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Renovatio 21 recensisce la serie documentaria Allen vs Farrow

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Sull’onda delle nuove rivelazioni sulla frequentazione tra Woody Allen e Jeffrey Epstein (ma cosa potranno mai avere in comune, quei due?) Renovatio 21 ripropone un articolo apparso sul sito Mondoserie riguardo a Allen vs Farrow, serie documentaria sullo scandalo accaduto tra i due, con Allen accusato di molestie alla figlia piccola Dylan e poi la scoperta del rapporto con un’altra figlia della sua fidanzata Farrow, Soon-Yi, che diventerà infine sua moglie in una cerimonia celebrata a Venezia da Massimo Cacciari. È una storia che contiene molte cose, spesso sconcertanti.

 

 

HBO può considerarsi, più che un canale TV, una Finestra di Overton permanente. La Finestra di Overton è quel sistema, studiato dalla politica americana, con il quale si prende un’idea impensabile e la si rende, dopo vari passaggi («radicale», «accettabile», «sensibile», «popolare»…) la si rende legalizzata.

 

HBO ha overtonizzato l’immaginario e l’audiovisivo per decenni, ormai. 

 

I Sopranos fu forse il primo show TV di prima serata a mostrare zizze di prostitute a profusione, violenze inaudite, situazioni moralmente ripugnanti. Di lì si passò al sesso coi vampiri (True Blood) e alle porcherie del Trono di Spade, dove al termine del primo episodio un bambino è gettato da una torre da un tizio che si accoppia con la sua stessa sorella.

 

Un giovane regista italiano di stanza Los Angeles ci fece un corto satirico, dove gli aspiranti attori, davanti a copioni di infinita sozzeria, si ripetono catarticamente «It’s not porn, it’s HBO».

 

 

Qualcuno arrivò a dire che sui set HBO avviene l’opposto di quanto è successo per più di un secolo di settima arte: i cineasti vogliono osare con scene di sesso e violenza, la produzione nega e al massimo taglia. Maddeché: qui è la produzione che impone il piede a tavoletta. Considerando la quantità di serie sfornate ogni anno, ora anche con lo streaming di HBO Max, un tale sistema non può che diventare una sorta di divoratore di tabù.

 

Ci sarebbe il tabù dei tabù – ma in verità non sappiamo nemmeno se sia l’ultimo. Ci sarebbe quella cosa, là, di cui tratta la tragedia di Edipo e, secondo Jung, la storia di Elettra, ma forse ambedue si configurano più come il racconto di Crono che ingolla la sua prole… Perché il tabù edipico, a differenza che nell’antica Grecia, può anche combinarsi con l’orrore più grande che martella l’opinione pubblica a cavallo tra XX e XXI secolo: la pedofilia.

 

Ecco, HBO sta facendo un suo percorso di avvicinamento (overtoniano, sì) anche a questo tema. Laddove l’audiovisivo in casi estremamente rari è riuscito a spingersi, HBO plana forte di talenti e di milioni di dollari per le produzioni – e per gli avvocati.

 

Il primo caso, dove la parola «pedofilo» era pronunziata solo all’ultimo minuto, fu la miniserie Leaving Neverland, dove parlavano le presunte vittime infantili di Michael Jackson. Uno spettacolo straziante, con effetti devastanti su tutto l’immaginario mondiale – Michael Jackson, diceva il sociologo francese Jean Baudrillard, era così amato perché rappresentava l’umanità ventura, né maschio né femmina, né nero né bianco… la caratteristica che si aggiunge ora rende il ritratto definitivamente inquietante. Ne parleremo forse in un altro articolo. 

 

Il caso più conclamato è Allen v. Farrow, docuserie uscita a febbraio 2021 (in Italia vista su Sky) realizzata da Kirby Dick (nominato più volte all’oscar per i suoi documentari) e Amy Ziering, già studentessa californiana del filosofo Jacques Derrida, cui ha dedicato un documentario nel 2002.

 

 

I quattro episodi esplorano un’accusa di abuso sessuale fatta contro Woody Allen nel 1992. Perché quello che lo spettatore non sa, in ispecie fuori dagli USA, è che la storia di Woody Allen che sposa sua figlia adottiva, la coreana Soon-Yi (sposata qualche anno dopo a Venezia in una cerimonia officiata dal sindaco Massimo Cacciari) è solo la punta dell’iceberg dello scandalo che lo travolse. Anzi, qualcuno maligna: è uno schermo per un’accusa ben peggiore…

 

Allen ha rifiutato di partecipare alla serie, che quindi si basa interamente sulla generosità di Mia Farrow e famiglia.

