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Orban denuncia il piano «progressista» per l’Europa di «sostituire il cristianesimo e la nazione»

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Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha criticato il piano «progressista» per l’Europa, definendolo un piano che mira a «sostituire il cristianesimo e la nazione», in un discorso alla Conferenza di azione politica conservatrice (CPAC) del 2025 in Ungheria.

 

«Amici miei, ci sono due piani sul tavolo. Uno è il piano liberale, l’altro è il piano patriottico per l’Europa», ha detto Orban giovedì al suo pubblico di conservatori, tra cui illustri leader politici europei.

 

«Il piano liberale considera obsoleta la vecchia Europa culturale e cristiana. Vogliono superarla. Per decenni hanno lavorato per costruire una nuova identità che sostituisse il cristianesimo e la nazione», ha detto Orban.

 

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Si può sostenere che non solo per decenni, ma per oltre un secolo, alcune forze hanno lavorato per sostituire il cristianesimo in Europa, in particolare prima attraverso la Rivoluzione francese e poi attraverso la sinistra in Russia, Spagna e Portogallo. In questi casi, gli sforzi per rovesciare il cristianesimo sono stati palesi e violenti, ma i tentativi più recenti hanno utilizzato «cause» culturali come la «liberazione» sessuale e l’ideologia LGBTQ per guidare gli sforzi di secolarizzazione.

 

In Europa il cristianesimo è già notevolmente diminuito, ancor più che negli Stati Uniti, con la partecipazione alle funzioni religiose ai minimi storici, sebbene resti culturali ed estetici dell’Europa cristiana siano ancora visibili nei luoghi in cui la pratica religiosa è in declino.

 

Lo stesso Orban è noto per la sua promozione dei valori cristiani attraverso la sua sfrontata difesa del matrimonio e della famiglia tradizionale, e la sua aperta opposizione all’ideologia omotransessualista. È interessante notare che in Ungheria la percentuale di persone che «non frequentano mai» le funzioni religiose è diminuita negli ultimi anni, ma la percentuale che vi partecipa settimanalmente rimane a un livello molto basso, il 9%.

 

Il leader ungherese ha affermato che i tentativi liberali di «sostituire la nazione» funzionano minandone la sovranità nazionale e centralizzando l’Europa, scagliandosi contro contro Bruxelles – sede anche della NATO – accusandola di fomentare la guerra, usandola come pretesto per raggiungere questo obiettivo di centralizzazione europea.

 

«Se c’è la guerra, c’è più Bruxelles e ancora meno sovranità», ha detto Orban. «Il piano progressista è che l’Europa debba costruire un nuovo modello economico, un modello di economia di guerra, con il pretesto della guerra. Nella loro mente, la guerra sarà il motore dell’economia. Debito collettivo, controllo centralizzato e un fondo di guerra».

 

Secondo Orban, la spinta per l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea è un elemento «chiave» di questo piano progressista guerrafondaio. L’Ucraina sta perseguendo l’adesione all’UE, un potenziale passo verso l’adesione alla NATO, un’iniziativa che la Russia ha avvertito potrebbe scatenare una guerra nucleare.

 

Gli anti-globalisti hanno proposto come alternativa un «piano patriottico» in quattro punti, consistente in pace, sovranità nazionale, libertà e rivendicazione dell’Europa dai migranti per rivendicare la «cultura cristiana» e strade sicure.

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«Oggi, e per qualche anno a venire, la politica europea si concentrerà su quale piano vincerà. Questa battaglia deve essere vinta prima da tutti, a casa, e poi insieme a Bruxelles», ha detto Orban.

 

Il premier magiaro ha sostenuto che per farlo è necessario l’aiuto degli Stati Uniti e «dell’amministrazione di successo del Presidente Trump».

 

«Abbiamo bisogno di smantellare la collusione liberale tra America e Bruxelles, lo Stato profondo transatlantico», ha aggiunto Orban.

