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Mons. Viganò: meditazione sulle nomine cardinalizie

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Renovatio 21 pubblica questa meditazione  di Mons. Carlo Maria Viganò. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

 

USQUE AD EFFUSIONEM SANGUINIS

a proposito delle nomine del prossimo Concistoro

 

 

 

Se potessimo chiedere a San Gregorio Magno, a San Pio V, al Beato Pio IX, a San Pio X, al Venerabile Pio XII sulla base di quali valutazioni essi abbiano scelto i Prelati da insignire della Sacra Porpora, ci sentiremmo rispondere da tutti, nessuno escluso, che il principale requisito per diventare Principi di Santa Romana Chiesa è la santità di vita, l’eccellenza in particolari virtù, l’erudizione nelle discipline ecclesiastiche, la saggezza nell’esercizio dell’Autorità, la fedeltà alla Sede Apostolica e al Vicario di Cristo.

 

Molti dei Cardinali creati da questi Pontefici divennero Papi a loro volta; altri si distinsero per il loro contributo al governo della Chiesa; altri ancora meritarono di essere elevati alla gloria degli altari e di esser proclamati Dottori della Chiesa, come San Carlo Borromeo e San Roberto Bellarmino. 

 

Parimenti, se potessimo chiedere ai Cardinali creati da San Gregorio Magno, da San Pio V, dal Beato Pio IX, da San Pio X, dl venerabile Pio XII come essi concepissero la dignità a cui erano stati elevati, ci avrebbero risposto, nessuno escluso, che si sentivano indegni del ruolo ricoperto e fiduciosi nell’aiuto della Grazia di stato.

 

Tutti costoro, dal più insigne al meno noto, consideravano imprescindibile per la propria santificazione dar prova di assoluta fedeltà al Magistero immutabile della Chiesa, di eroica testimonianza della Fede con la predicazione del Vangelo e la difesa delle Verità rivelate, di filiale obbedienza alla Sede di Pietro, Vicario di Cristo e Successore del Principe degli Apostoli. 

 

Chi oggi rivolgesse queste domande a colui che sta assiso sul Soglio e a coloro che egli ha elevato alla Porpora, scoprirebbe con grande scandalo che la nomina cardinalizia è considerata al pari di un qualsiasi incarico di prestigio di un’istituzione civile, e che non sono le virtù richieste per quella carica a portare a scegliere questo o quel candidato, ma il suo livello di corruttibilità, di ricattabilità, di appartenenza a questa o quella corrente.

 

E lo stesso, anzi forse peggio, accadrebbe nel presumere che, come nelle cose di Dio i Suoi ministri dovrebbero essere esempio di santità, così nelle cose di Cesare i governanti siano guidati dalle virtù di governo e mossi dal bene comune. 

 

I cardinali nominati dalla chiesa bergogliana sono perfettamente coerenti con quella deep church di cui sono espressione, così come i ministri e i funzionari dello Stato sono scelti e nominati dal deep state. E se questo avviene, è perché la crisi dell’autorità a cui assistiamo da secoli nel mondo e da sessant’anni nella Chiesa è in metastasi. 

 

Vertici onesti e incorruttibili pretendono e ottengono collaboratori convinti e fedeli, perché il loro consenso e la loro collaborazione derivano dalla condivisione di un fine buono – santificazione propria e altrui – ricorrendo a strumenti moralmente buoni.
Analogamente, vertici corrotti e traditori richiedono subalterni non meno corrotti e disposti al tradimento, perché il loro consenso e la loro collaborazione derivano dalla complicità nel crimine,e, dalla ricattabilità del sicario e del mandante, dalla mancanza di qualsiasi remora morale nell’eseguire gli ordini.

 

Ma la fedeltà nel male, non dimentichiamolo, è sempre a tempo, e su di essa grava la spada di Damocle del mantenimento del potere del padrone e dall’assenza di un’alternativa più allettante o remunerativa per chi lo serve.

 

Viceversa, la fedeltà nel Bene – ossia fondata in Dio Carità e Verità – non conosce ripensamenti, ed è disposta a sacrificare la vita – usque ad effusionem sanguinis – per quell’autorità spirituale o temporale che è vicaria dell’Autorità di Nostro Signore, Re e Sommo Sacerdote.

