunque un sacerdote celebri il Santo Sacrificio, fosse anche in una soffitta o in una cantina, nella boscaglia, in un granaio o persino in un furgone, egli è misticamente in comunione con quella schiera di eroici testimoni della Fede, e su quell’altare improvvisato si posa lo sguardo della Santissima Trinità, dinanzi ad esso genuflettono adoranti tutte le schiere angeliche, ad esso guardano le anime purganti.

 

Ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi

Anche in questo, soprattutto in questo, ognuno di noi comprende come la Tradizione crei un legame indissolubile attraverso i secoli non solo nella gelosa custodia di quel tesoro, ma nell’affrontare le prove che essa comporta, fosse anche la morte. Dinanzi a questo pensiero, l’arroganza del tiranno presente, con i suoi deliranti decreti, ci deve rafforzare nella fedeltà a Cristo e farci sentire parte integrante della Chiesa di tutti i tempi, perché non si conquista la palma della vittoria se non si è pronti a combattere il bonum certamen.

 

Vorrei che i miei Confratelli osassero l’inosabile: vorrei che si accostassero alla Santa Messa tridentina non per compiacersi del pizzo di un camice o del ricamo di una pianeta, o per una mera convinzione razionale sulla sua legittimità canonica o sul fatto che essa non sia mai stata abolita; ma con il timore reverenziale con cui Mosè si avvicinò al roveto ardente: sapendo che ciascuno di noi, al ridiscendere dall’altare dopo l’ultimo Vangelo, in qualche modo è interiormente trasfigurato perché vi ha incontrato il Santo dei Santi.

 

È solo lì, su quel mistico Sinai, che possiamo comprendere l’essenza stessa del nostro Sacerdozio, che è donazione di sé a Dio, anzitutto; oblazione di tutto se stesso assieme a Cristo Vittima, per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime; sacrificio spirituale che dalla Messa trae forza e vigore; rinuncia di sé, per lasciar posto al Sommo Sacerdote; segno di vera umiltà, nell’annichilimento della propria volontà e nell’abbandono alla volontà del Padre, sull’esempio del Signore; gesto di autentica «comunione» con i Santi, nella condivisione della medesima professione di Fede e dello stesso rito.

 

E vorrei che questa «esperienza» la facessero non solo quanti da decenni celebrano il Novus Ordo, ma soprattutto i giovani sacerdoti e quanti svolgono il proprio Ministero in prima linea: la Messa di San Pio V è per spiriti indomiti, per anime generose ed eroiche, per cuori ardenti di Carità per Dio e per il prossimo. 

 

Lo so bene: la vita dei sacerdoti di oggi è fatta di mille prove, di stress, di sensazione di essere soli a combattere contro il mondo, nel disinteresse e nell’ostracismo dei Superiori, di un lento logorio che distrae dal raccoglimento, dalla vita interiore, dalla crescita spirituale. E so benissimo che questa sensazione di assedio, di trovarsi come un marinaio solo a dover governare una nave in tempesta, non è appannaggio dei tradizionalisti né dei progressisti, ma è destino comune di tutti coloro che hanno offerto la propria vita al Signore e alla Chiesa, ognuno con le proprie miserie, con i problemi economici, le incomprensioni con il Vescovo, le critiche dei confratelli, le richieste dei fedeli.

 

E quelle ore di solitudine, in cui la presenza di Dio e la compagnia della Vergine sembrano svanire, come nella notte oscura di San Giovanni della Croce. Quare me repulisti? Et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus?

 

Quando il demonio serpeggia maligno tra internet e la televisione, quærens quem devoret, approfittando a tradimento della nostra stanchezza. In quei casi, che tutti noi affrontiamo come Nostro Signore nel Getsemani, è il nostro Sacerdozio che Satana vuole colpire, presentandosi suadente come Salomé dinanzi a Erode, chiedendoci in dono la testa del Battista. Ab homine iniquo, et doloso erue me. Nella prova, siamo tutti uguali: perché la vittoria che il Nemico vuole riportare non è solo sulla nostra povera anima di battezzati, ma su Cristo Sacerdote, del quale portiamo l’Unzione. 

