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Spirito

I riti nella Chiesa cattolica

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Il termine «rito» si riferisce comunemente all’ordine della preghiera ufficiale, ovvero alla norma dell’azione liturgica stabilita dall’autorità e che trova la sua espressione pubblica e concreta nella liturgia. Il III secolo vide i primi segni di liturgie diverse nelle tre grandi metropoli dell’Impero: Roma, Alessandria e Antiochia.

 

Nel IV secolo emersero le zone liturgiche, costituite secondo le grandi divisioni politiche dell’epoca, dove alla fine prevalsero le forme liturgiche che costituiscono la base dei riti odierni.

 

Rito latino

In Occidente, la liturgia derivata da Roma prevale universalmente. L’antichissima liturgia gallicana, ampiamente utilizzata e fonte di numerosi elementi per le liturgie locali e persino per la liturgia romana, fu sostituita, a partire dall’epoca di Carlo Magno, dalla liturgia romana.

 

Lo stesso accadde nell’XI secolo per la liturgia ispanica o mozarabica, che in alcuni elementi si avvicinava alla liturgia gallicana. Fu ripresa nel XVI secolo in una cappella della cattedrale e in alcune parrocchie di Toledo, dove è ancora conservata.

 

Nell’arcidiocesi di Milano e in alcune parrocchie delle diocesi di Bergamo, Novara, Pavia e Lugano è ancora vigente la liturgia ambrosiana, riorganizzata da san Carlo Borromeo.

 

Diverse particolarità delle liturgie locali furono abolite dal Concilio di Trento, poiché da due secoli non avevano più alcuna autorità; alcune, tuttavia, sopravvissero fino al Concilio Vaticano II nelle arcidiocesi di Braga (rito di Braga) e di Lione (rito lionese) e nelle famiglie religiose, ad esempio tra i domenicani e i certosini (riti domenicano e certosino).

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Riti orientali

Il concetto di «rito» in senso stretto è riservato alle azioni liturgiche. Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, promulgato il 18 ottobre 1990, ne definisce una nozione più ampia, che si estende all’intero «patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare» delle singole Chiese orientali.

 

Questo patrimonio trae origine da una delle seguenti tradizioni: alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana. Tre di queste hanno avuto origine nell’Impero romano: alessandrina e costantinopolitana in Cappadocia, antiochena a Gerusalemme; due sono nate alla periferia dell’Impero: caldea in Mesopotamia e Persia, e armena per gli armeni.

 

La tradizione alessandrina conobbe uno sviluppo particolare in Etiopia, dove subì l’influsso di quella antiochena, mentre quella costantinopolitana o bizantina si conservò, senza subire profonde modificazioni, nelle Chiese nate dal Patriarcato stesso.

 

Sia la tradizione alessandrina che quella antiochena, nelle comunità fedeli ai concili di Efeso e di Calcedonia, furono gradualmente sostituite, dopo le controversie cristologiche del V secolo, dalla tradizione costantinopolitana, cioè quella dell’Impero e della Corte.

 

Così, a partire dal Medioevo, la liturgia alessandrina fu praticata solo dagli oppositori del Concilio di Calcedonia in Egitto ed Etiopia e di quello di Antiochia in Siria, Palestina e Mesopotamia, nonché dai Maroniti, che in seguito vi apportarono alcune modifiche.

 

A coloro che sono in comunione con la Chiesa cattolica, la Santa Sede lascia normalmente il proprio patrimonio. È un principio già affermato da San Leone IX: «La Chiesa romana sa che le consuetudini diverse a seconda del luogo e del tempo non impediscono la salvezza dei credenti, quando un’unica fede, operando attraverso la carità il bene che può, raccomanda tutti gli uomini a un solo Dio».

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Tradizione alessandrina

Questa tradizione si divise in due: egiziana ed etiope. Dominò in Egitto fino al XIII secolo, quando fu abbandonata a favore della tradizione costantinopolitana. Dopo la conquista musulmana, l’arabo soppiantò gradualmente il greco, di cui rimangono solo poche tracce (il rito copto).

 

In Etiopia ed Eritrea, la liturgia alessandrina subì profonde modifiche e si arricchì di nuovi testi, influenzati dai testi antiocheni. La lingua liturgica utilizzata è stata il Ge’ez, già lingua ufficiale nel V secolo, quando furono effettuate le prime traduzioni di testi biblici e liturgici in Axum (rito Ge’ez).

