Spirito
Leone XIV pone l’ecumenismo del sangue come chiave per l’unità dei cristiani

Durante il suo discorso durante la preghiera dell’Angelus, nel giorno della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Leone XIV ha parlato del suo ruolo nel servire l’unità della Chiesa e dell’«ecumenismo del sangue» che unisce tutti i cristiani attraverso la testimonianza dei martiri che danno la vita per Cristo, indipendentemente dalla Chiesa o comunità ecclesiale a cui appartengono.
Il papa ha innanzitutto ricordato che la Chiesa di Roma è nata «dalla testimonianza degli Apostoli Pietro e Paolo e arricchita dal loro sangue e da quello di molti martiri». Martiri che contiamo tra noi anche oggi:
«Anche oggi, ci sono cristiani in tutto il mondo che il Vangelo rende generosi e audaci, anche a costo della vita. Esiste quindi un ecumenismo di sangue, un’unità invisibile e profonda tra le Chiese cristiane, che tuttavia non sperimentano ancora la piena comunione visibile».
Il Papa ha poi espresso il suo desiderio di ricercare l’unità dei cristiani. Ha anche spiegato il rapporto tra Cristo e Pietro. Ha ricordato che l’opera di Gesù tra gli uomini si ripete in coloro che lo seguono. Ha infine aggiunto che il perdono è la chiave dell’unità delle Chiese.
Ma purtroppo, bisogna notare che la nozione di ecumenismo di sangue è errata.
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Precedenti
Non è la prima volta che un Papa celebra dei «martiri» che non appartengono alla Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II aveva inteso celebrare una «commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del XX secolo».
Il 7 maggio 2000, terza domenica di Pasqua, tenne un’omelia davanti ai rappresentanti delle Chiese ortodosse e delle antiche Chiese d’Oriente. Erano presenti anche rappresentanti delle comunità protestanti e di organizzazioni ecumeniche. L’incontro si tenne nei pressi del Colosseo.
Giovanni Paolo II affermò, in particolare, che «nel nostro secolo, ‘la testimonianza resa a Cristo fino al sangue è diventata patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti’ (Tertio millennio adveniente, n. 37)».
Qualche anno dopo, nel 2005, fu pubblicato un Martirologio Universale, redatto dalla Comunità di Bose, composta da membri di diverse confessioni, fondata dopo il Concilio da Enzo Bianchi. Questo martirologio riunisce cristiani e membri di molte altre religioni.
Il 15 febbraio 2021 si è tenuto un webinar ecumenico con la partecipazione di papa Francesco, del Patriarca copto ortodosso Tawadros II e del Primate anglicano Justin Welby, per commemorare i 21 martiri copti brutalmente assassinati dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria in Libia il 15 febbraio 2015.
Una settimana dopo l’esecuzione, Tawadros II ha iscritto le 21 vittime nel Libro dei Martiri della Chiesa copta ortodossa. Durante la conferenza, Francesco ha affermato: «Sono i nostri santi, i santi di tutti i cristiani, i santi di tutte le confessioni e tradizioni cristiane», i santi «del popolo di Dio, del popolo fedele di Dio», che «hanno lavato la loro vita nel sangue dell’Agnello».
Ha concluso il suo discorso con queste parole: «preghiamo insieme oggi, in memoria di questi 21 martiri copti: possano intercedere per tutti noi presso il Padre. Amen».
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Una dichiarazione impossibile
Ovviamente non si tratta di negare le terribili sofferenze patite da queste vittime dell’odio anticristiano. Né di ignorare il fatto che abbiano preferito la morte alla negazione della propria fede. Ma è semplicemente impossibile per la Chiesa cattolica dichiararli «martiri». Questa dichiarazione, infatti, manca di una dimensione cruciale.
Un martire è, infatti, qualcuno che ha volontariamente sofferto la morte inflitta in odio alla fede cattolica. Pertanto, per poter applicare questo titolo, è essenziale che la persona appartenga visibilmente alla Chiesa cattolica attraverso la sua professione di fede. Infatti, la Chiesa non può giudicare ciò che è interiore all’anima, ma giudica dai segni esteriori che osserva.
