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La religione infernale che separa la Cattedra di Pietro dall’altare: omelia di mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia di monsignor Carlo Maria Vigano per la festa della Cattedra di San Pietro in Roma (18 gennaio).

 

 

CATHEDRA VERITATIS

Omelia nella festa della Cattedra di San Pietro in Roma

 

 

 

Deus, qui beato Petro Apostolo tuo,
collatis clavibus regni cælestis,
ligandi atque solvendi pontificium tradidisti:
concede; ut, intercessionis ejus auxilio,
a peccatorum nostrorum nexibus liberemur.

 

Sia lodato Gesù Cristo.

 

Oggi la Chiesa in Roma celebra la festa della Cattedra di San Pietro, con la quale l’autorità che Nostro Signore conferì al Principe degli Apostoli trova nella Cattedra il suo simbolo e la sua espressione ecclesiale.

 

Troviamo tracce di questa celebrazione sin dal sec. III, ma fu in occasione dell’eresia luterana che Paolo IV, nel 1588, stabilì che la festa della Cattedra qua primum Romae sedit Petrus avesse luogo il 18 Gennaio, in risposta alla negazione della presenza dell’Apostolo nell’Urbe. L’altra festa, per la Cattedra della prima Diocesi fondata da San Pietro, Antiochia, è celebrata dalla Chiesa universale il 22 Febbraio.

 

Permettetemi di farvi notare questo aspetto importante: come il corpo umano sviluppa gli anticorpi al sorgere della malattia, in modo da poterla sconfiggere quando ne viene contagiato; così il corpo ecclesiale si difende dal contagio dell’errore al suo presentarsi, affermando con maggiore incisività quegli aspetti del dogma minacciati dall’eresia.

 

Per questo, con grande saggezza, la Chiesa ha proclamato delle Verità di Fede in determinati momenti e non prima, poiché quelle Verità erano sino ad allora credute dai fedeli in forma meno esplicita e articolata e non occorreva ancora precisarle.

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Alla negazione ariana della natura divina di Nostro Signore rispondono i sacri Canoni del Concilio Ecumenico di Nicea e ad essi fanno eco le splendide composizioni della liturgia antica; alla negazione del valore sacrificale della Messa, della Transustanziazione, dei suffragi, delle indulgenze rispondono i sacri Canoni del Tridentino, e con essi i testi sublimi della Liturgia.

 

Alla negazione della fondazione della Diocesi di Roma da parte dell’Apostolo Pietro in chiave antipapale risponde la festa odierna, voluta da Paolo IV proprio per ribadire la verità storica impugnata dai Protestanti e rafforzare la dottrina che ne deriva.

 

In modo opposto agiscono gli eretici e i loro epigoni neomodernisti che infestano la Chiesa di Cristo da ormai sessant’anni. E dove essi non negano sfrontatamente il Magistero cattolico, ecco che tentano di indebolirlo tacendolo, omettendolo, formulandolo in modo da renderlo equivocabile e quindi accettabile anche da chi lo nega. Così agirono gli eresiarchi del passato; così hanno agito i novatori al Vaticano II; così agiscono oggi coloro che, per non essere accusabili di eresia formale, cercano di cancellare quelle «difese immunitarie» di cui si era dotata la Chiesa, in modo da far cadere in errore i fedeli e contagiarli con la peste dell’eresia.

 

Quasi tutto ciò che, crescendo armoniosamente come un fanciullo che diventa adulto e si rafforza nel corpo e nello spirito, il Corpo Mistico aveva sapientemente sviluppato nel corso dei secoli – ed in particolare durante il secondo millennio dell’era di Cristo – è stato volontariamente oscurato e censurato, con la scusa ingannatrice di ritornare alla primigenia semplicità dell’antichità cristiana, e con lo scopo inconfessabile di adulterare la Fede cattolica per compiacere i nemici della Chiesa.