 

Oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata

Per questo, oggi più che mai, la Santa Messa tridentina è l’unica ancora di salvezza del Sacerdozio cattolico, perché in essa il sacerdote rinasce, tutti i giorni, in quel tempo privilegiato di intima unione con la Trinità beata, e da essa trae le grazie indispensabili per non cadere nel peccato, per progredire sulla via della santità, per ritrovare il sano equilibrio con il quale affrontare il Ministero.

 

Credere che tutto ciò possa liquidarsi come una mera questione cerimoniale o estetica, significa non aver capito nulla della propria Vocazione. Perché la Santa Messa «di sempre» – e lo è davvero, come da sempre è avversata dall’Avversario – non è un’amante compiacente che si offre a chiunque, ma una sposa gelosa e casta, come geloso è il Signore. 

 

Volete piacere a Dio o a chi vi tiene lontani da Lui? La domanda, in fondo, è sempre questa: la scelta tra il soave giogo di Cristo e le catene della schiavitù dell’avversario. La risposta vi apparirà chiara e limpida nel momento in cui anche voi, stupendovi di questo incommensurabile tesoro che vi è stato tenuto nascosto, scoprirete cosa significhi celebrare il Santo Sacrificio non come patetici «presidenti dell’assemblea», ma come «ministri di Cristo e dispensatori dei Misteri di Dio» (ICor 4, 1). 

 

Prendete in mano il Messale, chiedete aiuto a un sacerdote amico, e salite sul monte della Trasfigurazione: Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua. Come Pietro, Giacomo e Giovanni esclamerete: Domine, bonum est nos hic esse, «Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4). O, con le parole del Salmista che il celebrante ripete all’Offertorio: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ.

 

Quando l’avrete scoperto, nessuno potrà più togliervi ciò per cui il Signore non vi chiama più servi, ma amici (Gv 15, 15).

 

Nessuno potrà mai convincervi a rinunziarvi, costringendovi ad accontentarvi della sua adulterazione partorita da menti ribelli.

 

Eratis enim aliquando tenebræ: nunc enim lux in Domino. Ut filii lucis ambulate. «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce» (Ef 5, 8).

 

Propter quod dicit: Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus. «Perciò sta scritto: Risvegliati, o tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo risplenderà su di te» (Ef 5, 14).

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

2 Gennaio 2022

Sanctissimi Nominis JESU

 

 

 

 

 

Immagine di Jim The Photographer via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0); immagine modificata nel colore

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Chiesa 2.0 del cardinale Walter Kasper

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Riforma radicale dell’ecclesiologia attraverso l’instaurazione di una forma di bicameralismo all’americana: è più o meno questa la strada che il cardinale Walter Kasper auspica vedere intrapresa dalla Chiesa all’indomani del Sinodo sulla sinodalità.

 

Il 10 aprile 2024, l’arciabbazia di San Pietro a Salisburgo (Austria) – il più antico monastero benedettino del mondo di lingua tedesca – pullula di curiosi accorsi per ascoltare la conferenza introduttiva tenuta da un illustre ospite come parte del simposio «Cardinali e Benedettini».

 

Il cardinale Kasper, che difende una linea progressista nell’interpretazione del Concilio Vaticano II – che un tempo lo metteva in opposizione con il cardinale Josef Ratzinger – ha intitolato il suo intervento «Cardinali al servizio della Chiesa e del papato».

 

Il porporato, che ha avuto un ruolo di primo piano negli ultimi due conclavi – ma che ora è privato del diritto di voto a causa dell’età – resta una voce ascoltata dall’attuale Romano Pontefice. Secondo lui il Sinodo sulla sinodalità sarebbe un’occasione per riportare i cardinali al loro vero posto.