Per questo motivo, Papa Benedetto XIV (1675-1758), nel suo trattato sulla canonizzazione dei santi, spiega che non è possibile affermare il martirio di una persona che non appartiene alla Chiesa.
Questo significa che non possano esserci martiri al di fuori dei confini visibili della Chiesa? È possibile, continua Benedetto XIV, ma in tal caso sono «martiri davanti a Dio e non davanti alla Chiesa», che non può giudicarli. Riceveranno in Cielo la ricompensa destinata ai martiri, ma rimangono sconosciuti a noi quaggiù.
Quindi, questa dottrina professata da Giovanni Paolo II, Francesco e ora Leone XIV, oltre ad essere priva di fondamento teologico, secondo Benedetto XIV, ha l’effetto di cancellare le differenze tra la Chiesa cattolica e le altre religioni. Dissolve il confine tra l’unica vera Chiesa e tutti coloro che se ne sono separati.
Crea anche la sensazione che si possa essere salvati indifferentemente in qualsiasi religione e contribuisce a quel relativismo distruttivo della vera fede, che trova il suo punto di partenza nella dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II.
Non esistono santi comuni a tutte le confessioni e tradizioni cristiane. La Chiesa non ha il potere di dichiararlo. Possiamo certamente pregare per i cristiani non cattolici, ma non possiamo pregarli.
Articolo previamente apparso su FSSPX.News
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Immagine di Beato Angelico (13955-1455), I precursori di Cristo con santi e martiri (circa 1423-1424), National Gallery, Londra
Immagine di Fr Lawrence Lew, OP, via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
Spirito
Cardinale Burke: il messaggio di Fatima mette in guardia dall’«apostasia pratica del nostro tempo»

Cardinal Burke: Fatima “speaks about the practical apostasy of our time that is the going away from Christ by so many in the Church, & the violence & death which are its fruit”
Many “embrace the confusion, lies, & violence of contemporary culture. Their lives contradict the most… pic.twitter.com/OPKhNEji75 — Michael Haynes 🇻🇦 (@MLJHaynes) July 14, 2025
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Spirito
I riti nella Chiesa cattolica

Il termine «rito» si riferisce comunemente all’ordine della preghiera ufficiale, ovvero alla norma dell’azione liturgica stabilita dall’autorità e che trova la sua espressione pubblica e concreta nella liturgia. Il III secolo vide i primi segni di liturgie diverse nelle tre grandi metropoli dell’Impero: Roma, Alessandria e Antiochia.
Nel IV secolo emersero le zone liturgiche, costituite secondo le grandi divisioni politiche dell’epoca, dove alla fine prevalsero le forme liturgiche che costituiscono la base dei riti odierni.
Rito latino
In Occidente, la liturgia derivata da Roma prevale universalmente. L’antichissima liturgia gallicana, ampiamente utilizzata e fonte di numerosi elementi per le liturgie locali e persino per la liturgia romana, fu sostituita, a partire dall’epoca di Carlo Magno, dalla liturgia romana.
Lo stesso accadde nell’XI secolo per la liturgia ispanica o mozarabica, che in alcuni elementi si avvicinava alla liturgia gallicana. Fu ripresa nel XVI secolo in una cappella della cattedrale e in alcune parrocchie di Toledo, dove è ancora conservata.
Nell’arcidiocesi di Milano e in alcune parrocchie delle diocesi di Bergamo, Novara, Pavia e Lugano è ancora vigente la liturgia ambrosiana, riorganizzata da san Carlo Borromeo.
Diverse particolarità delle liturgie locali furono abolite dal Concilio di Trento, poiché da due secoli non avevano più alcuna autorità; alcune, tuttavia, sopravvissero fino al Concilio Vaticano II nelle arcidiocesi di Braga (rito di Braga) e di Lione (rito lionese) e nelle famiglie religiose, ad esempio tra i domenicani e i certosini (riti domenicano e certosino).