 

Se prendete il Messale montiniano, non troverete in esso eresie esplicite; ma se lo confrontate con il Messale tradizionale, vi accorgerete che l’aver omesso tante preghiere composte in difesa della Verità rivelata è stato più che sufficiente per rendere la Messa riformata accettabile anche per i Luterani, come hanno essi stessi ammesso dopo la promulgazione di quel rito funesto ed equivoco.

 

A conferma di ciò, anche le feste della Cattedra di San Pietro in Roma e in Antiochia sono state unificate, in nome di quella cancel culture che la setta modernista ha adottato in ambito ecclesiastico ben prima che la sinistra woke se ne appropriasse in ambito civile.

 

Oggi celebriamo le glorie del Papato, di cui è appunto simbolo la Cathedra Apostolica che il genio del Bernini ha artisticamente composto sull’altare dell’abside della Basilica Vaticana, sovrastata dalla vetrata di alabastro con lo Spirito Santo e retta da quattro Dottori della Chiesa: Sant’Agostino e Sant’Ambrogio per la Chiesa latina, Sant’Atanasio e San Giovanni Crisostomo per la Chiesa greca.

 

Nel progetto originale, rimasto intatto attraverso i secoli, la Cattedra si trovava sopra un altare, che la furia devastatrice dei novatori non ha risparmiato, spostandolo tra l’abside e il baldacchino della Confessione. Eppure proprio nell’unità architettonica di altare e cattedra – oggi volutamente cancellata – troviamo il fondamento della dottrina del Primato di Pietro, che è fondato su Cristo, lapis angularis, così come è di pietra l’altare del sacrificio, anch’esso simbolo di Cristo.

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Celebriamo il Papato in una fase storica di grave crisi e di apostasia, assurta sino a quel Soglio su cui Pietro sedette per primo. E mentre ci si strazia il cuore nel contemplare le rovine causate dalla devastazione dei novatori in danno di tante anime e della gloria della Maestà divina; mentre imploriamo al Cielo una luce che ci permetta di comprendere come coniugare il Non prævalebunt con lo stillicidio di eresie e scandali diffusi da colui che la Provvidenza ci ha inflitto a capo del corpo ecclesiale come punizione per i peccati compiuti dalla Gerarchia in questi decenni; mentre vediamo serpeggiare la divisione tra quanti si illudevano di avere ancora un Papa segregato nel Monastero… e lo scisma nelle Diocesi dell’Europa del Nord con il loro sciagurato cammino sinodale fortissimamente voluto da Bergoglio, ci cade sotto gli occhi la profezia di Leone XIII di felice memoria, il quale volle inserire nella preghiera dell’Esorcismo contro Satana e gli angeli apostatici quelle tremende parole che all’epoca dovevano suonare quasi scandalose, ma che oggi comprendiamo nel loro senso soprannaturale:

 

Ecclesiam, Agni immaculati sponsam, faverrimi hostes repleverunt amaritudinibus, inebriarunt absinthio; ad omnia desiderabilia ejus impias miserunt manus. Ubi sedes beatissimi Petri et Cathedra veritatis ad lucem gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et impietatis suæ; ut percusso Pastore, et gregem disperdere valeant.

 

Nemici terribili hanno riempito la Chiesa, sposa dell’Agnello immacolato, di amarezze, l’hanno avvelenata con l’assenzio; hanno messo le loro empie mani su tutte le cose desiderabili. Là dove la sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della verità fu costituita per illuminare le genti, ivi hanno posto il trono della loro abominazione ed empietà, affinché abbattendo il Pastore potessero disperdere anche il gregge.

 

Non sono parole scritte a caso: esse vennero redatte dopo che Leone XIII, alla fine della Messa, ebbe una visione in cui il Signore concedeva a Satana un periodo di tempo di circa cent’anni per mettere alla prova gli uomini di Chiesa. Esse riecheggiano il messaggio della Vergine Santissima a La Salette, cinquant’anni prima: «Roma perderà la fede e diverrà sede dell’Anticristo», e precedono di poco più di un decennio quella terza parte del Segreto di Fatima in cui, con ogni verosimiglianza, la Madonna prediceva l’apostasia della Gerarchia con il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica.