 

Tradizione antiochena

Formatasi liturgicamente a Gerusalemme e poi soprattutto ad Antiochia, e diffusa in Palestina, Siria e Mesopotamia settentrionale, questa tradizione si diffuse gradualmente a partire dalla seconda metà del XVII secolo fino ai cristiani di San Tommaso nell’India meridionale. I maroniti conservarono la tradizione antiochena, con modifiche in senso latino (rito maronita).

 

Praticato inizialmente in greco e siriaco, oggi è celebrato solo in siriaco con molte parti in arabo, in particolare tra i siriani (rito siro-antiocheno). I Malankaresi, cattolici di tradizione antiochena dell’India, usano, oltre al siriaco, il malayalam (rito siro-malankarese).

 

Tradizione armena

La tradizione armena si sviluppò a partire da testi antiocheni, con notevole influenza dei testi cappadoci e bizantini, ma con un notevole elemento originale fin dai tempi più antichi (rito armeno). Elementi latini furono introdotti nel Medioevo.

 

La lingua liturgica è l’armeno classico, lingua ufficiale dell’Armenia nel V secolo. In alcune eparchie del Patriarcato cattolico di Cilicia (nell’attuale Turchia sud-orientale), si osserva un crescente uso liturgico dell’arabo.

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Tradizione caldea

Questa tradizione si sviluppò indipendentemente nell’ex Impero Sasanide, da cui il termine «rito persiano». Dal XVII secolo in poi, il termine «caldeo» prevalse a Roma, ma le regioni abitate dai caldei la chiamarono «siro-orientale» (rito caldeo).

 

Questa eredità rituale fu trasmessa dai missionari della Mesopotamia all’Asia centrale, alla Cina e all’India. L’uso del siriaco, scritto e pronunciato in modo molto diverso da quello usato in Siria, si conservò quasi esclusivamente nella liturgia. In Mesopotamia, alcune chiese adottarono l’usanza di leggere pericopi scritturali e altre formule in arabo.

 

Il ramo più numeroso è la Chiesa siro-malabarese, che, secondo la tradizione, risale all’apostolo San Tommaso. La lingua liturgica usata oggi è il malayalam (rito siro-malabarese).

 

Tradizione costantinopolitana o bizantina

Questa tradizione, spesso chiamata «rito greco» in Occidente, si sviluppò a Costantinopoli, anticamente Bisanzio, essenzialmente da quella di Antiochia, ma con elementi provenienti da Alessandria e dalla Cappadocia (rito greco o bizantino).

 

Nel corso dei secoli, i testi liturgici e quelli relativi alla disciplina canonica di Costantinopoli furono tradotti dal greco nelle lingue dei popoli sottoposti alla giurisdizione dei Patriarchi di Costantinopoli, Alessandria e Antiochia, aderendo alla fede di Calcedonia: prima in georgiano, siriaco, paleoslavo e arabo, poi in romeno e, più di recente, in molte altre lingue.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Spirito