 

Questo è il martyrium simboleggiato dalla veste cardinalizia. Questa sarà anche la condanna di chi la profana credendosi protetto dalle Mura Leonine.

 

Non stupisce quindi che un’Autorità che si fonda sul ricatto si circondi di persone ricattabili, né che un potere esercitato per conto di una lobby eversiva voglia garantire continuità alla linea intrapresa, impedendo che il prossimo Conclave elegga un Papa e non un piazzista di vaccini o un propagandista del Nuovo Ordine Mondiale. 

 

Mi chiedo tuttavia quale degli Eminentissimi che costellano le cronache boccaccesche della stampa coi loro pittoreschi soprannomi e con il fardello di scandali finanziari e sessuali sarebbero disposti a dare la vita non dico per il loro padrone di Santa Marta – che si guarderebbe bene a sua volta di darla per i suoi cortigiani – ma anche per Nostro Signore, ammesso che non Gli abbiano sostituito nel frattempo la Pachamama. 

 

Ecco: in questo mi pare consista il nocciolo della questione. Pietro, mi ami tu più di costoro? (Gv 21, 15-17).

 

Non oso pensare cosa risponderebbe Bergoglio; so invece cosa risponderebbero questi personaggi, insigniti del Cardinalato come Caligola conferì il laticlavio al suo cavallo Incitatus in spregio al Senato Romano: Non lo conosco (Lc 22, 54-62). 

 

Sia compito precipuo dei Cattolici – laici e chierici – implorare dal Padrone della Vigna di venire a far giustizia dei cinghiali che la devastano.

 

Finché questa setta di corrotti e fornicatori non sarà scacciata dal tempio, non potremo sperare che la società civile sia migliore di coloro che dovrebbero esserle di edificazione e non di scandalo.

 

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

 

2 Giugno 2022

 

 

NOTE

1) «Stravagante, eccentrico e depravato. Le poche fonti storiografiche definiscono così il regno di Caligola, l’imperatore romano che secondo la leggenda osò fare senatore il suo cavallo (che per la cronaca si chiama Incitatus). Alla fine del suo regno, Caligola pretendeva di essere chiamato Dio, che è un po’ più che unto dal Signore».

 

 

 

Renovatio 21 pubblica questa dichiarazione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

Immagine di Zelui05 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0); immagine modificata

 

 

 

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Pensiero

Biden e Bergoglio, un parallelismo. Parla mons. Viganò

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L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha affidato a X una breve riflessione sul caso della grazia data dal presidente americano Joe Biden al figlio Hunter.

 

Lo scandalo non si è ancora spento negli Stati Uniti, Paese nel quale Viganò è stato nunzio apostolico in era Obama.

 

Il perdono assegnato al figlio presidenziale copre tutti i suoi crimini federali (cioè considerabili come perseguibili a livello centrale, non nei singoli Stati) copre tutto quanto fatto da Hunter dal 2014, anno nel quale, con il colpo di Stato a Kiev chiamato Maidan, inizia anche il suo legame con l’Ucraina, dove diviene membro del board del colosso gasiero Burisma, e dove con il suo fondo sarebbe coinvolto nella questione dei biolaboratori.

 

Kiev è stata definita dall’ ex politico di opposizione in esilio Viktor Medvedchuk come la «mangiatoia» del clan corrotto dei Biden.

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Ora anche molti nel Partito Democratico USA – che aveva vantato il suo presunto rispetto dello «stato di diritto» e del «nessuno sopra la legge» per attaccare Trump – si chiedono dell’opportunità della grazia presidenziale infra-famigliare, soprattutto dopo che appena pochi mesi fa avevano negato, con tanto di ripetute dichiarazioni della portavoce della Casa Bianca Corinne Jean-Pierre, che il presidente potesse graziare il figlio.

 

Monsignor Viganò vede nella vicenda un parallelo possibile con il Vaticano odierno.

 

«”Nessuno è al di sopra della Legge”, ha detto Joe Biden durante la campagna elettorale, per confermare che non avrebbe graziato suo figlio Hunter, con il quale è colluso in una serie di crimini gravissimi, insabbiati per anni dai servizi segreti deviati, con la complicità dei media» scrive Viganò.

