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Economia

L’idea che l’Ucraina cacci le forze russe è una «fantasia estrema» mentre le economie occidentali collassano. Parlano ex militari USA

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L’ex ufficiale dell’intelligence della Marina e ispettore delle armi delle Nazioni Unite Scott Ritter ha offerto una critica devastante degli sforzi occidentali per sostenere il regime di Kiev in un’intervista lo scorso 21 luglio con la testata governativa russa Sputnik.

 

Ritter sostiene che gli Stati Uniti e l’UE sperano con il loro sostegno al regime di Kiev di sfrattare le forze russe dall’Ucraina. Ciò «non è possibile» assicura Ritter.

 

«Questa è una fantasia estrema, ma è una fantasia di ispirazione politica, il che significa che gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno investito così tanto capitale politico per sostenere l’esercito ucraino, il governo ucraino e l’economia ucraina che, anche se la maggior parte degli analisti esperti comprende che non solo l’Ucraina sta perdendo il conflitto, ma non potrà mai vincere il conflitto».

 

«Politicamente, i politici occidentali non possono separarsi da queste politiche. Quindi, al fine di mantenere in patria una percezione pubblica della possibilità di una vittoria ucraina, continueranno a sperperare la ricchezza delle rispettive Nazioni».

 

Il Ritter ha quindi respinto l’idea di addestrare piloti ucraini e fornire caccia all’Ucraina, dicendo che forse qualcuno ha visto troppi film stile Top Gun.

 

«Qualsiasi sforzo per prendere un pilota ucraino e mettere quel pilota ucraino in un caccia americano o europeo con un addestramento minimo e poi impiegare quel caccia in operazioni di combattimento in Ucraina contro l’aviazione russa finirebbe il 100% delle volte con il caccia occidentale jet abbattuto».

 

Quando l’intervistatore ha chiesto a Ritter della promessa del G7 di stare con l’Ucraina «per tutto il tempo necessario», Ritter ha risposto che due di quei leader, Boris Johnson e Mario Draghi, non sono più al potere.

 

«Penso che con l’arrivo dell’estate e dell’inverno, sempre più di questi leader verranno rimossi dall’incarico perché è una politica insostenibile», ha affermato l’ex ispettore per le armi di distruzione di massa in Iraq poi perseguito nell’amministrazione Bush.

 

Douglas Macgregor, colonnello americano in pensione ha insistito ancora una volta oltre che del disastro autoinflitto delle sanzioni alla Russia e dell’imminente crollo economico dell’Occidente – il tutto unito a quella che definisce la fine dell’«economia globale basata sul dollaro», e cioè la de-dollarizzazione.

 

«Tutti i governi devono fornire alle loro popolazioni cibo, riparo e sicurezza. Chi sta seguendo la guida sociale ambientale del Forum di Davos, come la Germania, sta fallendo. Gli agricoltori nei Paesi Bassi, i camionisti in Canada, questi sono segni di problemi profondi esacerbati dal conflitto in Ucraina».

 

MacGregor sottolinea la follia di fare la guerra ad un Paese che è tra i primi fornitori al mondo di risorse naturali e non solo.

 

«Biden ha trascinato tutti i Paesi europei in questo conflitto con una Nazione che ha un’abbondanza di risorse di cui le persone hanno bisogno: cibo, minerali, energia. E non c’è il Piano B. I tedeschi si sono sparati ai piedi eliminando il nucleare, tagliando petrolio e gas per diventare completamente ecologici. Ora avranno l’inverno di tutti i malumori! Stanno per finire congelati».

 

«Stiamo assistendo all’inizio della fine dell’economia globale basata sul dollaro. Abbiamo armato il sistema del dollaro. Ora l’India, la Cina, l’Iran e molti altri, non solo la Russia, stanno uscendo. Le persone in America Latina si chiedono perché dovrebbero fare affari con l’America, nel sistema del dollaro. Il business denominato in dollari è molto a rischio».

 

La vera tragedia, dice il colonnello, è che per questo disastro al momento la politica non ha una risposta credibile.

 

«Siamo in ritardo rispetto all’Europa, ma le stesse crisi stanno arrivando nella nostra direzione. Quando cibo, carburante e medicine sono troppo costosi o scarsi, le cose iniziano a crollare. Questo governo non ha risposte. La cattiva notizia è che anche i probabili successori di questo governo statunitense e dei governi in Europa non hanno risposte. Questi problemi sono profondi».

 

Come riportato da Renovatio 21, MacGregor da mesi dichiara che Mosca ha già vinto il conflitto ucraino e che gli USA probabilmente non possono accettare i trattati di pace.

 

 

 

 

Immagine da Telegram

 

 

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported 

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Economia

La Republic First Bank fallisce: la crisi bancaria USA non è finita

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La Republic First Bank (RFB), una piccola banca regionale con sede a Filadelfia, che aveva un patrimonio di 6 miliardi di dollari, è fallita il 26 aprile. Loriporta EIRN.   La Federal Deposit Insurance Corporation, che aveva rilevato la Republic First Bank (da Republic Bank), ha venduto la banca alla Fulton Bank con sede a Lancaster, Pennsylvania.   La Fulton Bank ha acquisito 4 miliardi di dollari di depositi della Republic First Bank e 2,9 miliardi di dollari di prestiti. Come parte dei termini della transazione, la FDIC fornirà 1 miliardo di dollari alla Fulton Bank, il che significa che la FDIC, di fatto una filiale del governo statunitense, assorbirà una parte di 1 miliardo di dollari delle perdite, una buona quota.   La Fulton Bank ora si vanta di essere una banca con un patrimonio di 32,8 miliardi di dollari. Ciò che non dice è che ora il 43% dei suoi prestiti – ovvero 14,1 miliardi di dollari – sono prestiti al mercato immobiliare commerciale statunitense da 23mila miliardi di dollari, che sta crollando di mese in mese.   Non si tratta di un caso isolato.