 

Qualsiasi fedele, nel corso dei secoli, ha potuto guardare a Roma come a un faro di verità. Nessun Papa, nemmeno i più controversi della Storia come Alessandro VI, ebbero mai l’ardire di usurpare la propria sacra Autorità Apostolica per demolire la Chiesa, adulterarne il Magistero, corromperne la Morale, banalizzarne la Liturgia. Nelle tempeste più sconvolgenti, la Cattedra di Pietro è rimasta inconcussa e, nonostante le persecuzioni, essa non è mai venuta meno al mandato conferitole da Cristo: Pasci i miei agnelli. Pasci le mie pecorelle (Gv 21, 15-19).

 

Oggi, e da ormai dieci anni, pascere gli agnelli e le pecorelle del gregge del Signore è considerato da colui che occupa il Soglio di Pietro come una «solenne sciocchezza», e il comando che il Signore ha dato agli Apostoli – Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato (Mt 28, 19-20) – è visto come deplorevole «proselitismo», quasi la missione divina della Santa Chiesa fosse paragonabile alla propaganda ereticale delle sette.

 

L’ha detto il 1ᵒ ottobre 2013; il 6 Gennaio 2014; il 24 Settembre 2016; il 3 Maggio 2018; il 30 Settembre 2018; il 6 Giugno 2019; il 20 Dicembre 2019; il 25 Aprile 2020 e ancora lo scorso 11 Gennaio. E qui crolla l’ultimo, vetusto fastigio di quello che fu il Vaticano II, che della missionarietà fece la propria parola d’ordine, senza comprendere che per annunciare Cristo a un mondo paganizzato occorre anzitutto credere nelle Verità soprannaturali che Egli ha insegnato agli Apostoli e che la Chiesa ha il dovere di custodire fedelmente.

 

Annacquare la dottrina cattolica, tacerla, tradirla per compiacere la mentalità del secolo non è opera di Fede, perché questa virtù si fonda su Dio, che è Verità somma; non è opera di Speranza, perché non si può sperare la salvezza o l’aiuto di un Dio di Cui si rifiuta l’autorità rivelante e l’amore salvifico; non è opera di Carità, perché non si può amare Colui del Quale si nega l’essenza.

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Qual è il vulnus che ha colpito il corpo ecclesiale, rendendo possibile questa apostasia dei vertici della Gerarchia, al punto da destare scandalo non solo nei Cattolici, ma anche nelle persone del mondo? È l’abuso dell’autorità.

 

È il credere che il potere connesso all’autorità possa essere esercitato per lo scopo opposto a quello che legittima l’autorità stessa.

 

È prendere il posto di Dio, usurpandoGli la suprema potestà per decidere cosa è giusto e cosa non lo è, cosa si può ancora dire alle persone e cosa dev’esser considerato fuori moda o sorpassato, in nome del progresso e dell’evoluzione.

 

È usare il potere delle Sante Chiavi per sciogliere quel che deve essere legato e legare quel che deve essere sciolto.

 

È non comprendere che l’autorità appartiene a Dio e a nessun altro, e che tanto i governanti delle Nazioni quanto i Prelati della Chiesa sono tutti gerarchicamente sottoposti a Cristo Re e Pontefice.

 

È insomma separare la Cattedra dall’altare, l’autorità del Vicario e del Reggente da quella di Colui che la rende sacra, ratificata dall’alto, perché ne possiede la pienezza e ne è l’origine divina.

 

Tra i titoli del Romano Pontefice ricorre, assieme a Christi Vicarius, anche quello di Servus servorum Dei. Se il primo è stato sdegnosamente rifiutato da Bergoglio, la sua scelta di mantenere il secondo suona come una provocazione, come dimostrano le sue parole e le sue opere.

 

Verrà il giorno in cui ai Presuli della Chiesa sarà chiesto di chiarire quali intrighi e quali cospirazioni abbiano potuto condurre sul Soglio chi agisce come servo dei servi di Satana, e per quale motivo essi abbiano assistito pavidamente alle sue intemperanze o si siano resi complici di questo orgoglioso tiranno eretico.