 

«Oggi vediamo quanto vale la parola di Biden: nulla. Un “presidente” criminale grazia il figlio criminale, come se fosse la cosa più normale e legittima al mondo» accusa il prelato.

 

Viganò riferisce di casi di revoca di scomunica a personaggi controversi, mentre Bergoglio «la commina a chi denuncia la corruzione del Vaticano e l’usurpazione del Soglio di Pietro».

 

Come riportato da Renovatio 21, monsignor Viganò è stato scomunicato per e-mail la scorsa estate.

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Immigrazione

Gli immigrati saranno nostri guardiani e persecutori?

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Chi segue Renovatio 21, sa che semel in anno succede che racconti un qualche sogno capitatomi nottetempo. A volte questo sito ha pure scritto di sogni dei lettori stessi. I sogni sono, purtroppo, importanti.   Ultimamente odio sognare. Il carattere opaco e incontrollabile delle visioni notturne da qualche anno mi disturba. Nei momenti di cattivo umore finisco a chiedermi, in modo forse non cristiano, se l’esperienza dell’inferno non sia esattamente così: oscuro e irrazionale, illogico, inagibile, uno stato della mente che è una dimensione di punizione. I sogni sono anticipazioni degli inferi?   Ma no, a volte succede che si fanno i sogni memorabili, dove il significato è evidente quasi da subito, per poi divenire lampante, a tratti sconvolgente, man mano che si procede ad analizzare, a scendere nei livelli più profondi – inferi – della propria psiche.   Come ad esempio, il sogno con Mattarella e gli immigrati africani fatto l’altra sera.

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La trama, per quello che posso ricordare, può sembrare sconclusionata al punto giusto: trovatomi nella pasticceria dove spesso bevo il cappuccino – che per qualche ragione era come un condominio in costruzione, mi dicevano che, non ho capito perché, sarebbe stato il caso che passassi a salutare il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella. (Scrivo queste righe sperando che i sogni non infrangano l’art. 278 del Codice Penale, «Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica»: sappiamo che a difendere questa legge spesso ci vanno giù pesante)   Io non ero contrario all’idea, quindi mi portavano giù per una scala, dove c’era un garage – la tipica autorimessa di certe casette piccolo borghesi, una stanza situata appena sottoterra, con oggetti vari (attrezzi, bici) piazzati in qualche ordine alle pareti, scope e secchi in un contesto di pulizia, anche se con quella sensazione di incompiuto che sento tipicamente in certe case di provincia.   Nella stanzetta sottoterra che dava verso al garage c’era lui, il Mattarella –anzi, c’era lei: nel mio sogno il presidente aveva le fattezze della senatrice ebrea Liliana Segre, la quale anche nella vita da svegli molti ritengono assomigliare al capo dello Stato di origine sicula.   Il Mattarella-Segre, che indossava un grembiule da lavori domestici, salutava rapidamente me e i miei conoscenti ma era indaffarato con qualcosa, forse stava pulendo, ed era come se aspettasse qualcuno, come se non fosse davvero padrone del suo tempo, o dello stesso spazio in cui si trovava. A quel punto, un uomo nel garage diceva di sbrigarsi, perché stavano arrivando «loro» (loro chi?), che dovevano parlare con Mattarella, o fare delle cose nel garage: la differenza tra le due azioni era inesistente, mi rendevo conto.   Semplicemente, ci veniva fatto capire che dovevamo uscire dal garage: il saluto al presidente era finito. Così ci ritrovavamo in strada. A quel punto mi diveniva chiaro chi erano «loro».   Una macchina, una berlina lunga e scattante (forse una vecchia Alfa, ma tenuta bene) arrivava sgommando davanti a noi, nella corsia sbagliata. Dentro c’era un immigrato africano che dal posto del guidatore ci guardava intensamente. Aveva un basco rosso, e pareva di scorgere una divisa verde militare, ma questo era un dettaglio secondario.   Piazzatosi davanti a noi minacciosamente con la sua macchina, l’africano, finestrini abbassati, cominciò a berciare in tono duro. Non parlava l’italiano, ma il pidgin che sentiamo in tanti immigrati da Nigeria et similia, un flusso di fonemi africani dove ogni tanto riesci a captare una parola in inglese.   Cosa voleva? Nessuno di noi rispondeva. Non era una conversazione. Nessuno di noi capiva, ma l’incomprensione non lo fermava. Continuava a vomitare la sua parlata africana a tono altissimo, così che realizzavo: l’immigrato ci stava dando ordini. Voleva che ci muovessimo in una certa direzione, andassimo in un certo posto, facessimo qualcosa, forse dovevamo pure salire in macchina, anzi no, perché non eravamo degni, eravamo solo delle persone da comandare e nient’altro.   Ero stranito, offeso. Meditavo su cosa dovevo fare per oppormi, ma il sistema sembrava settato così: nessuno di coloro che era con me fiatava. Evidentemente, pensavo, quella era la norma.   Capivo, in quel momento, chi stava aspettando il presidente, perché stava pulendo: comandavano, con evidenza, anche lì, nel garage della Repubblica. (Mentre scrivo, mi rendo conto di quanto questo sogno sia chiaro, chiarissimo)   Insomma: ho visto in sogno la Repubblica Italiana totalmente sottomessa ad una mafia africana. Ho visto gli africani che ci comandavano, in un contesto in cui non sembra esserci alternativa possibile.