 

Entriamo nella loro casa in Connecticut, una meravigliosa casa di campagna davanti ad un laghetto, una sorta di paradiso che pare una dacia di felicità estiva come in certi romanzi russi, tanto amati da Woody, che da fidanzato di Mia viene immerso in questo eden multirazziale di bambini.

 

Certo, la Farrow è un personaggio non semplice: arriva al successo giovanissima, sposa Frank Sinatra che nemmeno ha venti anni, poi fa figli con il direttore d’orchestra Previn, quindi comincia ad adottarne una discreta quantità da ogni parte del mondo – arriverà alla cifra incredibile di 14 figli, e non tutte le loro storie sono belle. C’è da dire che viene da una bella famiglia in cui i figli erano sette.

 

In particolare, si tratta di Dylan Farrow. La bambina, adottata in Texas, aveva 7 anni. Woody, viene detto, sviluppa un incredibile attaccamento nei suoi confronti, al punto che si parla anche di visite dallo psicologo.  Insieme a Mia e Dylan Farrow, al figlio biologico di Allen e Farrow Ronan Farrow – l’iniziatore del #MeToo – e alla cantante pop amica di famiglia Carly Simon, compaiono nella serie, esperti, pubblici ministeri e investigatori.

 

 

Alcuni danno ragguagli abbastanza sensati: chi ha dato un’occhiata alle carte donate da Woody Allen all’Università di Princeton – cioè, a tutti i suoi dattiloscritti con correzioni a mano – non può non notare che una certa tendenza verso le ragazze giovanissime c’è… E in effetti, se pensate a Manhattan, Mariti e mogli (tutti usciti prima dello scandalo del 1992 (proprio di quella è la storia del film. La serie è riuscita a scovare poi un’attrice che sostiene di essere stata «romanticamente coinvolta» con Allen quando lei aveva ancora 17 anni.

 

Tuttavia con Dylan la storia è diversa: la bambina, ha 7 anni, non 17. La bimba la preferita da Woody che arrivò ad adottarla, denuncia abusi. Da lì partirà la lotta della Farrow contro Allen, e dopo 30 anni secchi, oramai, l’ira sua e di alcuni suoi figli non è ancora placata. O forse, più che di ira, dobbiamo parlare di traumi.

 

Il fatto è che con questa serie sono emersi elementi che rendono davvero difficile parteggiare per Allen – e infatti, molti dei suoi attori lo hanno ripudiato, così come è svanito il suo contratto per una serie su Amazon Prime.

 

Il primo documento, è la video-intervista registrata dalla Farrow appena successo il fatto. L’attrice aveva la mania degli home-movies, e di fatto per la serie la quantità di cassette messe a disposizione è una manna. Fece raccontare a Dylan quello che le fece Woody quando erano rimasti soli nel solaio.

 

Il video fu contestato dal partito di Allen, che sostiene che girare un video a caldo se si crede a un tale trauma sia innaturale. Una giovane giornalista del New York Times, Amanda Hess, divenuta madre di recente, ha scritto che questa accusa di non-maternità non regge. Dice che, invece, specie in era di smartphone, è il non fare foto alla prole che è considerato come segno di mancata maternità.

 

Il secondo documento rivelatore, che abbiamo se possibile trovato ancora più disturbante, riguarda le registrazioni telefoniche delle telefonate che comunque intercorrevano tra Allen e la Farrow.

 

«Se mi è rimasto un briciolo di fiducia in te, allora aiutami ora: dimmi dov’eri per quei 20 minuti», dice la Farrow, riferendosi al giorno in cui Allen avrebbe abusato di Dylan, quando la casa era piena di familiari e amici, ma nessuno sapeva dove fossero Allen o Dylan per una ventina di minuti. 

 

«Tutti i dettagli quando sarà il momento e la verità verrà fuori», risponde Allen. Non è chiaro cosa significhi. Tuttavia, ad un certo punto, lui le assicura che non sta registrando la telefonata, che si deve fidare di lui, e lei pare cascarci. Poi lo si sente invece parlare presumibilmente con l’avvocato e comunicare che, tranquillo, sta registrando tutto.

