Economia
La Birmania userà lo yuan cinese come valuta di scambio
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews.
Le entrate di valuta straniera nelle casse birmane si fanno sempre più esigue. I media di Stato cinesi criticano l’imposizione delle sanzioni USA. In realtà gli attivisti del Myanmar ne vorrebbero di più, soprattutto nei confronti delle compagnie petrolifere.
Il Myanmar ha approvato l’utilizzo dello yuan per gli scambi commerciali con l’estero. A riportarlo sono i media di Stato cinesi.
Il Global Times spiega che nella fase pilota ci si concentrerà sulle piccole merci scambiate al confine tra i due Paesi per un valore di 2 miliardi di yuan (circa 280 milioni di euro), che corrispondono a un quinto del valore degli scambi di frontiera tra Naypyidaw e Pechino.
Il tentativo è quello di alleviare la pressione finanziaria sul Myanmar (nelle cui casse scarseggiano sempre più le valute straniere), e di sganciare il kyat birmano dal dollaro.
Il Myanmar ha approvato l’utilizzo dello yuan per gli scambi commerciali con l’estero. A riportarlo sono i media di Stato cinesi
L’articolo del tabloid del Partito comunista cinese procede con diverse critiche al governo statunitense per aver «bullizzato» e imposto sanzioni unilaterali contro la giunta birmana, sempre più legata a Pechino – come alla Cambogia, anch’essa colpita da misura punitive di Washington nelle ultime settimane.
Il segretario di Stato Usa Antony Blinken ieri ha dichiarato che l’amministrazione Biden sta valutando l’imposizione di nuove sanzioni contro i militari del Myanmar che controllano il Paese dopo il golpe del primo febbraio.
«Penso che sarà molto importante nelle settimane e nei mesi a venire vedere quali ulteriori misure possiamo adottare individualmente e collettivamente per fare pressione sul regime affinché riporti il Paese su una traiettoria democratica», ha detto Blinken mentre si trovava in Malaysia, seconda tappa dopo l’Indonesia del suo tour nel sud-est asiatico.
Quando a Blinken è stato chiesto un commento sull’eventualità di sanzionare anche i settori del gas e del petrolio, i cui profitti finiscono nelle casse dei generali birmani, egli non ha menzionato la possibilità, ma ha invece risposto che l’amministrazione Biden sta considerando di catalogare come genocidio la repressione contro la minoranza musulmana dei rohingya.
Diverse organizzazioni hanno scritto una lettera all’amministratore delegato dell’azienda francese Total Patrick Pouyanne chiedendogli di «porre fine alla sua complicità in crimini contro l’umanità»
La società civile, già impegnata sul fronte interno in azioni di boicottaggio contro la giunta, chiede invece che a essere sanzionate siano proprio le compagnie petrolifere straniere che lavorano con le imprese statali birmane.
A agosto alcuni attivisti hanno creato il movimento «Blood Money Campaign» per chiedere che vengano congelati i pagamenti delle esportazioni provenienti dal giacimento di gas di Yadana, gestito dalla Total in collaborazione con la Myanma Oil and Gas Enterprise (MOGE).
Qualche mese dopo, a novembre, diverse organizzazioni hanno scritto una lettera all’amministratore delegato dell’azienda francese Patrick Pouyanne chiedendogli di «porre fine alla sua complicità in crimini contro l’umanità».
«Siamo preoccupati che i profitti ottenuti dallo Yadana Project, per il quale lavoriamo, contribuiranno, in un modo o nell’altro, a finanziare la violenta repressione del popolo birmano da parte della giunta militare», si legge nella lettera di protesta.
Per tutta risposta la Total ha condannato le violazioni dei diritti umani e ha affermato che un taglio dell’elettricità andrebbe a scapito della popolazione.
Circa il 50% della valuta straniera del Myanmar proviene dallo sfruttamento di giacimenti di gas naturale
Circa il 50% della valuta straniera del Myanmar proviene dallo sfruttamento di giacimenti di gas naturale.