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Ma perché mai devo sognare una cosa del genere? Da dove viene questo film grottesco e distopico che la mia psiche mi ha proiettato di notte? Mi fermo, chiudo gli occhi, respiro, cerco di scendere ai piani inferiori di questo pensiero.   In realtà, ho già visto una cosa del genere, in una serie H+ (2012). Una bizzarra opera fatta di microepisodi visibili online che è oggi importante per vari punti di vista. Era stato fatto come esperimento di Hollywood (l’ideatore è il controverso, e talentuoso, regista Bryan Singer) per distribuire contenuti in rete, quando ancora non c’era del tutto lo streaming.   Nella narrazione, l’umanità di un futuro molto prossimo (di fatto identico al presente) si impianta in massa un chip di interfaccia internet-cervello. Un bel giorno, qualcuno manda un virus, che uccide la stragrande parte della popolazione. Un caso di Single Point Failure: se tutto il sistema è collegato ad un unico punto, e quel punto viene attaccato, l’intero sistema cade – cioè muoiono tutti. Tipo, avete presente, se facessero lo stesso vaccino a tutta la popolazione, e poi risultasse che esso ha effetti devastanti… ma questa è un’altra storia.   Nella storia di H+ c’era anche una propaggine italiana, dove un prete sopravviveva alla strage globale perché si era rifiutato di farsi impiantare il chip (l’impianto veniva fatto, significativo, con una semplice siringa…), mentre tutti i colleghi sacerdoti erano invece felicemente chippati. Una parte del plot vede il prete vagare per l’Italia meridionale, dove vi sono ovunque posti di blocco di soldataglia africana: scopriamo che masse di africani armati, senza che si tratti esattamente dell’esercito, hanno invaso l’Italia sterminata. Gli africani – esattamente come poi sarebbe avvenuto nella realtà del vaccino COVID – hanno rifiutato l’iniezione del chip.   Quindi: immagini hollywoodiane di africani che comandano in Italia. Ma il mio sogno era più preciso di così. Sento che posso scendere ancora di più.   Ecco che nella mia mente trovo un ulteriore strato che mi racconta la scena onirica di cui stiamo parlando: è Il mondo senza donne (1936) di Virgilio Martini (1903-1986). Romanzo introvabile, censurato ai tempi dei fascisti e poi ai tempi dei democristiani. L’autore, che poi riparò in Sud America, è considerabile come uno dei pochi veri scrittori di fantascienza italiani.   Nel libro di Martini l’umanità viene sterminata in modo molto selettivo: semplicemente, muoiono tutte le donne, a causa di un’arma biologica – una pandemia – lanciata da un gruppo di omosessuali. La sparizione delle femmine porta il collasso delle nazioni e delle società, finite preda di una violenza senza fine da parte dei maschi impazziti. Ad un certo punto, a risolvere tutto è un presidente-dittatore di un improbabile Stato africano – che ai tempi in cui è stato scritto il testo nemmeno esistevano, c’erano le colonie! – che con un messaggio alla radio convince tutti gli uomini a finire di uccidersi, divenendo quindi sul colpo imperatore planetario.   La storia va avanti, ma quest’idea – davvero preconizzante, in anticipo di decennio, forse di un secolo – secondo cui il crollo della società occidentale porta ad un dominio africano mi aveva sempre colpito nel romanzo di Martini.