 

Ecco qualcosa che il documentario ci fa scoprire: Allen, a differenza di come lo si percepisce nei film, e soprattutto in Europa, è potente. Non è solo «la quintessenza di New York» come è detto in un episodio; no, conosce persone, ha influenza, e tanto, tanto danaro. Solo questo ribaltamento – Woody non è il geniale sfigato con cui ridiamo in Zelig, Io e Annie, o ne Il dittatore dello Stato libero di Bananas – vale la visione della serie.

 

Anzi: avendo scavato in questo orrore, si può sentire cambiare il senso di alcuni lavori di Allen, come il suo capolavoro, Match Point. I tuoi crimini ti inseguiranno erinnicamente? Oppure riuscirai a vivere tranquillo in una cornice familiare apparentemente perfetta, semplicemente ignorando il passato e la sua abiezione?

 

Alcune testate hanno criticato l’opera perché presenta solo la versione dei Farrow. Allen ha denunciato la produzione perché sono stati usati brani della sua recente autobiografia A proposito di niente. I realizzatori si sono appellati alla dottrina del Fair Use., l’uso di contenuti coperti da copyright per scopo giornalistico. Pare un tentativo disperato di dare fastidio, tramite cavilli e avvocati costosi.

 

Nel frattempo gli attori hollywoodiani, che sceglieva a piacere, si sono tutti dileguati, o addirittura hanno intonato mea culpa per aver lavorato con il comico ebreo. Qualcuno tuttavia ancora prova a difendere Woody: il contrarian Alec Baldwin e il presentatore (HBO, peraltro) Bill Maher.

 

Per Allen, una carriera a dipingersi come un genio bonario, è una sorta di Crepuscolo degli Dei. Però, aspetta, quello era Wagner, il cui ascolto – una delle sue più celebri battute… – andava ad Allen l’impulso di invadere la Polonia.

 

 

Qui sono in gioco impulsi persino peggiori. Cadono tante maschere, di questi tempi.

 

E dove c’è qualcosa che si denuda, c’è HBO.

 

Immagine di David Shankbone via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported (CC BY 3.0); immagine tagliata.

 

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L’Ungheria celebra un millennio di cristianesimo con una croce gigante fatta di droni nel cielo

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L’Ungheria ha celebrato la sua eredità cristiana nel giorno di Santo Stefano con fuochi d’artificio e una croce gigante formata nel cielo dai droni. Lo riporta LifeSite.

 

Il 20 agosto, l’Ungheria ha celebrato la sua festa nazionale, la festa di Santo Stefano I, il primo re d’Ungheria. Durante i festeggiamenti, droni luminosi hanno formato una croce gigante sopra il Danubio, vicino al palazzo del Parlamento.

 

Il ministro degli Affari Esteri e del Commercio Peter Szijjarto ha condiviso un’immagine della croce galleggiante con la didascalia «Altri mille anni», in riferimento al fatto che l’Ungheria è una nazione cristiana da un millennio.

 

Lo spettacolo prevedeva anche fuochi d’artificio, una banda musicale e una processione con le reliquie di Santo Stefano.

 

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«Nel giorno di Santo Stefano celebriamo il nostro millenario Stato cristiano ungherese, fondamento della nostra nazione, pilastro dell’Europa cristiana», ha scritto il premier Vittorio Orban su X. «Orgogliosi di portare avanti questa eredità di fede, forza e indipendenza».

 


Durante il suo primo mandato da primo ministro (1998-2002), l’Orban ha avuto un ruolo chiave nello spostamento della corona di Santo Stefano da un museo al centro del palazzo del Parlamento, un atto simbolico che ha sottolineato l’importanza del patrimonio cristiano dell’Ungheria.

 

«Oggi, 20 agosto, festa di Santo Stefano: celebrazioni in tutto il mondo, ovunque si trovino gli ungheresi», ha affermato l’ambasciatore ungherese presso la Santa Sede, Sua Altezza Imperiale arciduca Edoardo d’Asburgo-Lorena.

 


«Celebriamo oltre 1.000 anni di nazione cristiana» ha scritto SAR.

 

Le immagini dello spettacolo a Budapest sono impressionanti, monumentali in un senso epico e moderno al contempo.

 

 

 

 

 

L’Ungheria ha organizzato uno spettacolo di luci simile il giorno di Santo Stefano degli anni passati, quando i droni hanno pure formato una gigantesca croce fluttuante e una gigantesca corona.