 

L’ex vescovo di Rottenburg-Stoccarda ritiene che, nel quadro del Sinodo, papa Francesco abbia lanciato un grande movimento per il decentramento della Chiesa: occorrerebbe inoltre fare un nuovo passo verso la riforma del collegio cardinalizio, in senso di un cosiddetto ritorno alle fonti.

 

In questa prospettiva ai cardinali verrebbe attribuita una nuova prerogativa: quella di presiedere i consigli plenari nelle regioni da cui provengono. Al fine di istituire una sorta di sistema bicamerale nel governo della Chiesa, composto dal Sinodo dei vescovi e dal Consiglio dei cardinali. Mai visto prima nella Storia della Chiesa.

 

Un’interpretazione molto personale dell’evoluzione della funzione cardinale

Radicata inizialmente nella liturgia, la funzione cardinalizia si sarebbe, secondo le parole dell’ex professore dell’Università di Tubinga, «politicizzata» per diventare il giocattolo delle grandi famiglie romane fino a essere coinvolte nel declino della Roma decadente del tardo Medioevo.

 

In epoca moderna, la funzione cardinalizia si sarebbe poi ridotta all’esercizio del ruolo di funzionario della Curia Romana, prima della grande «riscoperta» di questa veneranda istituzione durante il Concilio Vaticano II, che costituisce tuttora l’alfa e l’omega della Chiesa per Mons. Kasper.

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Un’affermazione molto discutibile

Gli studi concordano nel vedere la lontana origine dei cardinali nel presbyterium, un’assemblea di sacerdoti e diaconi che assistono e consigliano il vescovo nella guida del suo gregge. Sant’Ignazio di Antiochia lo menziona come «il Senato del vescovo», al quale i fedeli devono rispetto perché rappresenta il vescovo, ma al di sotto di lui.

 

Anche il vescovo di Roma era circondato da un presbyterium. Ma, «dalla somiglianza di origine e dal fatto che il nome di cardinale era comune all’alto clero romano e all’alto clero di altre città vescovili, sarebbe errato concludere», precisa il Dizionario di Teologia Cattolica, «che questo nome rispondeva in entrambi i casi a identiche prerogative».

 

«Il titolo di papa veniva anticamente dato indiscriminatamente a tutti i vescovi e non venne mai in mente a nessun cattolico di metterli tutti, per questa ragione, sullo stesso rango. È il caso del nome cardinale: in origine era generico e non implicava di per sé alcun ruolo specifico; nessun grado uniforme di potere; il suo valore esatto è stato determinato in base alle circostanze».

 

«I cardinali di una determinata diocesi diversa da quella di Roma non hanno mai potuto ricevere dal loro vescovo, per condividerlo con lui, nessun altro potere se non quello contenuto entro i limiti di quella diocesi; ma i dignitari associati dal Sommo Pontefice all’amministrazione degli affari che gli spettavano acquistarono necessariamente potere e influenza estendendosi a tutta la Chiesa».

 

Bastano queste righe autorevoli per rimettere in discussione i meriti storici di questo «bicameralismo» che il cardinale Kasper difende, e che equivarrebbe a diluire ulteriormente l’autorità del Romano Pontefice.

 

«Speriamo di mantenere Francesco ancora per qualche anno e che i suoi successori completino le sue riforme», ha detto il cardinale Kasper.

 

Una conclusione carica di incertezza, che lascia intendere che il progressismo è ancora lungi dall’aver vinto e che nel prossimo conclave resta l’elezione di tutte le possibilità, sotto la benevola grazia dello Spirito Santo.

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Ritorno all’affare del catechismo olandese (1966-1968)

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È utile raccontare la vicenda del Catechismo olandese, che è stata richiamata da mons. Peter Kohlgraf come punto di paragone con l’evoluzione della Chiesa in Germania.  