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Scendo ancora più in basso nel cervello, dove riaffiora un ricordo imprevisto: un tizio (un poliziotto, a dire il vero) nero che mi urla ordini da una macchina, prendendomi di sorpresa, l’ho visto. L’ho vissuto. Davvero.   Mi capitò in una cittadina sperduta nelle pianure dello Zambia, una dozzina di anni fa, alle sei del mattino di una domenica d’estate: io, pensate un po’, cercavo di ricordare dove fosse la chiesa per andare a messa – ma ammetto che ci andavo anche per comprare la pizza eccezionale che facevano alla forneria della parrocchia, dove gli africani erano stati istruiti da una ridda di panificatori lombardi pensionati andati lì per insegnare il lavoro – la funzione religiosa era spesso incomprensibile, con magari il classico caso di donna africana posseduta, ma oramai il contesto lo conoscevo.   E invece: ecco che mi perdo in auto per le larghe, larghissime strade della cittadina nel nulla del bush, praticamente all’alba. Mi fermo col pickup sul ciglio della strada, che è enorme, è un telo di cemento vecchio e crepato senza linee segnaletiche da nessuna parte. Chiedo all’unica persona che vedo – dormivano davvero tutti, si vede – dove si trova la chiesa.   A quel punto, nella strada deserta, una macchina si appaia alla mia. Un uomo africano, dalla sua auto senza parabrezza, e con due misteriose donne silenti caricate sul retro, comincia a parlarmi con tono sostenuto, e vedendo che non capivo cosa volesse, si mette in testa un cappello da poliziotto, di modo da rivelare la sua autorità. Mi dice di seguirlo alla centrale di polizia, che è lì davanti, facendomi significativamente passare davanti alla gabbia dove tenevano gli arrestati del sabato sera (quelli ubriachi e facinorosi), i quali c’è da dire che vedendomi arrivare si illuminano di simpatico interesse.   Segue, nell’ufficio di polizia, quello che ritengo essere una richiesta di pagamento per una multa improbabile – vogliamo dire un tentativo di estorsione o giù di lì? Difficile capire la gente, in Africa: me lo hanno spiegato perfino i missionari, e lo ho imparato. Alla fine, pago nulla, ed esco dalla situazione – cioè, dalla galera zambiano – usando una parola magica che mia sorella, telefonata quando è ancora profondamente addormentata in una casa a chilometri di campi di canna da zuccherò più in là, mi suggerisce di proferire. Come dico la parola, il problema magicamente scompare. Però questa è un’altra storia, che racconterò solo qualora i lettori lo chiedessero.