Secondo le previsioni di Naypyidaw, MOGE dovrebbe guadagnare 1,32 miliardi di euro grazie ai progetti offshore nel biennio 2021-22.
Il Yadan Project nel 2017-18 ha fruttato al governo birmano più di 350 milioni di euro.
Economia
La Turchia sospende ogni commercio con Israele
Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.
La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.
Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.
Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.
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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.
Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.
In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.
.@RTErdogan is breaking agreements by blocking ports for Israeli imports and exports. This is how a dictator behaves, disregarding the interests of the Turkish people and businessmen, and ignoring international trade agreements. I have instructed the Director General of the…
— ישראל כ”ץ Israel Katz (@Israel_katz) May 2, 2024
Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».
Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UE) a Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».
Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.
Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.
Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.
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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Economia
La Republic First Bank fallisce: la crisi bancaria USA non è finita
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Economia
BlackRock si unisce al pressing sull’Arabia Saudita: deve uscire dai BRICS
L’Arabia Saudita è oggetto di una pressione da parte di tutta la corte progettata per tirarla fuori dai BRICS e riallinearla con Londra e Washington.
Nello stesso momento in cui il Segretario di Stato americano Tony Blinken era in Arabia Saudita questa settimana per lavorare sulla «normalizzazione delle relazioni» tra Israele e Arabia Saudita – vale a dire, affinché i Sauditi riconoscano Israele in cambio di un patto militare con gli Stati Uniti – erano presenti nel regno wahabita anche Larry Fink e altri alti dirigenti di BlackRock per firmare un accordo con il governo saudita per il lancio della società BlackRock Riyadh Investment Management.
La nuova entità, detta anche BRIM, sarà una nuova «società di investimento multi-class» a Riyadh, con 5 miliardi di dollari di capitale iniziale di origine saudita, che dovrà «gestire fondi che investono principalmente in Arabia Saudita ma anche nel resto del Medio Oriente e del Nord Africa», ha riferito il Financial Times.
«L’obiettivo è attrarre ulteriori capitali esteri in Arabia Saudita e rafforzare i suoi mercati dei capitali attraverso una gamma di fondi di investimento gestiti da BlackRock», che ha in gestione una bella somma di 10,5 trilioni di dollari. Il CEO di BlackRock Larry Fink ha dichiarato in una nota che «l’Arabia Saudita è diventata una destinazione sempre più attraente per gli investimenti internazionali… e siamo lieti di offrire agli investitori di tutto il mondo l’opportunità di parteciparvi».
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L’Arabia Saudita aveva segnalato il suo interesse ad entrare nei BRICS ancora due anni fa.
Come riportato da Renovatio 21, pare che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – capo de facto del regno islamico – cinque mesi fa abbia snobbato i britannici per incontrare il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. Negli stessi mesi il Regno aveva stipulato con la Cina un accordo di scambio per il commercio senza dollari.
Lo scambio di petrolio senza l’intermediazione del dollaro, iniziata nel 2022 con le dichiarazioni dei sauditi sulla volontà di vendere il greggio alla Cina facendosi pagare in yuan, porterà alla dedollarizzazione definitiva del commercio globale.
A gennaio 2023, il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohammed Al-Jadaan ha dichiarato al World Economic Forum che il Regno è aperto a discutere il commercio di valute diverse dal dollaro USA.
«Non ci sono problemi con la discussione su come stabiliamo i nostri accordi commerciali, se è in dollari USA, se è l’euro, se è il riyal saudita», aveva detto Al-Jadaan in un’intervista a Bloomberg TV durante il WEF di Davos. «Non credo che stiamo respingendo o escludendo qualsiasi discussione che contribuirà a migliorare il commercio in tutto il mondo».
Il rapporto tra la Casa Saud e Washington, con gli americani impegnati a difendere la famiglia reale araba in cambio dell’uso del dollaro nel commercio del greggio (come da accordi presi sul Grande Lago Amaro tra Roosevelt e il re saudita Abdulaziz nel 1945) sembra essere arrivato al termine.
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Immagine di pubblico dominio CCO via Flickr
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