 

Tremino coloro che sanno e che tacciono per falsa prudenza: col loro silenzio essi non proteggono l’onore della Santa Chiesa, né preservano dallo scandalo i semplici. Al contrario, essi sprofondano la Sposa dell’Agnello nell’ignominia e nell’umiliazione, e allontanano i fedeli dall’Arca di salvezza proprio nel momento del diluvio.

 

Preghiamo perché il Signore si degni di concederci un santo Papa e dei santi governanti. ImploriamoLo di porre fine a questo lungo periodo di prova, grazie al quale – come ogni evento permesso da Dio – stiamo comprendendo quanto sia fondamentale instaurare omnia in Christo, ricapitolare tutto in Lui; quanto sia infernale – letteralmente – il mondo che rifiuta la Signoria di Cristo, e quanto ancor più infernale una religione che si spoglia con spregio delle sue vesti regali – vesti tinte del Sangue dell’Agnello sulla Croce – per farsi serva dei potenti, del Nuovo Ordine Mondiale, della setta globalista.

 

Tempora bona veniant. Pax Christi veniat. Regnum Christi veniat.

 

E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

18 Gennaio 2023
Cathedra sancti Petri Apostoli, qua primum Romae sedit

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Immagine di Fczarnowski via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
 

 

 

 

 

 

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Corredentrice e Mediatrice: cosa chiedevano i vescovi alla vigilia del Vaticano II

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Il numero di novembre 2025 del Courrier de Rome assume un significato particolare alla luce della Nota Mater populi fidelis del cardinale Fernández, che rifiuta i titoli di Corredentrice e Mediatrice di tutte le Grazie. Per cogliere la portata di questa rottura, i due studi storici di padre Jean-Michel Gleize costituiscono il cuore di questo numero e ne costituiscono l’interesse principale.   Questi articoli richiamano alla mente un fatto significativo, spesso dimenticato: alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’episcopato cattolico chiese quasi all’unanimità una definizione di Corredenzione e Mediazione Universale. Le citazioni che l’autore estrae dagli Atti conciliari sono sorprendenti. Il vescovo di Malta, l’arcivescovo Galea, vedeva in questa definizione «un grandissimo aiuto» per riunire i cristiani separati, affermando che questa verità sarebbe stata accolta «come la voce della Madre Celeste che vuole riportare tutti i suoi figli all’unità».   I vescovi spagnoli, da parte loro, hanno affermato inequivocabilmente che Maria «merita di essere Mediatrice presso il Mediatore» e che, secondo San Pio X, è «la prima dei ministri a distribuire le grazie».   La Polonia, fedele alla sua tradizione mariana, ha espresso con forza il sentimento del popolo cristiano. Il vescovo Blecharczyk ha osservato che tutti – «ignoranti o dotti» – credono che Maria, suscitata da Dio, sia «la collaboratrice dell’opera della Redenzione” e “la Mediatrice di tutte le grazie che scaturiscono dalla Redenzione come dalla loro fonte».