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Insomma: mi trovo a ricordare che il mio sogno mattarelliano con i neri che dettano ordini può perfino avere radici autobiografiche. Tuttavia, se faccio un altro respiro profondo, l’anamnesi mica finisce.   Se riemergo ad un livello di superficie, mi accorgo che c’è dell’altro: un’immagine più recente, e concreta. Eccomi, pochi giorni fa, ad una domenica senz’auto. Sì, l’idiozia che prima o poi sparirà speriamo: anche perché obbligare le donne a camminare al buio delle città divenute pericolose per loro — divenute pericolose chissà perché – non è una politica tollerabile, in teoria nemmeno per chi ha in casa l’altare con il feticcio del cambiamento climatico (e in tasca la tessera del PD).   Ho in macchina le due donne più importanti della mia vita, siamo al limite della città pedonalizzata per diktat ecofascista: mi fermo ad una transenna che hanno piazzato a sbarrare la via proprio sotto quella che è un’antica porta nelle mura medievali. Il portone non c’è, il Medio Evo neppure (in teoria), eppure non posso passare.   A controllare gli accessi, c’è, abbacchiato su un paracarro, un ragazzo africano con giubbino fluorescente da collaboratore pubblico – come i netturbini, gli «assistenti» della sosta, talvolta vigili etc. Osservo che sul bavero il ragazzotto nero ha stampato una mostrina: «volontario». Mi guarda, mi squadra. Sento che ha voglia di dirmi qualcosa, del resto ho fermato la macchina, per far scendere le ragazze, a pochi metri dal «suo» confine. Scendo per aprire le portiere. Vedo che desiste dal dirmi qualcosa, ficcando le mani ancora più a fondo nelle tasche.   Risalgo in macchina e parto: al varco successivo c’è un altro nero in uniforme arancione fluo. Così anche a quello dopo. Di lì capisco il pattern: l’autorità ha messo neri in uniforme a comandare sui cittadini.   Qualcuno lo può trovare come un livello umoristico della sostituzione etnica: stiamo importando non chi lavorerà con noi, ma chi ci comanderà, chi ci sorveglierà. Non stiamo facendo entrare, lo sappiamo bene, ingegneri e medici, ma nemmeno operai ed infermieri – stiamo importando chi in futuro servirà a dominarci e a reprimerci. Dietro l’immigrato dell’Africa nera, quindi, più che il netturbino o il lavoratore della conceria (i celeberrimi «lavori che gli italiani non vogliono più fare», come no), il poliziotto?   Se ci pensiamo, la meccanica sociale del fenomeno è pienamente comprensibile: è la realizzazione tecnica di uno stadio dell’anarco-tirannia, dell’inclusione del caos etnico e civile come strumento di potere verticale. Il potere stesso coopta elementi estranei – che, si suppone, potrebbero essere arrivati qui in maniera illegale – provenienti da contesti di civiltà implosa o mai esistita (è la scusa per dire che scappano, no?) per controllare, un domani reprimere, la popolazione, con la ferocia necessaria. Una ferocia di fatto difficilmente trovabili nei contesti dei Paesi occidentali, dove la società non è ancora del tutto collassata.   Gli immigrati diverranno nostri guardiani, nostri carcerieri: l’idea è stata lanciata da qualcuno negli ultimi anni di ondata migratoria. In Inghilterra qualcuno si è spinto a dire che vi sarebbe un programma, con addestramenti già effettuati, per far diventare le masse immigrate come le unità di repressione nel futuro lockdown.   John O’Looney, un uomo delle pompe funebri che rimase sconvolto dallo scoprire quei coaguli tentacolari, filamenti fibrosi simili ad un calamaro, che hanno preso ad ostruire il sistema circolatorio dei defunti da imbalsamare, lo ha detto all’imprenditore ed attivista Brexit Jim Ferguson: «posso dirti che questi sono soldati delle Nazioni Unite e saranno schierati dall’OMS quando annunciano il prossimo lockdown pandemico».   L’O’Looney, da quando ha lanciato l’allarme per i «calamari» comparsi improvvisamente nei cadaveri, raccoglie ogni sorta di confidenze. Qualcuno con entrature nelle cose dell’esercito gli ha raccontato in dettaglio questo piano allucinante: «questo è ciò che accadrà. Sono stati addestrati da soldati britannici. Sono stati addestrati dal reggimento Black Watch. Sono stati addestrati ad Adalia, in Turchia e nell’Ucraina orientale. Sono prevalentemente scesi al grado di sergente. Vengono poi spediti in Francia. Hanno firmato tutti l’Official Secrets Act, poi sono stati traghettati».   L’uomo parla di masse di immigrati che sarebbero stati di fatto militarizzati. Per essere schierati contro la popolazione autoctona.  

