Politica
Sarkozy condannato a cinque anni dopo il processo sui fondi libici

L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è stato condannato a cinque anni di carcere da un tribunale di Parigi per associazione a delinquere volta a finanziare la sua campagna elettorale con fondi del defunto leader libico Muammar Gheddafi. Si tratta della prima volta nella storia moderna della Francia che un ex capo di Stato viene incarcerato.
Giovedì i giudici hanno stabilito che Sarkozy, presidente dal 2007 al 2012, ha ricevuto pagamenti segreti da Gheddafi per la campagna presidenziale del 2007, ordinandogli di iniziare a scontare la pena anche in caso di ricorso.
Il caso è emerso nel 2011, durante la guerra che devastò la Libia, quando Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, dichiarò che suo padre aveva donato circa 50 milioni di euro alla campagna di Sarkozy.
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All’epoca, Sarkozy era in prima linea nella guerra per il cambio di regime in Libia, sostenuta dalla NATO, che culminò nell’assassinio di Gheddafi nell’ottobre 2011. Iniziata dopo la sua apparizione a Bengasi a sostegno dei ribelli, la guerra portò migliaia di jihadisti in Libia, impose una no-fly zone, devastò l’economia del paese e aprì un «corridoio di miseria» per i migranti verso l’Europa meridionale.
Nel 2012, l’imprenditore libanese Ziad Takieddine affermò di aver trasportato 5 milioni di euro da Tripoli a Parigi nel 2006, salvo poi ritrattare. La polizia francese aprì un’indagine formale nel 2013.
Secondo gli inquirenti, mentre era ministro degli Interni, Sarkozy avrebbe negoziato con Gheddafi fondi per la campagna in cambio della reintegrazione della Libia nella politica internazionale, un progetto che coinvolgeva anche l’ex premier britannico Tony Blair.
Il tribunale ha condannato Sarkozy, che ha respinto le accuse come un «complotto» politico orchestrato dal «clan Gheddafi» fatto di «bugiardi e truffatori», per cospirazione, ma lo ha assolto dalle accuse di corruzione passiva, finanziamento illecito della campagna e occultamento di appropriazione indebita.
La corte ha stabilito che la cospirazione avvenne tra il 2005 e il 2007, prima dell’immunità presidenziale.
A dicembre 2024, la Corte Suprema francese ha confermato una condanna del 2021 per corruzione e traffico di influenze, imponendo a Sarkozy un dispositivo elettronico per un anno. È stato anche condannato per finanziamento illecito della campagna per la rielezione fallita del 2012, scontando la pena agli arresti domiciliari.
Come riportato da Renovatio 21, all’inizio del 2025 gli era stata revocata la Legion d’Onore. In Italia alcuni hanno scherzato dicendo che ora «Sarkozy non ride più», un diretto riferimento a quando una sua risata fatta con sguardo complice ad Angela Merkel precedette le dimissioni del premier Silvio Berlusconi nel 2011 e l’installazione in Italia (sotto la ridicola minaccia dello «spread») dell’eurotecnocrate bocconiano Mario Monti.
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Poco dopo, incidentalmente, fecero fuori Gheddafi in un intervento militare a forte trazione francese.
Nell’affaire Gheddafi finì accusata di «falsificazione di testimonianze» e «associazione a delinquere allo scopo di preparare una frode processuale e corruzione del personale giudiziario» anche la moglie del Sarkozy, l’algida ex modella torinese Carla Bruni, la quale, presentatole il presidente dall’amico comune Jacques Séguela (pubblicitario autore delle campagne di Mitterand e Eltsin) secondo la leggenda avrebbe confidato «voglio un uomo dotato della bomba atomica».
Sarkozy ha servito un solo mandato, perdendo la sua rielezione a favore di Francois Hollande nel 2012. Ha trascorso gran parte del suo periodo post-presidenziale coinvolto in scandali legali ed è stato condannato per violazioni del finanziamento della campagna elettorale e traffico di influenze in due casi separati nel 2021.
Come riportato da Renovatio 21, allo scoppio della guerra Sarkozy dichiarò che gli USA stavano usando l’Ucraina per indebolire l’UE.