Io difendo Ambrogio e Ambrogio difende me

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Come ogni anno Renovatio 21 pubblica questo articolo nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano. Facciamo gli auguri a tutti i nostri lettori milanesi, che sono tanti – per Renovatio 21 Milano è di gran lunga la città con più visitatori, e non poteva essere altrimenti, essendo città italiana di massima intelligenza. Rinnoviamo, ancora una volta, l’appello a pregare il Santo milanese, perché la necessità, infestata da eretici e corrotti, da violenti e da volgari, da invertiti e disperati, possa risalire dall’abisso in cui costoro la stanno spingendo. Costoro non conoscono Ambrogio, non sentono il suo calore, non sentono il bisogno della sua protezione. Il flagello di Ambrogio ci aiuti a cacciare da Mediolano parassiti e demòni. A tutti coloro che comprendo quanto stiamo scrivendo, diciamo: Bon Sant Ambrœus a tucc!   Fu Penelope, una ragazza greca, a mostrarmelo per la prima volta.   In realtà mi porse una cartolina. La foto di un mosaico: un uomo dell’antichità, con la barba i baffi e i capelli corti. Un volto semplice, immerso in paramenti che invece parevan importanti. Sopra questa figura c’era scritto solo «AMBROSIVS».   «È Ambrogio. È il protettore di Milano. Tenete questa foto con voi».   Ciò accadeva, a Milano, quasi una ventina di anni fa. Per me, più di un’era geologica. Un altro pianeta, un’altra vita.   Si era, appunto, nei giorni di Sant’Ambrogio. Vivevo a Milano da un anno ma io mai avevo sentito il bisogno di sapere chi fosse Ambrogio. Mai avevo avvertito la necessità di guardarlo in faccia. Del resto, una faccia non poteva averla. Sant’Ambrogio era una festa, non una persona.   Eppure, pure in quella passata incarnazione del mio essere in cui la Fede era remota, avevo compreso che il gesto di Penelope aveva un valore inusuale. Non mi aveva passato un disco (allora c’erano) e neppure un libro (di quelli che non leggi e non restituisci). Sentivo che voleva trasmettermi qualcosa di speciale. Quasi un oggetto magico, un talismano: all’epoca le mie categorie cerebrali erano quelle.   Penelope aveva studiato negli anni Novanta con quella che allora era la mia fidanzata, una ragazza tedesco-americana.   Avevano studiato quella cosa che si chiama «design», che allora era quasi una cosa seria. Lo avevano fatto a Londra, al tempo centro di rimescolamento della intraprendenza giovanile mondiale, quel tipo di frullatore dove gli ingredienti erano americani, giapponesi, libanesi, russi, austriaci, coreani, fiamminghi, croati, i cui schizzi ormai apolidi si riversavano ad ondate nelle case di moda o negli studi pubblicitari di Milano. Erano giorni corruschi e distratti.   Niente di quel mondo poteva portarmi a pensare a quella inspiegabile scintilla che vedevo negli occhi di Penelope, un qualcosa che allora non potevo sapere come chiamare, ma ora sì: devozione. Penelope aveva ritrovato la Fede proprio in quel bailamme di colore e nichilismo che immergeva la nostra giovinezza.   Era cristiana ortodossa, anche questo scuoteva la mia ignoranza. Ma come, una ortodossa che mi parla di un santo cattolico?   «I santi venuti prima dello scisma sono santi per tutti» mi edusse con quell’accento soave. Io mica lo sapevo.

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Devozione

Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio.   Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso.   C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini.   Ero entrato nella cripta.   Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi.   Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre.   Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro?   La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione.   La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica.   Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi.   A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa.   Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio.   Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli.   Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile.   Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città?   Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade?   Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi.   Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.

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Tales ambio defensores

Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano.   Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica.   Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo.   Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio.   La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona.   Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione.   Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri.   In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare.   Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso.   «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani).   Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».

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Nemici di Ambrogio

Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici.   Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui.   Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare.   Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943.   Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria.   Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita.   Vogliono colpire Ambrogio.   Vogliono colpire la sua devozione.   Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio.   Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini.   Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.