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Non c’è modo di pensare che programmi simili, se esistono, siano pensati solo per la Gran Bretagna. E del resto, guardiamo in casa, e vediamo che immigrazione e forze militari non sembrano delle realtà incompatibili. Abbiamo in testa le camionette verdi, con dentro e fuori soldati armati, nei dintorni delle stazioni ferroviarie italiane: gli immigrati le considerano un deterrente? Smettono, in quell’area, di rubare, spacciare, picchiarsi? No: evidentemente non ne hanno paura.   Gli stranieri – e attendiamo chi ci può smentire – non hanno più paura di polizia e carabinieri. Un tempo forse quando vedevano una voltante si nascondevano, avessero o no i documenti. Ora invece vediamo le questure semplicemente invase da extracomunitari: sono gli immigrati, di fatto, il principale cliente di tanti uffici pubblici.   L’immigrato afro-islamico… come alleato delle forze dell’ordine? Possibile: ripetiamo, la formula nel Nuovo Ordine prevede la fusione di legge e caos – ordo ab chao. Quanti, in questi anni, hanno a loro volta notato che, più che donne, vecchi e bambini (quelli che di solito «scappano dalle guerre»), abbiamo importato giovani maschi atletici in età militare? Tutti.   Di qui può sorgere l’illuminazione: ecco perché le questure ad alcuni possono sembrare oramai istituti per l’accoglienza degli immigrati, più che per i servizi ai cittadini. Se dovete fare una denuncia, potreste aspettare sei, sette ore. Gli extracomunitari, invece, in questi anni hanno visto moltiplicarsi gli uffici a loro dedicati.   E quindi, quando in qualche servizio TV la borseggiatrice dell’autobus dice «lasciatemi stare, se rubo non interessa nemmeno alla polizia», cosa significa davvero?   E quando sentiamo storie di ragazzini immigrati bulli che spadroneggiano, contro compagni e pure insegnanti, alle elementari, medie, superiori? Che significato ha questo fenomeno?   Quando minorenni «etnici» creano rivolte violente (o anche solo festeggiamenti per il calcio o il nuovo anno), attaccando la polizia, minacciando i cittadini, quando invadono intere località turistiche di fatto cancellando il potere dello Stato italiano, abbiamo capito cosa sta succedendo?   Sta succedendo che, con ogni probabilità stiamo diventando persone senza diritti, senza rispetto, a cui poter urlare ordini incomprensibili: in una parola, schiavi. Il ribaltamento tanto agognato è servito: europei schiavi degli africani.   Quindi quanto manca alla nostra sottomissione definitiva?   Lasceremo che questo accada?   Lasceremo ai nostri figli questo osceno futuro di schiavitù e persecuzione?   Lasceremo ai nostri figli, più che i nostri sogni, un Paese da incubo?   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Orban: l’egemonia occidentale lunga 500 anni è finita

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L’egemonia globale dell’Occidente, durata 500 anni, è finita e il futuro apparterrà all’Eurasia, ha affermato il primo ministro ungherese Viktor Orbán.

 

L’idea che «il mondo intero dovrebbe essere organizzato su un modello occidentale» e che le nazioni saranno disposte ad aderirvi «in cambio di benefici economici e finanziari» è fallita, ha affermato Orban al Forum Eurasia di Budapest giovedì.

 

Il mondo occidentale è stato sfidato dall’Oriente, ha dichiarato il leader ungherese, aggiungendo che «il prossimo periodo sarà il secolo dell’Eurasia».

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«Cinquecento anni di dominio della civiltà occidentale sono giunti al termine», ha affermato Orban.

 

Secondo il leader ungherese, i Paesi asiatici sono diventati più forti e hanno dimostrato di essere capaci di «crescere, esistere e durare come centri indipendenti di potere economico e politico». Ora hanno sia un vantaggio demografico che tecnologico rispetto ai loro pari occidentali, ha affermato.

 

Di conseguenza, il centro dell’economia mondiale si è spostato a est, dove le economie stanno crescendo quattro volte più velocemente di quelle occidentali, ha detto Orban. «Il valore aggiunto dell’industria occidentale rappresenta il 40% del mondo, e quello dell’industria orientale il 50%. Questa è la nuova realtà».

 

Mentre l’Asia rappresenta il 70% della popolazione mondiale e ha una quota del 70% nell’economia mondiale, l’UE è emersa come il «perdente numero uno» nella realtà in evoluzione, secondo il primo ministro magiaro, che ha affermato che l’Occidente è «soffocato» nel suo stesso ambiente, affrontando sfide come la migrazione, l’ideologia di genere, i conflitti etnici e la crisi Russia-Ucraina.

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«È comprensibilmente difficile per i leader occidentali rinunciare al senso di superiorità a cui sono abituati, ovvero che siamo i più intelligenti, i più belli, i più sviluppati e i più ricchi», ha sostenuto detto il premier ungherese.

 

Secondo Orban, le élite occidentali si sono organizzate per proteggere lo «status quo della vecchia gloria», che alla fine porterà a un blocco economico e politico.

 

Come riportato da Renovatio 21, Orban aveva già esposto il suo pensiero sul tramonto dell’Occidente a inizio anno, sostenendo che l’egemonia occidentale è finita, e chiamando al ruolo salvifico di Donald Trump.

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Immagine di The Left via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-SA 2.0

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