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Quanto al vescovo Czerniak, egli ha affermato che questa dottrina è ormai così chiara, così profondamente radicata nella Tradizione e nell’insegnamento dei papi, che deve essere resa professione di fede: «La Beata Vergine Maria deve essere dichiarata Mediatrice di tutte le grazie […] perché la volontà di Dio l’ha creata come Mediatrice universale».   Questi testi dimostrano che la dottrina di Maria, Corredentrice e Mediatrice, non si basava sulle opinioni di teologi isolati, ma sulla voce unificata della Chiesa docente, che vedeva in questa definizione un bene spirituale importante per i fedeli e persino un mezzo per convertire i non cattolici. Le poche obiezioni registrate – solo due autentiche – non riguardavano mai la dottrina in sé, ma piuttosto considerazioni di opportunità pastorale.   Rivelando questa unanimità episcopale, padre Gleize dimostra che la Nota del Dicastero, riducendo la cooperazione di Maria a un mero esempio, «non riflette accuratamente la dottrina del Magistero della Chiesa».   Questo numero offre quindi uno spunto cruciale per comprendere l’attuale dibattito mariano: lungi dall’essere spunti devozionali, Corredenzione e Mediazione Universale sono al centro della fede cattolica trasmessa dai pastori. Leggere questo dossier significa riscoprire questa profonda armonia, oggi oscurata, tra la Tradizione viva della Chiesa e la verità sulla Madre di Dio.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine: Chiesa cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso (Grove City, Ohio) – Statua della Beata Vergine Maria Immagine di Nheyob via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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La Vergine Corredentrice contro il Serpente Maledetto: omelia dell’Immacolata di mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò nell’Immacolata Concezione della Santa Vergine Maria

 

 

 

 

Tu Reparatrix

Omelia nell’Immacolata Concezione della Beatissima Semprevergine Maria

 

Tuti sumus te tutante,
Virgo potestatis tantæ,
Dei ligans omnipotentiam.

Fa’ che possiamo esser protetti da Te,
Vergine che hai avuto tanto potere da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.

Sequentia O mira claritas

Questo giorno benedetto, dedicato alla celebrazione dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, ci offre l’occasione di tessere una pubblica e solenne riparazione all’onore dell’Augustissima Madre di Dio, dopo che un odioso documento vaticano – la Nota Mater populi fidelis – ha osato dichiarare «sempre impropria» l’attribuzione del titolo di Mediatrice e Corredentrice a Colei che il Padre ha voluto come Figlia, il Figlio come Madre e lo Spirito Santo come Sposa.

 

Quel serpente maledetto, cui Ella schiaccerà il capo, continua ad insidiarLe il virgineo calcagno, sprizzando il veleno mortifero che già vomitarono gli eresiarchi di tutti i tempi. A riprova dell’inaudito affronto alla Santissima Madre, valga lo scandalo dei semplici, che La venerano come Addolorata Corredentrice e come Mediatrice di tutte le Grazie.

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Nel celebrare le glorie della nostra Signora e Regina, non possiamo non vedere nella Sua Concezione Immacolata la necessaria premessa e preparazione non solo dell’Incarnazione del Verbo Eterno del Padre, ma anche dell’immolazione della Madre del Verbo Incarnato, vittima pura, santa e immacolata per Grazia specialissima, prima creatura degna di unirSi al Figlio nell’oblazione al Padre.

 

Chi più di Lei, preservata da ogni macchia, sarebbe stato degno di tale privilegio? Chi più di Lei avrebbe avuto titolo di offrire la propria mistica co-Passione al Sacrificio perfetto di Nostro Signore? E come avrebbe Ella potuto rispondere con maggiore carità all’esempio del divin Figlio, se non lasciandoSi trafiggere, con altrettanta carità, dalle acuminate spade che fanno di Lei la Mater dolorosa e la Regina Crucis?

 

Nostra Signora è infatti Regina della Croce in virtù della co-Passione e della Corredenzione. Se Cristo regna dalla Croce – Regnavit a ligno Deus; se la Croce è il trono di gloria della divina e universale Signoria del Re dei Re; come avrebbe potuto l’Augustissima Regina meritare questo titolo, se non allargando misticamente le proprie braccia sulla Croce del Figlio?

 

Mediante la mistica partecipazione alla Passione del Salvatore, Ella è Reparatrix, Riparatrice dei peccati grazie ai meriti acquisiti ai piedi della Croce: Redentrice anch’Ella, soli secunda Numini, seconda solo a Dio, e dunque Corredentrice, Stella polare nella notte oscura che riverbera la sola luce del Sol Justitiæ. Infine, grazie ai quei meriti Ella è costituita Mediatrix, Mediatrice di tutte le Grazie: tanto quelle proprie, quanto quelle infinite del Figlio. Ella è amministratrice del Tesoro dei meriti infiniti di Cristo, al quale si aggiungono i meriti dei Santi e – vale ricordarlo – anche i meriti di quanti, nel corso della loro vita, hanno completato nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo, per il bene del Suo Corpo che è la Chiesa (Col 1, 24).