 

 

 

Durante il regime sovietico, la festa di Santo Stefano fu soppressa. Il regime comunista scelse deliberatamente il 20 agosto 1949 come giorno per ratificare la nuova costituzione stalinista, in un apparente tentativo di sostituire la festa e promuovere il comunismo ateo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989, i 40 anni di occupazione comunista dell’Ungheria terminarono e la festa di Santo Stefano divenne la nuova festa nazionale ungherese.

 

Re Santo Stefano I fu un fervente cattolico e il primo re cristiano d’Ungheria. Papa Silvestro II lo incoronò nell’anno 1000. Morì il giorno dell’Assunzione del 1038 e, sul letto di morte, dedicò il paese a Maria. Lui e suo figlio Emerico furono canonizzati da Papa San Gregorio VII nel 1083.

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«Il gender ha ampiamente pieno possesso dell’opera lirica»

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«Il gender ha ampiamente pieno possesso dell’opera lirica» è quanto scrive Pierluigi Panza su Il Fatto d’arte in un articolo che parla della tendenza in auge nei teatri e nei festival musicali, anche prestigiosi. «Del resto, l’opera è un suo territorio naturale poiché da sempre popolato di castrati, ruoli en-travesti, donne travestite da uomini e viceversa».   Nel Novecento, per convenzione, i ruoli originariamente destinati ai castrati sono stati interpretati da donne con voci da mezzosoprano o contralto en-travesti, spiega il critico. Di conseguenza, le voci tradizionalmente presenti sui palcoscenici mondiali sono state quelle di soprano, mezzosoprano e contralto per le donne, e di basso, baritono e tenore per gli uomini.   Negli ultimi anni, però, si è affermata la voce del controtenore tra gli uomini, inizialmente utilizzata principalmente per ricoprire i ruoli scritti per i castrati. Quello che sembrava un capriccio più che una necessità si è rapidamente trasformato in una tendenza diffusa, con un impatto sorprendente e inaspettato.   «Lo vediamo attualmente nel Festival di Salisburgo, dove in giorni successivi sono state messe in scena Drei Schwestern (le Tre sorelle da Anton Cehov) di Eötvös, Giulio Cesare in Egitto di Haendel e Hotel Metamorphosis, un pastiche su musiche di Vivaldi» racconta il Panza. Nella riformulazione di Tre sorelle, il compositore ha fatto la scelta di affidare tutte le parti femminili a «voci maschili, scelta legata al teatro kabuki che è privo di connotazioni maschili o femminili».

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«Una proposta del genere non può che piacere negli odierni tempi fluidi; così le tre sorelle sono state messe in scena con tre bei marcantoni» scrive il critico che avverte che anche il ruolo del soprano è ora insidiato dal genderimo: «la rivoluzione gender non si è fermata al trionfo diffusionale dei controtenori – quasi ricercate star come lo furono i castrati –, ma ha esteso ai maschi la voce da soprano».   «Così avviene nel Giulio Cesare in Egitto sempre in scena al Festival di Salisburgo. Qui il ruolo del romano Sesto è scritto da Haendel per un soprano o per un contralto castrato, cioè per una donna o per un castrato. A interpretarlo a Salisburgo è Federico Fiorio, un soprano veronese. E via con il resto dei ruoli: Giulio Cesare, Christophe Dumax, è un controtenore; Tolomeo, Yuriy Mynenko, un controtenore e Nireno, Jake Ingbar, pure lui un controtenore».   «È la moda del gender, bellezza!» conclude il critico d’arte.   Eravamo rimasti all’idea, diffusa dai giornali e dalle psicologhe invitate nelle scuole elementari cattoliche, che la teoria del gender non esiste. E invece, il gender è all’opera.

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Gli Oasis contro le «lesbiche atee di sinistra»

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Il chitarrista e cantante degli Oasis, Noel Gallagher, durante il concerto del 30 luglio allo stadio di Wimbledon, tra due canzoni ha fatto una domanda particolare al suo pubblico di migliaia di persone

 

«Ci sono lesbiche atee di sinistra?» ha domandato il musicista mancuniano con la chitarra a tracolla. «Potete alzare la mano, per favore?».

 

«Nemmeno una» prosegue il Gallagher, infilandoci dentro la classica parolaccia anglofona con la «f». «Che razza di cultura siamo diventati, eh? Che disgrazia».

 

«La prossima canzona è per le lesbiche atee» dice il Noele. Il pubblico ride, lui parte con una canzone, Where Did It All Go Wrong? (2000).