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Riti orientali
Il concetto di «rito» in senso stretto è riservato alle azioni liturgiche. Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, promulgato il 18 ottobre 1990, ne definisce una nozione più ampia, che si estende all’intero «patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare» delle singole Chiese orientali.
Questo patrimonio trae origine da una delle seguenti tradizioni: alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana. Tre di queste hanno avuto origine nell’Impero romano: alessandrina e costantinopolitana in Cappadocia, antiochena a Gerusalemme; due sono nate alla periferia dell’Impero: caldea in Mesopotamia e Persia, e armena per gli armeni.
La tradizione alessandrina conobbe uno sviluppo particolare in Etiopia, dove subì l’influsso di quella antiochena, mentre quella costantinopolitana o bizantina si conservò, senza subire profonde modificazioni, nelle Chiese nate dal Patriarcato stesso.
Sia la tradizione alessandrina che quella antiochena, nelle comunità fedeli ai concili di Efeso e di Calcedonia, furono gradualmente sostituite, dopo le controversie cristologiche del V secolo, dalla tradizione costantinopolitana, cioè quella dell’Impero e della Corte.
Così, a partire dal Medioevo, la liturgia alessandrina fu praticata solo dagli oppositori del Concilio di Calcedonia in Egitto ed Etiopia e di quello di Antiochia in Siria, Palestina e Mesopotamia, nonché dai Maroniti, che in seguito vi apportarono alcune modifiche.
A coloro che sono in comunione con la Chiesa cattolica, la Santa Sede lascia normalmente il proprio patrimonio. È un principio già affermato da San Leone IX: «La Chiesa romana sa che le consuetudini diverse a seconda del luogo e del tempo non impediscono la salvezza dei credenti, quando un’unica fede, operando attraverso la carità il bene che può, raccomanda tutti gli uomini a un solo Dio».
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Tradizione alessandrina
Questa tradizione si divise in due: egiziana ed etiope. Dominò in Egitto fino al XIII secolo, quando fu abbandonata a favore della tradizione costantinopolitana. Dopo la conquista musulmana, l’arabo soppiantò gradualmente il greco, di cui rimangono solo poche tracce (il rito copto).
In Etiopia ed Eritrea, la liturgia alessandrina subì profonde modifiche e si arricchì di nuovi testi, influenzati dai testi antiocheni. La lingua liturgica utilizzata è stata il Ge’ez, già lingua ufficiale nel V secolo, quando furono effettuate le prime traduzioni di testi biblici e liturgici in Axum (rito Ge’ez).
Tradizione antiochena
Formatasi liturgicamente a Gerusalemme e poi soprattutto ad Antiochia, e diffusa in Palestina, Siria e Mesopotamia settentrionale, questa tradizione si diffuse gradualmente a partire dalla seconda metà del XVII secolo fino ai cristiani di San Tommaso nell’India meridionale. I maroniti conservarono la tradizione antiochena, con modifiche in senso latino (rito maronita).
Praticato inizialmente in greco e siriaco, oggi è celebrato solo in siriaco con molte parti in arabo, in particolare tra i siriani (rito siro-antiocheno). I Malankaresi, cattolici di tradizione antiochena dell’India, usano, oltre al siriaco, il malayalam (rito siro-malankarese).
Tradizione armena
La tradizione armena si sviluppò a partire da testi antiocheni, con notevole influenza dei testi cappadoci e bizantini, ma con un notevole elemento originale fin dai tempi più antichi (rito armeno). Elementi latini furono introdotti nel Medioevo.
La lingua liturgica è l’armeno classico, lingua ufficiale dell’Armenia nel V secolo. In alcune eparchie del Patriarcato cattolico di Cilicia (nell’attuale Turchia sud-orientale), si osserva un crescente uso liturgico dell’arabo.
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Tradizione caldea
Questa tradizione si sviluppò indipendentemente nell’ex Impero Sasanide, da cui il termine «rito persiano». Dal XVII secolo in poi, il termine «caldeo» prevalse a Roma, ma le regioni abitate dai caldei la chiamarono «siro-orientale» (rito caldeo).
