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Mons. Viganò: Draghi, i Gesuiti e il Grande Reset

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Monsignor Carlo Maria Viganò.

 

 

 

ET CONCULCABIS LEONEM ET DRACONEM

 

 

Super aspidem et basiliscum ambulabis,

et conculcabis leonem et draconem.

 

 

 

I liberi pensatori, sino al secolo scorso, potevano propagandare le proprie idee intrise di principi massonici e di retorica perché il corpo sociale non era liberale; potevano rimanere sul sagrato delle chiese, la domenica mattina, mentre le loro donne e i loro figli assistevano alla Messa, andavano a catechismo, venivano istruiti dalla Chiesa e dallo Stato ai principi morali e ai valori condivisi dell’onestà, del senso del dovere, dell’amor patrio.

 

Potevano mandare a morire in guerra milioni di giovani vite, in nome di ideali che ancora erano legati ad un mondo essenzialmente cristiano, anzi profondamente cattolico e romano: quel mondo in cui i nostri soldati al fronte recitavano il Rosario, pregando per i propri cari e per la cara Italia, terra benedetta dalla Provvidenza, culla della civiltà e sede del Papato. Ma quei principi liberali e massonici, pur denunciati dai Pontefici e combattuti da Vescovi, predicatori e teologi, sono riusciti a far breccia nella nostra società, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale ed ancor più dopo il nefasto Sessantotto.

Ci siamo così ritrovati ad avere un’intera classe dirigente che è stata formata alla scuola del libero pensiero, all’ideologia massonica, all’indifferentismo religioso, alla laicità dello Stato e alla conseguente crisi morale del Paese

 

Ci siamo così ritrovati, per il necessario e inevitabile ricambio generazionale, ad avere un’intera classe dirigente che è stata formata alla scuola del libero pensiero, all’ideologia massonica, all’indifferentismo religioso, alla laicità dello Stato e alla conseguente crisi morale del Paese. Decenni di indottrinamento hanno cancellato l’eredità religiosa e morale dell’Italia, portando gli Italiani a vergognarsi di un passato glorioso e a rinnegare duemila anni di Cristianità.

 

Doveva essere una scelta di progresso, senza privilegiare la verità a discapito dell’errore, senza riconoscere il primato del bene sul male, senza imporre leggi e dottrine con la forza ma promuovendone l’applicazione con la scelta consapevole; ci ritroviamo una Nazione corrotta, che approva il concubinato e l’aborto, promuove la sodomia e la perversione, riconosce diritti al crimine e deride o addirittura condanna l’onestà, la rettitudine, la virtù.

 

In nome della tolleranza ci è stato chiesto di consentire legittimità al male, rassicurandoci che comunque il bene non sarebbe stato ostacolato: oggi lo Stato garantisce e tutela il male ed è giunto a vietare il bene. Si possono commettere i crimini più abominevoli, come uccidere una creatura innocente nel ventre materno o l’anziano inerme e il malato terminale nel letto d’ospedale, ma è proibito difendere la vita, la famiglia, la Religione.

Decenni di indottrinamento hanno cancellato l’eredità religiosa e morale dell’Italia, portando gli Italiani a vergognarsi di un passato glorioso e a rinnegare duemila anni di Cristianità

 

D’altra parte, l’essenza del liberalismo – che, ripeto, è l’applicazione politica e sociale dei principi della Massoneria – risiede proprio nel disarmare progressivamente la maggioranza dei buoni, e al contempo nel sostenere e rafforzare la minoranza dei corrotti, sotto il pretesto di una presunta quanto assurda parità di diritti.

 

Eppure non dovrebbe essere così difficile, se si usasse un po’ di raziocinio, comprendere che la sola idea di uguaglianza è assurda, perché presuppone un appiattimento delle differenze, un’omologazione delle diversità che di fatto finisce col cancellare ciò che viceversa dovrebbe rendere il corpo sociale – e quello ecclesiale per coerenza – efficiente in tutte le sue membra, diverse ma armonicamente connesse.

 

Pretendere che un piede possa vedere o che una mano possa ascoltare, o ridurre le funzioni degli organi al minimo comun denominatore è un’operazione assurda e sciagurata, come lo sarebbe pretendere che in un’automobile la frizione svolga la funzione delle ruote o che il motore faccia il lavoro dei fari.

 

D’altra parte, l’essenza del liberalismo – che, ripeto, è l’applicazione politica e sociale dei principi della Massoneria – risiede proprio nel disarmare progressivamente la maggioranza dei buoni, e al contempo nel sostenere e rafforzare la minoranza dei corrotti, sotto il pretesto di una presunta quanto assurda parità di diritti

Eppure nella cosa pubblica si lascia comandare chi non è costituito in autorità, si permette di definire famiglia un’unione che per natura è destinata alla sterilità del vizio, si riconosce il diritto di decidere se una legge sia giusta non a chi ha la saggezza e la prudenza di farlo, ma a chi antepone il proprio interesse particolare al bene comune. E si finisce con l’adorare il vitello d’oro rifiutando il culto esclusivo al Dio vivo e vero.