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Professore di studi bellici avverte: molti Paesi europei si trovano in uno stato «pre-guerra civile»

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Uno dei massimi esperti studi bellici di guerra ha lanciato l’allarme: molti paesi europei sono sull’orlo della guerra civile e potrebbero aver già superato il punto di non ritorno. Lo riporta Modernity News.   David Betz, professore di guerra nel mondo moderno al King’s College di Londra, afferma che la sua ricerca dimostra che esiste una probabilità statisticamente significativa che entro cinque anni scoppi una guerra civile in un importante paese europeo, con una concreta possibilità che il conflitto possa estendersi alle nazioni vicine.   Parlando con il documentarista Andrew Gold, Betz ha inoltre osservato che probabilmente è troppo tardi per impedire che la situazione in Europa «peggiori molto e che i governi potrebbero solo prepararsi meglio all’inevitabile.     «Probabilmente eviterei le grandi città. Ti suggerirei di ridurre la tua esposizione alle grandi città, se puoi», esortò Betz con tono gelido. «Non c’è niente che possano fare, è insito. Abbiamo già superato il punto di non ritorno, secondo la mia stima… abbiamo superato il punto in cui si verifica una disfatta politica. Abbiamo superato il punto in cui la politica normale è in grado di risolvere il problema».   Betz ha sottolineato che «quasi ogni possibile soluzione da qui in poi, a mio avviso, implica una qualche forma di violenza».   «Qualsiasi cosa il governo cerchi di fare a questo punto… puoi risolvere un tipo di problema, ma nel farlo aggraverai un altro tipo di problema, e tornerai alla violenza», ha continuato il professore.   «Secondo me la questione è come mitigare i costi, non come prevenire il risultato, mi dispiace dirlo… Non ho sentito una soluzione politica credibile e non vedo una sola figura politica che sia credibile nel ruolo di salvatore nazionale, o anche solo incline a farlo», ha aggiunto.   «La conclusione è che non credo che ci sia al momento una soluzione politica a questa situazione, che consista nel far sì che tutto vada per il meglio dopo un periodo di difficoltà», conclude cupamente Betz, osservando «Le cose vanno male ora, ma peggioreranno molto».   «Spero che poi la situazione migliori, ma prima di arrivarci bisognerà attraversare un periodo in cui la situazione è molto peggiore», ha previsto.

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In sostanza, è una spirale discendente. «Capisco che ciò che dico è estremamente spiacevole», ha detto Betz, aggiungendo: «voglio solo dire, care élite, che le conseguenze delle vostre azioni sono arrivate».   Betz osserva che il Regno Unito, la Francia e la Svezia sono tutti già afflitti da una «terribile instabilità sociale», un «declino economico» e una «pusillanimità delle élite», tutti storicamente precursori di conflitti.   Lo studioso stima che una guerra civile nel Regno Unito, che ora ha una popolazione di 70 milioni di persone, potrebbe causare decine di migliaia di morti.   «Le società più instabili sono moderatamente omogenee», ha osservato in precedenza Betz, notando che i gruppi di maggioranza tradizionali sentono che il loro status è minacciato o sta per essere completamente sostituito e sono più propensi a lottare per mantenere il predominio.   Sebbene la ricerca abbia indicato che il Regno Unito è sulla buona strada per diventare un paese abitato da una minoranza bianca entro pochi decenni, Betz prevede che ciò non accadrà realmente perché un numero sufficiente di britannici nativi potrebbe trasferirsi per invertire la tendenza.   «Si potrebbe sostenere un’argomentazione del genere, ma credo che si tratti di fare troppe supposizioni sulla probabile reazione delle persone. Non credo che la società sia così inerte», ha detto il Betz, aggiungendo: «non credo che gli inglesi vogliano essere sfrattati dal proprio Paese… Credo che la gente lo rifiuterà. E la gente sta già percependo l’urgenza di agire per impedire la perdita di qualcosa a cui tiene molto».   Betz ha inoltre affermato che «l’esistenza di questa idea di Inghilterra… è seriamente in pericolo… come le persone reagiranno a questo è la questione. C’è un grave rischio che reagiscano in modi che ci porteranno fuori scala. Spero che ciò non accada, ma siamo in un momento molto pericoloso».

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Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

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Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.

 

Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.

 

Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.

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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.

 

Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.

 

E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.

 

Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.

 

Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.

 

In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.

 

Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.

 

Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).

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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.

 

Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.

 

Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.

 

E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.

 

La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.

 

Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?

 

A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.

 

Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.

 

La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.

 

Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?

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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.

 

E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.

 

A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.

 

Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.

 

Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.

 

E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.

 

Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.

 

Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.

 

E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.

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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.

 

Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.

 

Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.

 

La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.

 

Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.

 

Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.

 

E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.

 

Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.

 

La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.

 

Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.