 

 

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Il Gallagher stava prendendo in giro una comica progressista che sosteneva che gli Oasis fossero la ragione per cui nessuno si presentava ai suoi spettacoli.

 

Kate Smurthwaite si descrive come una «comica, scrittrice, attivista». Il pubblico britannico la ricorda per svariate clip sulla guerra culturale risalenti a quasi un decennio fa, in cui difendeva il femminismo, il politicamente corretto e altro ancora, spesso venendo presa in giro. Un sito di stand up comedy la descrive nella sua pagina di biografia come «una comica e attivista di sinistra, femminista, atea e poliamorosa».

 

La scorsa settimana la Smurthwaite si è cimentata nella parte di stand-up comedy della sua carriera al Fringe Festival di Edimburgo e sfortunatamente il suo spettacolo ha coinciso con un concerto degli Oasis durante la tappa del tour di ritorno della band in Scozia.

 

Mercoledì scorso, la comica lesbica ha pubblicato un video da un locale in cui si vedeva una sala vuota 25 minuti dopo l’inizio previsto del suo spettacolo.

 

 

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«Questo è l’effetto Oasis», ha affermato. «Grandi gruppi di persone con magliette degli Oasis non sono interessati al mio spettacolo né a quello di nessun altro».

 

In un video successivo in cui si vedono folti peli protudere imperiosamente dalle sue ascelle, la Smurthwaite si è lamentata del fatto che il concerto degli Oasis non avrebbe dovuto essere programmato contemporaneamente al festival d’arte e che i notiziari hanno «distorto la storia» che circondava le sue affermazioni.

 

 

Ha ampliato la sua lamentela iniziale sul fatto che gli Oasis dovrebbero essere più rispettosi nei confronti degli altri artisti, aggiungendo che la storia era stata «trasformata in qualcosa del tipo: “un’orrenda comica femminista non riesce ad avere un pubblico per il suo spettacolo perché è sveglia, non è divertente, nessuno è interessato, non è brava come gli Oasis, è amareggiata e furiosa”».

 

La Smurthwaita ha affermato che la copertura mediatica stava oscurando questioni più importanti che affliggono la Gran Bretagna, come il «cambiamento climatico» e le «orribili politiche razziste sull’immigrazione».

 

Nel 2021, a ridosso delle elezioni, il Gallagherro si era scagliato contro il Partito Laburista, reo di essere talmente impresentabile da farsi battere dal Partito Conservatore di Boris Johnson.

 

«Boris Johnson è il simbolo di quanto disgraziato sia il Labour Party, perché se quel fottuto uomo e questo Conservative Party hanno vinto di misura contro il Labour Party allora ho paura di cosa dovremmo dire del partito laburista: una fottuta disgrazia» aveva dichiarato il chitarrista intervistato in un podcasto.

 

«Hanno tradito la classe operaia, hanno tradito la cazzo di gente qualunque e hanno permesso a questa fottuta disgrazia di governare il Paese» ha chiosato l’artista mancuniano. «Il Partito Laburista moderno sono stronzi della classe media che odiano la classe operaia, cazzo, la odiano; è tutto qui e questi cazzo di Tories sono tipo: “Noi li patrociniamo allora”. Quando si sono presi tutti i voti a Nord Boris probabilmente è tornato a Londra e ha detto “Bene, che vadano a fanculo”».

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In passato Renovatio 21 non è stata tenere con gli Oasis, riportando della tragedia che nel dicembre 2021 costrinse 60 persone, bloccate da una tempesta di neve, ad ascoltare per tre giorni cover del gruppo: un evento dove, fortunatamente, non si ebbero vittime.

 

«Non è noto quante volte sia stata ripetuta la cover di Wonderwall, e quali altre perle insopportabili dei litigiosi fratelli mancuniani siano state inferte alla popolazione bloccata nella locanda» scriveva questo sito. «Al momento Renovatio 21 non è in grado di affermare se si sia trattato di un nuovo studio di un progetto MK Ultra segretamente rilanciato, una nuova ricerca dei limiti di sopportazione della mente umana posta sotto immenso stress e tortura. Gli Oasis come arma psicologica tuttavia potrebbero funzionare assai».

 

«Si ritiene che agli Oasis sia inoltre possibile imputare un altro immane danno all’umanità, che è la diffusione – in ispecie in Italia – del nome Liam» aggiungevamo non senza allarme ed amarezza.

 

Tuttavia, visti i recenti sviluppi, ci chiediamo: che sia il caso di ricredersi?

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