 

In questo la democrazia rivela la sua debolezza, dal momento che pone come postulato una bontà innata nella moltitudine, che viceversa è incline al male e al peccato e che ha bisogno di esser guidata da un’autorità che abbia come modello valori trascendenti.

 

Questa corsa verso il baratro ha i chiarissimi connotati della nemesi, punizione di una hybris che non conosce freni, che sfida il Cielo, che nella vertigine della ribellione e del caos rifiuta ogni gerarchia e ogni ordine impresso dal Creatore e Signore di tutte le cose.

 

Solo così possiamo comprendere le decisioni scellerate dei governanti, dalla gestione dell’emergenza pandemica all’indiscriminata accoglienza degli immigrati clandestini; solo così riusciamo a vedere la follia che unisce in un unico disegno fatti apparentemente scollegati tra loro. Cercare una qualche ragionevolezza nelle parole del sedicente esperto che impone le mascherine per proteggere la popolazione da un virus influenzale, o nell’ordine dell’autorità di chiudere le scuole e i ristoranti mentre sui mezzi pubblici i cittadini sono costretti a viaggiare stipati asseconda questa follia, riconoscendole una razionalità e una logicità che non può avere.

 

È assurdo contestare la presunta inevitabilità dei prestiti che l’Italia dovrebbe richiedere all’Unione Europea, dopo che questa – con modalità criminali degne dei peggiori usurai – ha creato scientificamente le premesse sociali ed economiche della crisi economica

Così come è assurdo contestare la presunta inevitabilità dei prestiti che l’Italia dovrebbe richiedere all’Unione Europea, dopo che questa – con modalità criminali degne dei peggiori usurai – ha creato scientificamente le premesse sociali ed economiche della crisi economica. È altrettanto assurdo chiedersi perché le cure per il COVID siano boicottate per favorire cosiddetti vaccini sperimentali realizzati con feti abortivi e dagli effetti ancora ignoti, quando è evidente che la pandemia è stata pianificata con lo scopo da un lato di arricchire spropositatamente la lobby farmaceutica e dall’altro di imporre misure di controllo altrimenti inaccettabili.

 

Ma se questo nostro atteggiamento costruttivo e aperto al confronto poteva in qualche modo esser giustificato e scusato fino a qualche anno fa in nome di una parziale comprensione del quadro globale, oggi esso rischia di degenerare in una sorta di complicità ottusa, perché la presunzione di buonafede da parte dei nostri interlocutori è stata ampiamente sconfessata.

 

Le vicende recenti della crisi del governo Conte bis e la fiducia accordata al governo del Presidente Draghi non fanno eccezione, e se non stupisce il generale entusiasmo dei partiti anche della cosiddetta opposizione, lascia sconcertati il consenso delle vittime alla nomina di un carnefice ben peggiore dell’avvocato di Volturara Appula.

 

È altrettanto assurdo chiedersi perché le cure per il COVID siano boicottate per favorire cosiddetti vaccini sperimentali realizzati con feti abortivi e dagli effetti ancora ignoti, quando è evidente che la pandemia è stata pianificata con lo scopo da un lato di arricchire spropositatamente la lobby farmaceutica e dall’altro di imporre misure di controllo altrimenti inaccettabili

Pare anzi che l’avvento del cinico tecnocrate sia stato salutato con sollievo, dopo un anno di reboanti proclami e plateali fallimenti del predecessore e di tutta la sua grottesca accolita di impresentabili. Se infatti vi è stato chi fino a ieri deplorava la pessima gestione della pandemia a colpi di DPCM tanto illegittimi quanto devastanti, oggi l’efficienza nel perseguimento del medesimo piano sembra rappresentare un miglioramento, come se il condannato a morte si rallegrasse della migliore affilatura della lama della scure, mentre abbassa consenziente il capo sul ceppo per ricevere il colpo del boia.

 

Gli Italiani, indotti alla soggezione e alla servitù dal martellamento dei media e da un’operazione di manipolazione delle masse, sono stati ancor più obbedienti di altre Nazioni apparentemente più disciplinate: mentre nelle nostre città qualche politico raccomanda il distanziamento sociale durante timide manifestazioni di protesta, in molti Paesi europei i cittadini scendono in piazza spontaneamente e fronteggiano la repressione violenta delle forze dell’ordine con determinazione.

 

Mentre la nostra «opposizione» si scandalizza per l’inefficienza del commissario Arcuri nella distribuzione dei vaccini, all’estero gruppi di avvocati e medici ne denunciano la pericolosità e si oppongono all’obbligo vaccinale, ottenendo che le stesse autorità ne vietino la distribuzione.