Sfondo

I cattolici olandesi sono da tempo noti per la loro fede, perché fin dal XVI secolo hanno dovuto lottare contro un clima protestante ostile. Nel XX secolo sono diventati la maggioranza, con strutture importanti, una forte identità e numerosi missionari in tutto il mondo.   Ma dopo la guerra, il materialismo trasformò la vita. La pratica, superiore al 70%, era in declino. Dall’inizio degli anni ’60, tra i cattolici olandesi si diffuse l’uso dei contraccettivi, con la conseguente riduzione delle dimensioni delle famiglie, del numero dei candidati al seminario e una diminuzione del senso di fede. La tradizionale presa di distanza dai protestanti non aveva più senso.  

Contesto

Dal 1956 i professori dell’Istituto catechetico superiore di Nimega furono incaricati dall’episcopato olandese di comporre un catechismo per i bambini. Nel 1960 si decise di realizzarlo per adulti. Fu pubblicato nel 1966 con l’imprimatur del cardinale Bernardus Alfrink.   La direzione si deve al gesuita olandese Piet Schoonenberg (1911-1999) e al domenicano belga Edward Schillebeeckx (1914-2009), professori dell’Istituto. Fr. Schillebeeckx era una voce ascoltata al Concilio Vaticano II, anche se non era stato nominato esperto.

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Le origini delle gravi carenze del Catechismo

Il testo considera la situazione del mondo, cercando di cogliere in modo positivo le diverse religioni, compreso il marxismo, come espressioni della ricerca di Dio. Integra la prospettiva delle scienze e quella dell’evoluzione. Questo approccio era difettoso.   Ciò nonostante, la cosa peggiore non fu questa. Sono stati scoperti gravi errori, la cui radice risiedeva in due intenzioni sottostanti. Il primo: andare d’accordo con la parte protestante del Paese, cercando di migliorare le spiegazioni cattoliche, ma evitando anche ciò che potrebbe dispiacere ai riformati.   La seconda: si trattava di raggiungere il mondo moderno. Ciò ha portato alla ricerca di formule morbide, a evitare argomenti difficili (il peccato originale, i miracoli) e a interpretare altri, «meno credibili», come il concepimento verginale, gli angeli e la risurrezione, come metafore. Gli scrittori si erano convinti che questi punti non fossero propriamente questioni di fede e che fossero liberi di cercarne un’interpretazione simbolica.   Infine, gli scrittori hanno cercato espressioni alternative alle formule tradizionali della Fede, sostituendo la terminologia «filosofica». Ciò ha portato a ricostruzioni difficili e insolite dei dogmi centrali – la Trinità, la personalità di Gesù Cristo, il peccato, i sacramenti – che hanno perso precisione. Il problema sta in ciò che non è stato affermato o in ciò che è stato reinterpretato.  

Opposizione cattolica

L’opposizione sorse subito da parte dei cattolici ben formati. Hanno denunciato le carenze in un giornale (Confrontatiie) e hanno inviato una lettera al Papa, pubblicata sulla stampa cattolica (De Tijd). Gli autori del catechismo hanno reagito molto male.   Paolo VI nominò allora, d’accordo con Alfrink, una commissione mista composta da tre teologi romani (Edouard Dhanis, Jan Visser, Benedict Lemeer) e tre membri dell’Istituto di Nijmegen (Schoonenberg, Schillebeeckx e W. Bless). Si incontrarono a Gazzada (Italia) nell’aprile 1967, ma la delegazione dell’Istituto rifiutò per principio ogni cambiamento.  