 

Elisabetta Frezza

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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La metamorfosi di Trump tra l’Iran e Israele: spietata, sanguinaria arte del deal

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Non a tutti è piaciuta quella grafica che Renovatio 21 ha fatto, e piazzato su magliette. Il profilo di Trump che si staglia sulla tenebra, e ti fissa con occhi di fuoco, ha inquietato qualcuno. Ci sono persone che ci hanno scritto per protestare. Altri hanno chiesto spiegazioni.   Subito ci siamo stupiti: riteniamo quel disegno particolarmente riuscito. L’artigiano che ci segue per le serigrafie la ha messa in esposizione come una delle sue massime opere, e in molti gli domandano come comperarla. Noi la guardiamo e pensiamo: in questa immagine c’è tutto.   Eppure no, taluni non capiscono, lasciandoci interdetti: è come se non vedessero il valore metafisico, metapolitico, metastorico a cui è assurta la figura di Donaldo. Di più: non possono vedere la cifra di determinazione, risoluzione, di giustizia che, infine, arriva – con una parola che ci fa rischiare di sembrare perfino evoliani, non realizzano l’uomo Trump come potenza.

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Ancora: vediamo che essi non ne percepiscono il carattere punitivo.   Nella tragica ora in cui il Medio Oriente si infiamma – e le fiamme sono, ha detto il direttore AIEA Rafael Grossi, radiattive – la metamorfosi di Trump a noi pare più chiara che mai. No, non è più il Trump-45, il presidente impolitico venuto dal business e dalla reality TV (con i quali, va ricordato, ha scalato, da outsider, la scena più ardua e medievale del mondo, Nuova York).   No. Lo abbiamo pensato subito, forse da qualche parte lo abbiamo pure scritto: The Donald è cambiato, molto. Doveva esservi chiaro almeno da quando giurò da presidente, quel 20 gennaio, senza – inedito totale, pure per lui stesso – toccare la Bibbia: un gesto enigmatico, ma pure, qualsiasi fosse l’intenzione, profondamente morale. Trump-47 è un’altra persona, un essere nuovo, trasformato.   Ad inizio aprile il Washington Post aveva scritto, citando un anonimo funzionario della Casa Bianca, che Trump era «at peak of not giving a fuck», cioè «al vertice del non fregarsene un cazzo». Un ultra-nichilismo funzionale al potere, una sorta di satori regale, di illuminazione definitiva del comando monarchico: uno status che pochi hanno raggiunto, e che francamente noi mai abbiamo davvero veduto.   Non crediamo che questa trance metapolitica sia stata raggiunta negli ultimi tempi. Era pienamente intuibile durante il primo attentato, quello che doveva fargli saltare la testa in mondovisione (perché la CNN aveva mandato tutte quelle telecamere per un comizio qualsiasi, in un Paesino della Virginia? Se lo chiedono in diversi). Una traiettoria spiegabile solo con la religione gli sfiora l’orecchio, linee di sangue gli rigano il volto, che diviene la riflessione perfetta della bandiera USA che garrisce sopra di lui. Lui si rialza, non banda agli agenti del Secret Service che devono portarlo via, alza al cielo il pugno, si rivolge al suo popolo, e gli chiede per tre volte di continuare a lottare. «Fight, fight, fight».   Era evidente: a quell’uomo non importa di morire. Con il cuore è decisamente altrove, in un luogo ideale che non conoscevamo e che non sappiamo bene descrivere. È oltre agli interessi individuali, e al contempo calato in modo totalizzante nel suo desiderio di comunione con il popolo, con il suo imperativo interiore di essere, prima che populista, popolare.   Credo di averlo già scritto: Mussolini è morto mentre scappava in Svizzera vestito da soldato tedesco. Hitler (in teoria, OK) si è suicidato nascosto in un bunker tra la puzza di piscio. Questo esemplare di leader sembra diverso.  
  Non è che lo abbiamo notato solo noi. Prendiamo Naomi Wolf: intellettuale proveniente dalla sinistra liberal (ebrea, studi oxoniani, un passato da abortista sfegatata), già collaboratrice dei Clinton, ora però redpillata nella comprensione del Vero, con indomito sforzo di analizzare la catastrofe pandemica già visibile, dice, nelle carte di Pfizer. Chiedere alla Wolf, che nel frattempo ha cominciato a comprendere verità geodemonologiche sul mondo moderno, di sostenere Trump era tantissimo. Tuttavia un giorno ha dovuto farlo – fu quando, a fine campagna elettorale era uscita la notizia per cui c’erano almeno cinque squadre di assassini, pure dotati di missili terra-aria, attivate per assassinare Trump. Lui di contro, twittava di cose ridicoli, provocando al solito qualcuno che gli stava antipatico. «Mi ci sono voluti anni a riconoscerlo, ma devo dirlo: tipo che sei figo».   Figo, cool: la parola significa anche «freddo». Capace di decisione; al comando della situazione.   È quello che sta mostrando, anche in modo non proprio edificante, in queste ore. Ha scritto, usando il maiuscolo, che i generali iraniani «hardliners», cioè le «teste calde» che si opponevano ai negoziati «sono tutti MORTI». Quello di Israele sembra proprio essere stato un decapitation strike. Un attacco che toglie di mezzo il centro di controllo di un sistema. Lui, piuttosto brutalmente, mostra che ciò è di suo giovamento – perché con evidenza il suo fine è il negoziato, l’arte del deal sulla quale ha costruito tutta la sua vita.   In pratica, Trump pare aver usato Israele per riportare gli ayatollah al tavolo, e alle sue condizioni.   Già qui c’è questa novità enorme: non è Israele che usa l’America, ma l’America che usa Israele. Scusate: anche qui, crediamo di mai aver veduto questa cosa. Cambio di paradigma metafisico.   Trump ha imparato la lezione. Renovatio 21 è una delle poche testate che aveva riportato le parole che mesi fa Trump aveva affidato ad una grande rivista americana, e forse pure ripetuto in altre occasioni: il generale Soleimani lo aveva fatto uccidere su pressioni di Netanyahu (come confermato anche da spie ebraiche), che alla fine però si era tirato indietro all’ultimo minuto.   «Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», aveva detto nel maggio 2024 Trump. «È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», aveva detto Trump a TIME, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».   Non che la mossa gli sia costata nulla: lui, e tutta la sua famiglia, passeranno l’esistenza sperando che il Secret Service li scudi dalla vendetta iraniana, giurata perfino su video di computer grafica diffusi da canali ufficiali.    
  Oggi la faccenda è molto cambiata. Trump ha maltrattato Israele e il suo premier, al punto da suggerire, con l’idea bislacca di Gaza resa paradisiaco resort mediterraneo, l’idea che lo Stato Giudaico non avrà mai il controllo della striscia necessaria al compimento del disegno del «Grande Israele». Con evidenza, tuttavia, ha lasciato mano libera, intuendo una debolezza attuale attorno all’Iran.   La Russia e la Cina interverranno a favore di Teheran? Il potere dell’ayatollah sulla popolazione è così saldo? Sono calcoli che deve aver fatto, mentre diviene chiaro a cosa sia servito il viaggio in Arabia dello scorso mese, e quel lungo, denso discorso sulla fine della politica neocon – quindi, per paradosso, la fine della bava alla bocca contro l’Iran. A Riyadh, e negli altri regni del Golfo, Trump ha riprogrammato, deal dopo deal, l’asse del Medio Oriente, orientandolo più verso la Mecca che verso la Repubblica Islamica (che, fuori da regno dei Sauditi, tra i sunniti, godeva comunque di una presa non indifferente).