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Don Ricossa mi ricorda, con tanto di documentazione, «che Cardini è stato membro del comitato scientifico della rivista massonica Ars Regia; che Cardini ha ricevuto e accettato un’onorificenza dal Grand’Oriente d’Italia; che Cardini ha scritto la prefazione ad un libro sui Templari del figlio dell’allora Gran Maestro della Massoneria Raffi, con i proventi del libro che vanno all’opera massonica degli Asili notturni; che Cardini ha partecipato a un convegno della Gran Loggia d’Italia, obbedienza di piazza del Gesù; che Cardini si riconosce nella Leggenda medioevale dei tre anelli, ripresa dal massone Lessing, e nell’idea di cristiani, ebrei e musulmani “fratelli in Abramo”; che per Cardini ha ragione Gad Lerner nel dire che Gesù Cristo non è cristiano ma ebreo, essendo il Cristianesimo una invenzione di Saulo di Tarso; che per Cardini non è neppure storicamente certo che Gesù Cristo sia esistito; che per Cardini il film su Ipazia, martire pagana vittima dei cristiani, è storicamente ineccepibile, e che d’altronde il Cristianesimo si è imposto con la violenza ben più che l’Islam. Per cui non stupiamoci se le preferenze di Cardini vadano a preti come don Gallo: “posso attestare che pochi come lui nella storia del cristianesimo sono stati altrettanto fedeli al messaggio del Cristo e alla missione della Chiesa nel mondo”».   «Quando ero vice presidente del CNR — mi dice Roberto de Mattei — organizzai a Roma un seminario internazionale sulle Crociate, ma ritenni di non invitare il professor Cardini, perché il suo è un lavoro di decostruzione dell’idea di Crociata, incompatibile con i risultati della più recente e accreditata letteratura scientifica. Cardini mi telefonò furioso e lo giudicai una mancanza di stile».   Lo stesso lavoro demolitorio e desacralizzante il Cardini lo porta su Ambrogio.   L’episodio che dà l’avvio all’elezione di Ambrogio all’episcopato, e cioè il bambino che urla in Chiesa «Ambrogio Vescovo!» trascinando con sé tutta Milano, è per Cardini una «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un evento da spin doctor in cui la «spontaneità popolare è accuratamente pilotata».   Tuttavia è la sottomissione di Teodosio che infastidisce di più il professore, «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».   Il famoso episodio in cui il vescovo Ambrogio piega l’Imperatore inducendolo alla penitenza rappresenta per l’autore qualcosa di intollerabile, perché emblema perfetto di un «progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».   In breve, quel che il Cardini non può sopportare è il primato della Chiesa sul mondo. Teodosio costretto alla penitenza dal vescovo Ambrogio per la strage di Tessalonica (Salonicco, in Grecia…) è per il vecchio studioso la base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio» ha delineato quella Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di Papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».   Comprendete? Papa Francesco — in effetti, il Papa più sottomesso all’Impero, l’Impero del Male — come antidoto ai danni provocati da Ambrogio.   La Chiesa non deve demandare al potere la penitenza se questo commette ingiuste stragi: capite l’attualità di questa richiesta?   Una Chiesa assoggettata al potere (come quella che stiamo vedendo oggi) è per il toscano la condizione giusta per la sposa di Cristo: «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene», tuttavia «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto»   Insomma, «forse senza di lui non avremmo avuto un conflitto tra mondo cattolico e modernità».   Tradotto: senza Ambrogio il cattolicesimo sarebbe naturaliter modernista.   Prendo questi virgolettati, che in me sortiscono l’effetto di amar ancora di più il mio Santo, da un articolone celebrativo che al libercolo in questione dedicò il Paolo Mieli sul primo quotidiano nazionale.   Una di quelle doppie paginate, sempre dense ed interessantissime a dire il vero, che una volta alla settimana consentono al pluri-ex-direttore del Corrierone di recensire qualche testo più o meno revisionista.   Il Mieli, a dire il vero, potrebbe aver qualche cavallo coinvolto nella corsa. Egli è figlio dell’ex agente del Psychological Warfare Branch dei servizi segreti britannici Ralph Merrill (all’anagrafe egiziana Renato Mieli) poi direttore dell’ANSA e de L’Unità finito però, poco dopo, ad esaltare l’ultraliberismo di Hayek e Von Mises (e per questo i fondi di Confindustria non gli sono mancati); soprattutto, possiamo dire che il Mieli Paolo è, come il padre, di origine ebraica.   Mai vorrei che vi fosse, in questo petardino editoriale contro Ambrogio, l’antico pregiudizio che vede il Santo come antisemita. Perché Ambrogio affrontò a testa alta l’Imperatore Teodosio anche un’altra volta.

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Nel 388, a Callinicum (ora Raqqa, l’ex-capitale dell’ISIS), una sinagoga fu data alle fiamme. Il governatore romano locale, sostenuto da Teodosio, decise che a pagare la ricostruzione dovesse essere il vescovo locale, ritenuto sobillatore degli incendiari.   Ambrogio scrisse all’Imperatore il suo dissenso:   «Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? (…) Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani (…) Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi?»   Ambrogio aveva centrato già allora tutta la questione dell’incompatibilità tra Stato e Chiesa quando per lettera chiese a Teodosio: «che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [cioè, del mantenimento dell’ordine pubblico, ndr] o il motivo della religione?».   È la medesima domande che si pose Andreotti quando capì che se non votava la legge sul libero aborto in Italia il suo governo sarebbe caduto. Sappiamo come si rispose. Lo sanno anche i 6 milioni di bambini ammazzati da quella legge, più aggiungiamo magari qualche milionata di vittime della conseguente pratica genocida della fecondazione assistita, che per ogni bambino sintetico nato ne ammazza almeno una ventina — quindi, altri milioni, molti di più, seguiranno.   Ambrogio, a differenza dei democristiani e dei loro patti con le potenze infernali, non faceva compromessi.   «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga — scrisse in un’altra epistola all’Imperatore — sì, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Rileggete: «perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Anche a secoli di distanza, come pensate che lo possano perdonare ebrei, falsi cristiani, servi degli dèi della morte?