La Commissione Cardinalizia

Paolo VI nominò poi una commissione di sei cardinali (giugno 1967): Josef Frings, Joseph-Charles Lefebre, Lorenz Jaeger, Ermenegildo Florit, Michael Browne, Charles Journet. Sarebbero assistiti da sette teologi. L’elenco dei punti da correggere o chiarire è lungo:   L’esistenza degli angeli e dei demoni, la creazione immediata dell’anima da parte di Dio, il peccato originale, il poligenismo, il concepimento verginale di Cristo, la verginità perpetua di Maria, la soddisfazione espiatoria del sacrificio della Croce, la perpetuazione del sacrificio nell’uomo Eucaristia, Transustanziazione, Presenza Reale, infallibilità della Chiesa, sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, primato di Roma, conoscenza della Trinità, coscienza divina di Gesù, battesimo, sacramento della Penitenza, miracoli, morte e risurrezione, giudizio e del Purgatorio, l’universalità delle leggi morali, l’indissolubilità del matrimonio, il controllo delle nascite, i peccati veniali e mortali e lo stato matrimoniale.   La commissione pubblicò una Dichiarazione (15 ottobre 1968), indicando le necessarie correzioni e integrazioni. Come riferisce Omnes, «L’Istituto si rifiutò di correggere il testo e promosse traduzioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo, senza rettifiche o nihil obstat […] [E] erano sicuri che la loro proposta fosse il futuro della Chiesa universale ed erano pronti a difenderlo ad ogni costo.   «Si è deciso poi di convertire le correzioni in un Supplemento di circa 20 pagine, che potrebbe aggiungersi ai volumi invenduti delle varie edizioni e traduzioni, previo benestare degli editori».  

Influenza del «Consiglio» pastorale olandese

Questo «concilio», iniziato nel 1966, è stato influenzato dagli errori del Catechismo olandese. In particolare, la terza sessione (1969) fu molto segnata dal clima creato dalla questione del Catechismo e dalla tensione con Roma scaturita dal suo esame e poi dalla Dichiarazione della Commissione Cardinalizia.   Ciò spiega in parte gli eccessi che questo «concilio» ha esaminato e poi votato con la benedizione dell’episcopato olandese.   Paolo VI, su richiesta di Jacques Maritain e del cardinale Charles Journet, che prepararono l’ossatura del testo, reagì con la pubblicazione del Credo du peuple de Dieu, proclamato solennemente in Vaticano il 30 giugno 1968, per la chiusura dell’Anno della fede. Il Papa ha sostanzialmente riaffermato le verità di fede negate o messe in discussione dal Catechismo olandese senza nominarlo.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Mons. Viganò: omelia per le Rogazioni contro il cancro conciliare

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Renovatio 21 ripubblica questo discorso di monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

FIRMAMENTUM MEUM

Omelia nelle Litanie Maggiori, o Rogazioni Pozzolatico (Firenze). 25 Aprile 2024

 

 

 

Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et liberator meus.
Il Signore è mia roccia, mia fortezza e mio liberatore.

Ps 17, 3

Le Rogazioni riportano molti di noi a tempi remoti, nei quali il 25 Aprile era dedicato alla Benedizione dei campi. Ed era nelle campagne, un tempo nemmeno troppo distanti dalle città, che vedevamo processioni di fedeli e popolo seguire il sacerdote al canto delle Litanie.

 

Ut fructus terræ dare et conservare digneris… Contadini vestiti con l’abito della festa accompagnavano i nostri parroci fino ai loro poderi, dove la sua preghiera echeggiava in un silenzio rotto solo dal canto degli uccelli. Gli alberi da frutto erano in fiore e nell’aria volavano i semi dei pioppi. E si sapeva, nell’intimo di una coscienza che parlava ancora, che il Signore premia il giusto e punisce il malvagio: non solo perché questo era ciò che si sentiva predicare in chiesa, ma anche perché questa giustizia semplice nella comprensione e divina nelle sue manifestazioni mandava le cavallette nel campo di chi lavorava la domenica, e rendeva feconde le coltivazioni, generosi i fianchi delle mucche e delle pecore di chi viveva in Grazia di Dio. 

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La nostra educazione radicatamente cattolica ci mostrava incastonati in un elaboratissimo disegno della Provvidenza; ed anche se il Creato ci era ostile dopo la cacciata dall’Eden, eravamo nondimeno aiutati dal ritmo sereno delle stagioni e dallo scandire confortante delle ricorrenze religiose a condurre una vita ancora rispondente all’armonia voluta dal Creatore. 