Questa eredità rituale fu trasmessa dai missionari della Mesopotamia all’Asia centrale, alla Cina e all’India. L’uso del siriaco, scritto e pronunciato in modo molto diverso da quello usato in Siria, si conservò quasi esclusivamente nella liturgia. In Mesopotamia, alcune chiese adottarono l’usanza di leggere pericopi scritturali e altre formule in arabo.
Il ramo più numeroso è la Chiesa siro-malabarese, che, secondo la tradizione, risale all’apostolo San Tommaso. La lingua liturgica usata oggi è il malayalam (rito siro-malabarese).
Tradizione costantinopolitana o bizantina
Questa tradizione, spesso chiamata «rito greco» in Occidente, si sviluppò a Costantinopoli, anticamente Bisanzio, essenzialmente da quella di Antiochia, ma con elementi provenienti da Alessandria e dalla Cappadocia (rito greco o bizantino).
Nel corso dei secoli, i testi liturgici e quelli relativi alla disciplina canonica di Costantinopoli furono tradotti dal greco nelle lingue dei popoli sottoposti alla giurisdizione dei Patriarchi di Costantinopoli, Alessandria e Antiochia, aderendo alla fede di Calcedonia: prima in georgiano, siriaco, paleoslavo e arabo, poi in romeno e, più di recente, in molte altre lingue.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Spirito
«Decimare la popolazione, rendere schiavi i superstiti»: mons. Viganò contro il green deal


La «conversione» green
Dichiarazione a proposito dell’endorsement vaticano alla frode climatica dell’Agenda 2030
La teoria che attribuisce all’uomo la responsabilità dei cambiamenti climatici derivanti dall’emissione di CO2 nell’atmosfera è sostenuta da una parte ampiamente minoritaria della comunità scientifica, peraltro in gravissimo e palese conflitto di interessi. La sua sovraesposizione mediatica è data dalla sistematica censura di tutte le voci davvero indipendenti e autorevoli, e costituisce una totale falsificazione della realtà. È sulla riduzione della CO2 che si basa l’intero castello di menzogne e frodi che dovrebbero legittimare la «transizione green». In realtà l’anidride carbonica è indispensabile alla sopravvivenza della vita sul Pianeta, e ridurla significa distruggere ogni forma vivente sulla Terra. E quand’anche il riscaldamento globale fosse reale, esso non avrebbe alcun significativo rapporto con l’attività umana, essendo originato principalmente dall’attività solare. Infine, le soluzioni proposte per porre rimedio all’aumento dell’anidride carbonica suonano risibili, poiché vengono adottate solo da una parte delle Nazioni, mentre Cina e India continuano a costruire centrali a carbone e ad utilizzare l’energia derivante dai combustibili fossili. D’altra parte, gli impianti per la produzione di energia alternativa risultano molto più inquinanti di quelli tradizionali.Sostieni Renovatio 21
- L’emergenza climatica è una frode, in quanto non è basata su dati oggettivi, e non è attribuibile all’azione umana (e ancor meno risolvibile solo da parte dei Paesi occidentali mediante la deindustrializzazione forzata);
- questa crisi – come quella pandemica, quella economica e quella bellica – costituisce un pretesto per l’imposizione di misure coercitive ad esclusivo danno dei cittadini, minacciati non solo nei loro beni ma anche nella loro salute e nella loro stessa esistenza;
- gli artefici del green deal hanno come esplicito scopo della transizione ecologica l’eliminazione fisica di gran parte della popolazione mondiale e l’instaurazione di una dittatura tecnocratica volta al controllo sociale e alla limitazione delle libertà fondamentali;
- per dare corpo alla frode green, le organizzazioni coinvolte si avvalgono di tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica e di ingegneria sociale, ricorrendo non solo alla falsificazione sistematica delle notizie tramite i media – ad esempio attribuendo le morti di questi giorni all’emergenza climatica – ma anche creando artificialmente eventi meteorologici disastrosi (pensiamo alle distruzioni provocate a Maui nelle Hawaii, a Valencia in Spagna e più recentemente in Texas tramite l’impiego della geoingegneria e delle tecnologie dell’HAARP, High frequency Active Auroral Research Programme).
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