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Immagine di Guillaume Paumier via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.5 Generic
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Politica
Trump ordina il ripristino della pena di morte a Washington

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che autorizza il ripristino della pena di morte per omicidio nella capitale Washington sostenendo che ciò contribuirebbe a ridurre la violenza nella capitale del Paese.
L’ordinanza ordina al procuratore generale degli Stati Uniti Pamela Bondi e al procuratore degli Stati Uniti per il distretto di Columbia Jeanine Pirro di «implementare pienamente» la pena capitale nei casi supportati dalle prove.
Trump ha annunciato la decisione durante una cerimonia di firma alla Casa Bianca, affiancato da Bondi, dal vicepresidente JD Vance, dal direttore dell’FBI Kash Patel e altri.
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«Pena di morte a Washington», ha dichiarato Trump mentre firmava la direttiva. «Se uccidi qualcuno, o un agente di polizia, un membro delle forze dell’ordine, pena di morte. E speriamo che non ce ne sia bisogno. Abbiamo avuto settimane senza omicidi».
Il segretario della Casa Bianca Will Scharf ha definito la pena capitale «uno dei deterrenti più potenti contro i crimini violenti» e ha affermato che l’iniziativa rientra negli sforzi di Trump per rendere Washington «una città sicura per i suoi residenti e per i visitatori».
La misura segue la dura repressione della criminalità avviata da Trump nella capitale. Ad agosto, ha invocato l’Home Rule Act del 1973 per dichiarare un’emergenza di sicurezza pubblica, ponendo il Dipartimento di Polizia Metropolitana sotto controllo federale e schierando centinaia di soldati della Guardia Nazionale a supporto delle forze dell’ordine locali.
La pena di morte non è più legale a Washington dalla decisione della Corte Suprema del 1972 che ha invalidato le leggi sulla pena capitale a livello nazionale. I residenti della città ne hanno respinto il ripristino con un referendum nel 1992. Sebbene il governo federale possa ancora richiedere la pena di morte in determinati casi, si prevede che l’iniziativa di Trump di estenderne l’uso ai procedimenti per omicidio a Washington incontrerà ostacoli legali e politici.
Attualmente, 27 stati americani consentono le esecuzioni, mentre 23 le hanno abolite. Trump ha a lungo sostenuto un uso più ampio della pena capitale come deterrente contro i crimini violenti.
Come riportato da Renovatio 21, di recente Trump aveva chiesto la pena di morte per gli assassini della ragazza ucraina Iryna Zarutska e dell’attivista conservatore Charlie Kirk.
La pena di morte negli Stati Uniti rimane uno dei dibattiti più accesi e divisivi della società americana, un retaggio di un sistema penale che, dal 1976, ha portato all’esecuzione di oltre 1600 persone, tutte per reati gravissimi come l’omicidio aggravato.
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Attualmente, la pena capitale è legale in 27 Stati su 50, oltre che a livello federale e militare, ma con significative restrizioni: sei di questi – California, Oregon, Pennsylvania, Ohio, Tennessee e Washington – hanno moratorie in corso, imposte da governatori o corti, riducendo gli Stati attivi a circa 21.
Nel 2025, anno segnato da un ritorno all’espansione federale sotto l’amministrazione Trump, che ha revocato la moratoria di Biden con un ordine esecutivo a gennaio, si contano già 30 esecuzioni, un numero in lieve aumento rispetto agli anni precedenti, con Florida in testa per record di condanne portate a termine.
Il metodo dominante, utilizzato in 25 casi quest’anno, è l’iniezione letale, un cocktail di farmaci somministrato per via endovenosa che induce prima un coma profondo e poi l’arresto cardiaco, considerato il più «umano» dalla Corte Suprema, anche se criticato per iniezioni mal eseguite che causano sofferenza prolungata. Tuttavia, le variazioni statali riflettono una patchwork di tradizioni e innovazioni, spesso nate da difficoltà nel reperire i farmaci per l’iniezione, dovute a boicottaggi etici delle case farmaceutiche.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
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