 

E se c’è chi viola per esasperazione norme palesemente illegittime, in Italia è criticato come irresponsabile proprio da coloro che, non fosse che per calcolo politico, dovrebbero cavalcare la rivolta e dimostrare quanto sia assurdo chiudere le attività commerciali in assenza di evidenze scientifiche che legittimino l’adozione di misure così drastiche.

Mario Draghi rappresenta la quintessenza della tirannide del Nuovo Ordine, nella sua cinica competenza, nella professionalità della sua azione devastatrice, nell’efficienza dei suoi funzionari

 

Mario Draghi rappresenta la quintessenza della tirannide del Nuovo Ordine, nella sua cinica competenza, nella professionalità della sua azione devastatrice, nell’efficienza dei suoi funzionari.

 

E non stupisce che egli sia stato educato, come Joe Biden e tanti altri leader globalisti, alla scuola ideologica dei Gesuiti. Non stupisce, ed anzi non avrebbe potuto essere altrimenti: solo una struttura fortemente gerarchica e quasi militare poteva manipolare le giovani coscienze di intere generazioni, con diabolica lungimiranza, preparando l’avvento di una società tirannica e disumana.

 

L’abbiamo visto in Italia, ben prima del Sessantotto, quando i professori universitari salutavano con scomposto entusiasmo l’elezione di Roncalli, amico del modernista Bonaiuti, ben sapendo come la sua apparente bonomia nascondesse una mente avvelenata dalle dottrine combattute da San Pio X e ancora avversate da Pio XII fin sul letto di morte.

Non stupisce che Draghi sia stato educato, come Joe Biden e tanti altri leader globalisti, alla scuola ideologica dei Gesuiti

 

L’abbiamo visto negli Atenei di mezza Europa e nelle Università cattoliche americane, da cui sono usciti i protagonisti del Vaticano II e del postconcilio, gli agit-prop del Movimento Studentesco e dei sindacati di sinistra, i terroristi delle Brigate Rosse e gli ideologi della Teologia della Liberazione, i teorizzatori della liberazione sessuale, del divorzio e dell’aborto.

 

Potremmo affermare che negli ultimi decenni non si sia avuto alcun evento politico, sociale, culturale e religioso che non abbia trovato un potente ispiratore nei Gesuiti. I quali, dopo aver rinnegato il giuramento e i voti pronunciati il giorno della loro Professione, hanno messo a disposizione del nuovo padrone la loro rete di relazioni e la loro capacità di infiltrare i propri emissari nei posti chiave della politica, dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della cultura, dei media, dell’imprenditoria e della finanza. Una rete che replica, forse con maggior efficienza e incisività, quella non meno eversiva delle sette massoniche e delle conventicole di cospiratori.

 

Potremmo affermare che negli ultimi decenni non si sia avuto alcun evento politico, sociale, culturale e religioso che non abbia trovato un potente ispiratore nei Gesuiti

Giuseppe Conte, homo novus sponsorizzato oltretevere da Prelati ampiamente compromessi con la peggiore politica democristiana e cattocomunista, ha svolto la sua funzione di inconsistente burattino dalle ambizioni tanto ridicole quanto velleitarie: la sua parabola ha consentito il perseguimento di un progetto di ingegneria sociale che prevedeva proprio un avvocato sine nomine come ignaro esecutore degli ordini del burattinaio globalista. E che proprio facendo leva sulla sua vanità ha potuto usarlo per imporre alla popolazione decisioni devastanti, senza alcuna ratifica del Parlamento né tantomeno della volontà degli elettori. Ma il suo ruolo chiaramente temporaneo, quasi come una comparsa, si doveva esaurire nel momento in cui, divenuta evidente la sua inconsistenza e imperizia su tutti i fronti, si sarebbe reso necessario quel «cambio di passo» che già dalla scorsa estate qualche raro osservatore della politica italiana prevedeva si sarebbe realizzato con l’avvento di Mario Draghi, ex Governatore della BCE, esponente della lobby finanziaria e naturale erede di Mario Monti.

 

Potremmo vedere un istruttivo parallelo di questa situazione nello speculare ruolo che il gesuita Jorge Mario Bergoglio si è visto assegnare dalla cosiddetta Mafia di San Gallo: anche l’Argentino, fino ad allora quasi sconosciuto, è stato eletto Papa per demolire le ultime vestigia della Chiesa Cattolica; e come Conte, anche Bergoglio crede di essere l’autore di un cambiamento radicale ed irreversibile, pensando di passare alla storia mentre chi lo manovra ha già designato chi prenderà il suo posto.