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Tradidi quod et accepi

Voglio concludere.   Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta.   Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente?   No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace».   Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere.   Una cosa però l’ho fatta.   Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio.   S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano.   Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime.   Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua.   Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile.   Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana.   Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io.   Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità.   Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me.   Roberto Dal Bosco

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Immagine: Anonimo lombardo (inizio XVII secolo), Statua di Sant’Ambrogio di Milano nel Museo del Duomo, Milano. Statua a guglia in marmo di Candoglia. Immagine di Vassia Atanassova via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International  
       
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Spirito

Notre-Dame brucia e la Madonna viene privata del suo titolo

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Il Dicastero per la Dottrina della Fede ha pubblicato la Mater Populi Fidelis il 4 novembre 2025. Approvato da Leone XIV, questo documento priva la Madonna del titolo di Corredentrice.

 

Si tratta tuttavia di un titolo eminentemente tradizionale, come affermava Leone XIII nell’enciclica Adjutricem Populi del 5 settembre 1895: «Come ella era stata strumento del mistero dell’umana Redenzione, così, con il potere quasi illimitato che le era stato conferito, era dispensatrice della grazia che da questa Redenzione deriva per sempre».

 

Come ha potuto Leone XIII sbagliarsi così tanto? Non solo lui, ma anche i suoi successori: San Pio X (Ad Diem Illum, 2 febbraio 1904), Benedetto XV (Inter sodalicia, 22 marzo 1918), Pio XI (Discorso del 30 novembre 1933 ai pellegrini di Vicenza in Italia) e Pio XII (Mediator Dei, 20 novembre 1947, e Ad Cæli Reginam, 11 ottobre 1954), che hanno tutti parlato della corredenzione di Maria. Il recente documento romano ha ragione contro tutti questi papi?

 

Il 15 e 16 aprile 2019, Notre-Dame de Paris è stata devastata dalle fiamme. Di fronte a questo tragico incendio, un’immensa emozione ha scosso il mondo intero, ma si trattava solo di una cattedrale di pietra. Oggi, è la Casa d’Oro, l’Arca dell’Alleanza, la Porta del Cielo, come cantano le litanie della Vergine Maria, a essere privata del titolo di Corredentrice.

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Un’emozione ancora più intensa si impadronisce dell’intera cristianità, sconvolta nel vedere che questa detronizzazione è opera di un dicastero romano incaricato di insegnare la fede nella sua integrità e completezza.

 

Ieri Notre-Dame è stata incendiata. Ma la cattedrale è stata ricostruita pietra su pietra; i discendenti dei costruttori medievali si sono alternati giorno dopo giorno, con infinita pazienza e notevole abilità. Ancora una volta, la Madonna protegge Parigi con il suo manto materno. È lì, in piedi. Stabat Mater.

 

Oggi, la Madonna, Corredentrice, è spogliata. Ma la pietà filiale dei cattolici restituirà onore alla Beata Vergine, con tutti i suoi titoli, attraverso la recita fervente del Rosario e delle sue litanie. La fermezza dei costruttori si opporrà all’empietà dei demolitori.

 

Con questa incrollabile certezza, i documenti degli attuali dicasteri passeranno, e anche i loro autori. La Madonna rimarrà Corredentrice, ai piedi della Croce. Stabat Mater .

 

Don Alain Lorans

FSSPX

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

 

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Immaine di Olivier Mabelly via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0


 

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Spirito

Il Vaticano rifiuta di formulare un «giudizio definitivo» sulle donne diacono

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Una commissione vaticana ha negato la possibilità di un «diaconato femminile» sacramentale, ma senza esprimere un «giudizio definitivo».   A dicembre, il Vaticano ha pubblicato il rapporto della Commissione Petrocchi, presieduta dal cardinale Giuseppe Petrocchi, che ha escluso l’ammissione delle donne al diaconato come grado sacramentale degli Ordini sacri, ma ha suggerito che potrebbe essere possibile una forma di «diaconato femminile».   «Lo status quaestionis intorno alla ricerca storica e all’indagine teologica, considerati nelle loro mutue implicazioni, esclude la possibilità di procedere nella direzione dell’ammissione delle donne al diaconato inteso come grado del sacramento dell’ordine», ha affermato la commissione. «Alla luce della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero ecclesiastico, questa valutazione è forte, sebbene essa non permetta ad oggi di formulare un giudizio definitivo, come nel caso dell’ordinazione sacerdotale».   La commissione è stata istituita nel 2021 da papa Francesco per esaminare la possibilità che le donne vengano ordinate diacono. Il rapporto finale di sette pagine della commissione è stato presentato il 18 settembre a Papa Leone XIV ed è stato ora pubblicato pubblicamente dal Vaticano.