 

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore…

 

Potevamo ancora ammirare all’alba, in questa stagione, il cielo che si schiariva e brillava nel suo blu radioso: oggi ci siamo ormai abituati alla grigia coltre di cieli irrorati artificialmente. E comprendiamo, solo oggi, quanto dessimo per scontata la luce del sole, che qualche autoproclamato filantropo vorrebbe schermare: 

 

de te, Altissimo, porta significatione.

 

Pensiamoci bene: l’odio del Nemico sembra progressivamente mostrarsi con sempre maggior arroganza, e privare il genere umano della luce del sole è un’inquietante figura dell’oscuramento di Cristo, Sol justitiæ, da parte dei servi dell’Avversario. 

 

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

 

Quella società ancora cattolica, pur essendo minata dagli errori del liberalismo o del materialismo ateo, è riuscita a sopravvivere fino agli Anni Sessanta perché era tenuta in vita dall’opera santificatrice della Chiesa e da una generazione di sacerdoti formati secondo l’impostazione tradizionale.

 

Per far ingoiare a questi buoni parroci e religiosi l’indigesto boccone del Vaticano II furono necessari anni e anni di rieducazione e di epurazioni, ma nel frattempo – anche dove il rito riformato aveva sostituito la Messa cattolica – dai pulpiti veniva ancora predicata la Fede di Cristo. Solo per questo gli errori moderni non poterono attecchire ovunque: rimaneva nelle anime il timor di Dio, il rispetto della santità della vita, il riconoscimento del ruolo sociale della famiglia, la volontà di Bene.

 

Nel frattempo il cancro conciliare si diffondeva nelle Università pontificie, nei Seminari, nei Conventi, nelle associazioni cattoliche. 

 

Fu allora che la Gerarchia Cattolica lasciò cadere le Rogazioni, considerandole una vieta manifestazione di fideismo quasi superstizioso. La mente orgogliosa e superba dei novatori non poteva tollerare che il popolo cristiano chiedesse perdono per i propri peccati, invocando la misericordia del Signore e propiziando le Sue benedizioni sui campi.

 

Era una visione «medievale», indegna delle elevate e adulte coscienze dei modernisti. Era un ostacolo al dialogo religioso, perché riconosceva alla Maestà divina una centralità che l’uomo moderno rivendicava a sé e alla sua dignitas infinita – intelligenti pauca. Così la Provvidenza venne bandita sia nel Suo intervento nella Storia, sia nella nostra possibilità di invocarLa.

 

Il Vaticano II, con la sua visione orizzontale, ci ha precluso quella consolante consapevolezza di essere parte di un cosmo in cui la nostra esistenza individuale è insostituibile perché frutto dell’amore provvidente del Dio Creatore, Redentore e Santificatore. 

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La voce della «chiesa conciliare» ci faceva credere che eravamo tutti salvi per il solo fatto che Cristo fosse uomo come noi; e quindi che non vi poteva essere nessuna punizione perché non vi era alcuna colpa da punire; dunque non vi era più un Dio da implorare perché fermasse il braccio della Sua giusta ira su di noi peccatori.

 

Questo voleva dire – e lo vediamo confermato oggi – che non serviva nemmeno un Redentore, e che il Sacrificio della Croce era inutile. Ma se tutti si salvano, a cosa serve la Chiesa? Se non c’è diluvio, a cosa serve l’Arca? Se il mondo può vivere in pace e in armonia senza Dio, perché dovremmo pregarLo? Se vogliamo la pioggia, ce la facciamo cadere noi, e se i campi inaridiscono facciamo crescere piante ogm in idrocultura, creiamo la carne sintetica, sostituiamo il frumento con gli scarafaggi, la natura con i pannelli solari, la vita con la sua grottesca replica in provetta. 