 

Anche in questo caso la vanità, l’egocentrismo, anzi il delirio di onnipotenza del personaggio gli impediscono di comprendere di essere usato e che l’appoggio di cui oggi beneficia si tramuterà in spietato cinismo non appena i suoi disastri saranno abilmente enfatizzati dai media. L’uno e l’altro hanno un simile destino, né farà eccezione Joe Biden, la cui Vicepresidente Kamala Harris attende con impazienza il momento in cui il copione prevederà l’estromissione del corrotto democratico col pretesto della sua salute mentale e fisica.

 

Anche l’Argentino, fino ad allora quasi sconosciuto, è stato eletto Papa per demolire le ultime vestigia della Chiesa Cattolica; e come Conte, anche Bergoglio crede di essere l’autore di un cambiamento radicale ed irreversibile, pensando di passare alla storia mentre chi lo manovra ha già designato chi prenderà il suo posto

È quindi importantissimo, e parimenti ineludibile, che quanti hanno a cuore le sorti della Patria comprendano che il Presidente Draghi in nulla si discosterà dall’agenda globalista, se non nella maggiore efficienza con cui la realizzerà.

 

Nutrire la speranza che il tecnocrate al quale si deve la devastazione della Grecia possa in qualche modo venir meno al suo compito è da sprovveduti, così come è ogni forma di collaborazione o di supporto a questo governo non può che condurre inesorabilmente alla ulteriore perdita di sovranità nazionale e all’asservimento completo al Nuovo Ordine.

 

Non dimentichiamo che il gabinetto del Primo Ministro annovera personaggi quali Vittorio Colao e Roberto Cingolani, per i quali il Great Reset è ormai in stadio avanzato di compimento, con o senza il consenso degli elettori.

 

Chi governa oggi, in Italia come negli Stati Uniti, non considera minimamente rilevante che il proprio potere sia usurpato con manovre di palazzo o con frodi elettorali, né che il totem della democrazia grazie al quale ha potuto illudere le masse sia sostituito da una crudele dittatura, con o senza l’alibi dell’emergenza pandemica.

Sappiamo bene che era tutto programmato da anni, e che per realizzare fino in fondo il progetto globalista l’élite non esiterà a violare i diritti fondamentali, col pretesto di farlo «per il nostro bene»

 

Sappiamo bene che era tutto programmato da anni, e che per realizzare fino in fondo il progetto globalista l’élite non esiterà a violare i diritti fondamentali, col pretesto di farlo «per il nostro bene». Ma sappiamo anche che quanto più ci avviciniamo alla fine dei tempi, tanto più la Provvidenza moltiplica le grazie per il pusillus grex che rimane fedele al Signore.

 

Se sapremo capire che ciò che avviene in Italia fa parte di un unico copione sotto un’unica regia, riusciremo a cogliere la coerenza tra fatti apparentemente eterogenei, e soprattutto comprenderemo che le motivazioni che vengono addotte per legittimare provvedimenti in violazione delle libertà naturali degli individui non sono altro che pretesti, tanto falsi quanto razionalmente incongruenti.

 

E siccome tutto si regge su una colossale menzogna, sarà sufficiente che crolli uno solo degli inganni per far sprofondare l’intera Torre di Babele globalista, i suoi gerarchi, i suoi sacerdoti, i suoi cortigiani, i suoi servi. Cadent a latere tuo mille, et decem millia a dextris tuis; ad te autem non appropinquabit: il Salmo 90 ci ricorda la protezione dell’Altissimo, la punizione che aspetta i peccatori; ci sprona a riporre la nostra fiducia in Dio, il Quale manderà i Suoi angeli per proteggerci lungo il nostro cammino.

Siccome tutto si regge su una colossale menzogna, sarà sufficiente che crolli uno solo degli inganni per far sprofondare l’intera Torre di Babele globalista, i suoi gerarchi, i suoi sacerdoti, i suoi cortigiani, i suoi servi

 

Non lasciamoci sedurre dall’apparente ineluttabilità del male: Satana è l’eterno sconfitto, sia che cerchi di distruggere la Chiesa di Cristo – roccia incrollabile per le stesse parole del Salvatore – sia che si accanisca su quel che rimane dell’umano consorzio.

 

E se davvero dev’esserci un Great Reset della nostra società, esso si compirà solo con il pentimento per le colpe pubbliche delle Nazioni, con un nuovo rinascimento della Cristianità, con un ritorno alla Legge di Dio.

 

Fiat volutas tua, recitiamo nel Padre nostro: sia questa la nostra agenda, sull’esempio della Vergine Santissima, Nostra Signora e Regina, che per prima ha calpestato l’aspide e il basilisco, ha schiacciato la testa del leone e del drago.

E se davvero dev’esserci un Great Reset della nostra società, esso si compirà solo con il pentimento per le colpe pubbliche delle Nazioni, con un nuovo rinascimento della Cristianità, con un ritorno alla Legge di Dio

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

3 Marzo 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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