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Non possiamo sapere cosa accadrà. Il piano potrebbe non funzionare, i calcoli sulla tenuta di Khamenei, o sulla possibilità di tenere a freno lo Stato degli ebrei, potrebbero essere errati. La volontà negoziale messa in questo sforzo era partita nei primi giorni, quando dissero che aveva mandato Elon Musk a Nuova York a trattare con emissari di Teheran. Non molto pare essere stato ottenuto, e la situazione potrebbe ovviamente precipitare definitivamente – atomicamente.   Rimane che quello che stiamo vedendo è il Trump 2.0, il Donaldo scaturigine anni di pressione (con secoli di carcere minacciati dai tribunali) e di violenza, rigenerato nella lotta e nel sangue. È il re arrivato all’illuminazione oscura, al potere più enigmatico: Dark Maga Power.   Aveva scritto The Art of the Deal, l’arte di fare deal, affari. Come il suo cuore, tale arte è divenuta tenebrosa, spietata, perfino, potete dirlo, a tratti sanguinaria.   Non siamo certi che tutto questo sia bello da vedere, né – visto che ci sono di mezzo dei morti – bello. Ma mai avevamo testimoniato il potere politico utilizzato in questa tremenda purezza.   La bellezza – a volte triste, a volta tragica – che ha il castigo. Cioè quello oggi che tutti gli esseri umani rimasti tali nel mondo moderno devono chiedere al Cielo.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata  
 
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