Geopolitica
Tensioni etniche in Kazakistan
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews.
Dopo i cittadini di origine russa, i nazionalisti kazaki prendono di mira quelli turcofoni. Scontri con uiguri e dungani. Il governo minimizza e invita la popolazione alla concordia nazionale. La povertà spinge le minoranze nelle periferie cittadine, dove cresce la tensione sociale.
Non si era ancora spenta la polemica per le posizioni anti-russe del blogger kazako Kuat Akhmetov, che altri nazionalisti kazaki si sono attivati anche nei confronti di persone di etnia diversa, come gli uiguri. Akhmetov ha organizzato «pattuglie linguistiche» nei supermercati obbligando le persone a scusarsi per l’uso della lingua russa.
Dopo gli scontri a Pidžim di fine ottobre, nella regione di Almaty, con una maxi-rissa tra kazaki e uiguri locali, negli ultimi giorni si moltiplicano su varie piattaforme gli appelli nazionalisti contro i turcofoni.
Gli uiguri in Kazakistan sono circa 275mila, l’1,5% dell’intera popolazione, e l’ostilità nei loro confronti non è una novità. Eppure le autorità continuano a negare il problema, ripetendo che «la tolleranza e la concordia interetnica sono le più grandi conquiste della nostra nazione».
Il blogger Akhmetov ha organizzato «pattuglie linguistiche» nei supermercati obbligando le persone a scusarsi per l’uso della lingua russa
Già l’anno scorso erano avvenuti tragici scontri nella provincia di Kordaj, regione di Žambyl, tra kazaki e i dungani. All’assalto delle case della minoranza turcofona si erano scagliate oltre mille persone: il bilancio era stato di 11 morti, 18 feriti gravi e varie devastazioni in negozi e abitazioni; oltre 20mila dungani sono fuggiti poi in Kirghizistan.
Altri contrasti si sono avuti tra kazaki e uzbeki, e anche con curdi, lezgini, avari, darguini, tagiki e i ceceni.
Il tentativo da parte del governo di minimizzare questi episodi, classificati come «teppismo» e «violenza di strada» non fa altro che acuire il problema.
Da molte parti si chiede di punire con leggi severe il nazionalismo etnico, limitando le pretese dei kazaki di assimilare gli altri popoli alla loro maggioranza «costitutiva dello Stato», come viene spesso declamata.
Alle tensioni molto contribuisce la situazione sociale ed economica sempre più difficile, soprattutto dopo due anni di restrizioni pandemiche. Nelle periferie delle città kazake si ammassano molti gruppi di minoranze etniche, che accettano i lavori più umili, soprattutto nell’agricoltura.
Già l’anno scorso erano avvenuti tragici scontri: il bilancio era stato di 11 morti, 18 feriti gravi e varie devastazioni in negozi e abitazioni; oltre 20mila dungani sono fuggiti poi in Kirghizistan.
Il presidente Kasym-Žomart Tokaev ha espresso di recente la sua contrarietà ai «quartieri etnici» che si trasformano in ghetti isolazionisti. Intervenendo all’Assemblea dei popoli del Kazakistan, dove sono rappresentati 125 diversi gruppi etnici presenti sul territorio, egli ha dichiarato che i ghetti «conducono alla crescita della tensione interetnica e dei conflitti».
Molti si chiedono come sia possibile superare le divisioni attuali, se con una politica di riassegnazione urbanistica, creando nuovi equilibri a livello territoriale, o al contrario assegnare zone più ampie alle varie minoranze, creando dei «cantoni linguistici» sul modello della Svizzera.
Per trovare le soluzioni, secondo diversi commentatori, sarebbe necessario un confronto più aperto e democratico, e non solo gli appelli dall’alto alla «amicizia tra i popoli» di sovietica memoria.
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Immagine di Altaihunters via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)
Geopolitica
Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati
Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.
In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».
Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.
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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.
Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.
L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.
«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».
Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».
Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.
«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.
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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato
Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.
L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.
Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.
Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.
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Geopolitica
Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine
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Geopolitica
L’Iran minaccia ancora una volta di spazzare via Israele
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha minacciato Israele di annientamento se tentasse di attaccare nuovamente l’Iran.
Raisi è arrivato in Pakistan lunedì per una visita di tre giorni. Martedì ha parlato delle recenti tensioni tra Teheran e Gerusalemme Ovest in un evento nel Punjab.
«Se il regime sionista commette ancora una volta un errore e attacca la terra sacra dell’Iran, la situazione sarà diversa, e non è chiaro se rimarrà qualcosa di questo regime», ha detto Raisi all’agenzia di stampa statale IRNA.
Israele non ha mai riconosciuto ufficialmente un attacco aereo del 1° aprile sul consolato iraniano a Damasco, in Siria, che ha ucciso sette alti ufficiali della Forza Quds del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Teheran ha tuttavia reagito il 13 aprile, lanciando decine di droni e missili contro diversi obiettivi in Israele.
L’Iran si è scrollato di dosso una serie di esplosioni segnalate vicino alla città di Isfahan lo scorso venerdì, che si diceva fossero una risposta da parte di Israele. Lo Stato degli ebrei non ha riconosciuto l’attacco denunciato, pur criticando un ministro del governo che ne ha parlato a sproposito. Teheran ha scelto di ignorarlo piuttosto che attuare la rapida e severa rappresaglia promessa.
La Repubblica Islamica ha promesso in più occasioni di spazzare via, distruggere o annientare il «regime sionista», espressione con cui spesso chiama Israele.
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Martedì, parlando a Lahore, il Raisi ha promesso di continuare a «sostenere onorevolmente la resistenza palestinese», denunciando gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo come «i più grandi violatori dei diritti umani», sottolineando il loro sostegno al «genocidio» israeliano a Gaza.
Nel suo viaggio diplomatico il Raisi ha promesso di incrementare il commercio iraniano con il Pakistan portandolo a 10 miliardi di dollari all’anno. Le relazioni tra i due vicini sono difficili da gennaio, quando Iran e Pakistan hanno scambiato attacchi aerei e droni mirati a “campi terroristici” nei rispettivi territori.
Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi giorni Teheran ha dichiarato pubblicamente di sapere dove sono nascoste le atomiche israeliane. Nelle scorse settimane lo Stato Ebraico aveva dichiarato di essere pronto ad attaccare i siti nucleari iraniani.
Negli ultimi mesi l’Iran ha accusato Israele di aver fatto saltare i suoi gasdotti. Hacker legati ad Israele avrebbero rivendicato un ulteriore attacco informatico al sistema di distribuzione delle benzine in Iran.
Sei mesi fa l’Iran ha arrestato e giustiziato tre sospetti agenti del Mossad. All’ONU il ministro degli Esteri iraniano aveva dichiaato che gli USA «non saranno risparmiati» in caso di escalation.
Come riportato da Renovatio 21, anche da Israele a novembre 2023 erano partite minacce secondo le quali l’Iran potrebbe essere «cancellato dalla faccia della terra».
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Immagine di duma.gov.ru via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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