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All’interno della commissione, alcuni sostenevano che impedire alle donne di essere ordinate diaconesse minasse la «l’uguale dignità di entrambi i generi, basata su questo dato biblico» e la dichiarazione per cui «non c’è più giudeo e greco, schiavo e libero, maschio e femmina, perché tutti voi siete “uno” in Cristo Gesù (Galati 3,28)».   Questo gruppo ha espresso la speranza che le donne possano diventare diaconesse, poiché sosteneva che l’ordinazione di un diacono è per il ministero e non per il sacerdozio.   Tuttavia, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica , il diaconato è uno dei tre gradi dell’Ordine Sacro, non solo un ministero o una funzione.   Alcuni membri della commissione lo hanno sottolineato e hanno insistito «sull’unità del sacramento dell’Ordine, insieme al significato nuziale dei tre gradi che lo costituiscono». Questo gruppo ha respinto l’ipotesi di un «diaconato femminile», osservando «se fosse approvata l’ammissione delle donne al primo grado dell’ordine risulterebbe inspiegabile la esclusione dagli altri».   Il gruppo ortodosso ha inoltre sottolineato che «La mascolinità di Cristo, e quindi la mascolinità di coloro che ricevono l’ordine, non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo. Alterare questa realtà non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero ma una rottura del significato nuziale della salvezza».   Questa tesi è stata votata dalla commissione ma non è stata approvata poiché ha ricevuto cinque voti a favore e cinque contrari. Allo stesso tempo, mentre la commissione si è pronunciata contro l’ordinazione delle donne come diaconi, i membri hanno votato 9 a 1 a favore dell’ampliamento del ruolo delle donne nella Chiesa.   La Commissione ha espresso l’auspicio che venga ampliato «l’accesso delle donne ai ministeri istituiti per il servizio della comunità (…) assicurando così anche un adeguato riconoscimento ecclesiale alla diaconia dei battezzati, in particolare delle donne. Questo riconoscimento risulterà un segno profetico specie laddove le donne patiscono ancora situazioni di discriminazione di genere».   In conclusione, la Commissione Petrocchi ha chiesto di proseguire l’esame del ruolo del diaconato «sull’identità sacramentale e sulla sua missione ecclesiale, chiarendo alcuni aspetti strutturali e pastorali che attualmente non risultano interamente definiti».

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Come riportato da Renovatio 21, cinque mesi fa si notò l’insistenza del cardinale progressista Gualtiero Kasper che arrivò a definire le diaconesse come «utili dal punto di vista pastorale». Contestualmente era emersa la sollecitudine del vescovo tedesco Franz-Josef Overbeck ha chiesto una «nuova risposta» per il ruolo delle donne nella Chiesa, aggiungendo di aver incaricato le donne nella sua diocesi di «predicare» e fornire «guida» ai fedeli come un modo per affrontare le lotte per adempiere ai doveri dei sacerdoti. L’anno passato il prefetto per il Dicastero della Dottrina della Fede Victor Manuel «Tucho» Fernandez dichiarò che, nonostante l’opposizione esplicitata da lui stesso, la questione delle diaconesse non era chiusa.   Nel frattempo, gli insegnamenti della Chiesa cattolica riservano la vocazione al sacerdozio agli «uomini battezzati». Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1577) spiega:   «Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile [“vir“]. Il Signore Gesù ha scelto uomini [“viri“] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile».   Renovatio 21 ribadisce la sua analisi secondo cui che l’attuale via scelta dal Vaticano per scardinare gerarchia cattolica – e sessualità naturale – non passa per il sacerdozio femminile (reso sempre più improbabile anche da episodi come quello delle recenti «ordinazioni» di donne sul Tevere), ma attraverso l’accettazione del transessualismo.

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Immagine di Chiesadilaquila via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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