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A marzo, la New York Community Bank (NYCB) con un patrimonio di 114 miliardi di dollari, è fallita, anche se non è stato definito un fallimento, dal momento che un gruppo di investimento guidato dal segretario al Tesoro dell’ex presidente Trump Steve Mnuchin, ha acquistato la NYCB, con importanti finanziamenti governativi. assistenza. L’acquisizione della Republic Bank da parte della Fulton Bank e la acquisizione della NYCB da parte del gruppo Mnuchin dimostrano che la crisi bancaria statunitense è in atto e che i problemi vengono semplicemente riciclati, non risolti.   Secondo quanto riportato, Republic First Bancorp è una delle banche che è stata sotto crescente pressione a causa di tassi di interesse persistentemente elevati e di valori in rapida diminuzione sui prestiti immobiliari commerciali. PNC Financial (l’ottava più grande d’America) e M&T Bank (la 21ª più grande d’America) hanno recentemente riportato cali di profitto a due cifre nei primi tre mesi di quest’anno poiché i tassi di interesse più alti intaccano i loro profitti.   «Il collasso della banca regionale degli Stati Uniti solleva bandiera rossa per grandi shock» gongola il quotidiano del Partito Comunista Cinese in lingua inglese Global Times. I cinesi riportano, a differenza di tanti giornali occidentali, la notizia di questa ulteriore crepa del sistema bancario e immobiliare USA – tuttavia, come noto, anche il Dragone ha i suoi problemi con palazzi e banche.   Come riportato da Renovatio 21, la crisi bancaria, che non è ancora manifestata nella sua vera forma, può avere come fine l’introduzione definitiva della moneta virtuale da Banca Centrale, cioè il bitcoin di Stato, che non tollererà come concorrente né il contante né le criptovalute, e che renderà obsolete ed inutili le banche: ogni transazione, ogni danaro del sistema apparterrà ad una piattaforma di Stato (o, nel caso dell’euro digitale, Super-Stato) che verrà usata anche per controllarvi, sorvegliando ed impedendo i vostri acquisti nelle modalità previste dal danaro programmabile (limitazioni di tempo, spazio, qualità dell’oggetto acquistato, etc.).

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Economia

BlackRock si unisce al pressing sull’Arabia Saudita: deve uscire dai BRICS

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L’Arabia Saudita è oggetto di una pressione da parte di tutta la corte progettata per tirarla fuori dai BRICS e riallinearla con Londra e Washington.

 

Nello stesso momento in cui il Segretario di Stato americano Tony Blinken era in Arabia Saudita questa settimana per lavorare sulla «normalizzazione delle relazioni» tra Israele e Arabia Saudita – vale a dire, affinché i Sauditi riconoscano Israele in cambio di un patto militare con gli Stati Uniti – erano presenti nel regno wahabita anche Larry Fink e altri alti dirigenti di BlackRock per firmare un accordo con il governo saudita per il lancio della società BlackRock Riyadh Investment Management.

 

La nuova entità, detta anche BRIM, sarà una nuova «società di investimento multi-class» a Riyadh, con 5 miliardi di dollari di capitale iniziale di origine saudita, che dovrà «gestire fondi che investono principalmente in Arabia Saudita ma anche nel resto del Medio Oriente e del Nord Africa», ha riferito il Financial Times.

 

«L’obiettivo è attrarre ulteriori capitali esteri in Arabia Saudita e rafforzare i suoi mercati dei capitali attraverso una gamma di fondi di investimento gestiti da BlackRock», che ha in gestione una bella somma di 10,5 trilioni di dollari. Il CEO di BlackRock Larry Fink ha dichiarato in una nota che «l’Arabia Saudita è diventata una destinazione sempre più attraente per gli investimenti internazionali… e siamo lieti di offrire agli investitori di tutto il mondo l’opportunità di parteciparvi».

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L’Arabia Saudita aveva segnalato il suo interesse ad entrare nei BRICS ancora due anni fa.

 

Come riportato da Renovatio 21, pare che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – capo de facto del regno islamico – cinque mesi fa abbia snobbato i britannici per incontrare il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. Negli stessi mesi il Regno aveva stipulato con la Cina un accordo di scambio per il commercio senza dollari.

 

Lo scambio di petrolio senza l’intermediazione del dollaro, iniziata nel 2022 con le dichiarazioni dei sauditi sulla volontà di vendere il greggio alla Cina facendosi pagare in yuan, porterà alla dedollarizzazione definitiva del commercio globale.

 

A gennaio 2023, il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohammed Al-Jadaan ha dichiarato al World Economic Forum che il Regno è aperto a discutere il commercio di valute diverse dal dollaro USA.

 

«Non ci sono problemi con la discussione su come stabiliamo i nostri accordi commerciali, se è in dollari USA, se è l’euro, se è il riyal saudita», aveva detto Al-Jadaan in un’intervista a Bloomberg TV durante il WEF di Davos. «Non credo che stiamo respingendo o escludendo qualsiasi discussione che contribuirà a migliorare il commercio in tutto il mondo».

 

Il rapporto tra la Casa Saud e Washington, con gli americani impegnati a difendere la famiglia reale araba in cambio dell’uso del dollaro nel commercio del greggio (come da accordi presi sul Grande Lago Amaro tra Roosevelt e il re saudita Abdulaziz nel 1945) sembra essere arrivato al termine.

 

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