 

Nelle Rogazioni è riassunta l’anima del popolo cattolico, perché nell’invocare la misericordia e la benedizione di Dio sui frutti della terra che vanno maturando nei campi e lungo i filari, quel popolo si riconosceva con umile realismo peccatore, capace di emendarsi, di far penitenza, di difendere la propria Fede con il generoso e sincero impeto di Pietro: Signore, con Te sono pronto ad andare in prigione e alla morte (Lc 22, 33).

 

Quel mondo cristiano, cari fratelli, è stato cancellato: in molte nazioni seguirne i principi è considerato un reato. Ma se è umanamente arduo pensare che sia possibile ricostruire quel modello sulle rovine di un’umanità abbrutita e ribelle, abbiamo tuttavia la possibilità di formare piccole comunità in cui sia custodita e conservata la Fede cattolica secondo quel modo di vivere antico e sacro, nella consapevolezza che dovremmo forse adattarci anche alla clandestinità e alla macchia. Sarà allora che i nostri figli scopriranno con stupore e incredulità quanto sia preferibile arare un campo, dissodare un orto, coltivare frutta, allevare il bestiame, pascolare le pecore, saper fare il formaggio e cuocere il pane. Perché quel benedetto sudore della fronte ci riporta alla concretezza della nostra condizione di exsules filii Hevæ ma ci affranca dalla servitù dei call center, dall’usura, dalla necessità di comprare e mangiare quel che altri hanno deciso. 

 

Tornare alla Fede è possibile creando piccole comunità tradizionali, in cui confrontarsi con gli elementi, seguire i ritmi delle stagioni, la fatica dell’estate e il riposo dell’inverno, la preghiera costante a punteggiare le giornate; giornate in cui ci si alza con la luce del Sole e il segno della Croce, e alla fine delle quali ci si corica con il nome di Gesù e di Maria sulle labbra; giornate in cui la grandine si allontana con una giaculatoria e accendendo la candela benedetta, in cui l’agonia di un’anima è accompagnata dal rintocco della campana, e non dall’arroganza di medici corrotti e infermieri senza cuore. 

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Ecco perché preghiamo oggi: perché vi siano agricoltori nei campi, vignaioli nelle vigne, pastori per le greggi, operai infaticabili nei tempi di sereno e di tempesta, nella canicola e con la galaverna. E questo vale per le coltivazioni e il bestiame, ma anche e soprattutto per il campo del Signore, per la Sua vigna, per il Suo gregge: è il motivo per cui nelle Litanie invochiamo di essere risparmiati a fulgure et tempestatea peste, fame et bello, ma anche per cui preghiamo ut domnum Apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris.

 

A questo servono i Ministri dell’Altissimo: a dissodare e seminare la Parola di Dio con la predicazione; a moltiplicare i grappoli dell’unica vite; a pascere le pecore che il Signore ha affidato loro. 

 

L’anniversario dell’Ordinazione sacerdotale di don Lorenzo e don Emanuele e della mia Consacrazione episcopale ci ricordano l’importanza del Sacerdozio cattolico, specialmente in un’epoca in cui i Ministri rimasti fedeli a Cristo sono sempre meno.

 

Il Collegium Traditionis è appunto un seminarium, un luogo – e lo comprenderanno bene quanti conoscono la vita di campagna – in cui il seme della Vocazione è fatto crescere e portato a sviluppo, prima che la pianta possa esser messa a dimora e irrobustirsi dando frutto.

 

Chiediamo anche noi, sull’esempio e per l’intercessione del glorioso Apostolo ed Evangelista Marco, di veder benedetti i frutti soprannaturali di questo vivaio di futuri sacerdoti: per la gloria di Dio, l’onore della Chiesa, la salvezza delle anime. E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

25 Aprile 2024
S.cti Marci Ev.

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Immagine: Jules Breton, La Bénédiction des blés en Artois (1867), Museo di Orsay, Parigi.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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