 

L’offerta della Vergine – la più perfetta delle creature, eletta a Tabernacolo dell’Altissimo ed Arca dell’Alleanza – non poteva non costituire il più prezioso ornamento del Sacrificio di Cristo, e il più fulgido esempio di carità per noi, membra vive di quel Corpo Mistico che tutti ci unisce sulla Croce, memori delle parole del Salvatore: Chi vuole venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua (Mt 16, 24).

 

Quale guida migliore, in questa via Crucis personale ed ecclesiale, se non Colei che accompagnò il Signore con le Pie Donne lungo il Calvario? Colei che il Signore agonizzante ci ha dato per Madre e alla Quale ci ha affidati come figli? Colei che Lo ha visto spirare pro peccatis suæ gentis, per i peccati del Suo popolo? Colei che ne accolse il Corpo esanime e Lo pose nel sepolcro? Lo ripetiamo, forse senza attenzione, quando cantiamo la sequenza Stabat MaterCrucifixi fige plagas cordi meo valide: imprimi a fondo nel mio cuore le piaghe del [Tuo Figlio] Crocifisso.

 

La Vergine Immacolata – Colei che mai avrebbe avuto bisogno di espiare colpe dalle quali era stata preservata – si fa Vittima con la Vittima divina, varca l’unica soglia che ammette al Cielo e da quella gloria eterna con il Figlio continua, come Madre e Avvocata, a riversare i fiumi di Grazie che la Provvidenza Le ha affidato come Tesoriera di Dio.

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Viviamo in un tempo di grandi sovvertimenti. La Vergine Santissima ci ha rassicurati: Alla fine, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Nella certezza del trionfo finale, cari fratelli, è contenuta anche la certezza della Croce, passaggio obbligato per una vera sequela Christi. La Regina Crucis ci dice: alla fine. Alla fine della salita verso il Calvario, perché è da quel trono che Ella ha misticamente conquistato unendoSi al Figlio nel Sacrificio al Padre che la Regina Crucis trionfa con il Suo divin Figlio. Dal trono della Croce, Ella regna come dispensatrice di tutte le Grazie che l’onnipotenza divina Le affida per amministrarle.

 

Affidiamo a Lei la Barca di Pietro, perché Ella la guidi e la accompagni nella passio Ecclesiæ come già accompagnò il Suo divin Figlio, Capo del Corpo Mistico, nella Sua dolorosa Passione, verso il trionfo della Pasqua eterna. Affidiamoci alla Vergine Immacolata con le parole della Sequenza O mira claritas:

 

Fa’ che possaiamo esser protetti da Te,
Vergine Immacolata,
che tanto potere hai avuto da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.

 

E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

8 Dicembre MMXXV
In Conceptione Immaculata B.M.V.

 

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Immagine: Federico Barocci (1535–1612), Immacolata Concezione (circa 1575), Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.

Immagine di Mongolo1984 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

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Io difendo Ambrogio e Ambrogio difende me

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Come ogni anno Renovatio 21 pubblica questo articolo nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano. Facciamo gli auguri a tutti i nostri lettori milanesi, che sono tanti – per Renovatio 21 Milano è di gran lunga la città con più visitatori, e non poteva essere altrimenti, essendo città italiana di massima intelligenza. Rinnoviamo, ancora una volta, l’appello a pregare il Santo milanese, perché la necessità, infestata da eretici e corrotti, da violenti e da volgari, da invertiti e disperati, possa risalire dall’abisso in cui costoro la stanno spingendo. Costoro non conoscono Ambrogio, non sentono il suo calore, non sentono il bisogno della sua protezione. Il flagello di Ambrogio ci aiuti a cacciare da Mediolano parassiti e demòni. A tutti coloro che comprendo quanto stiamo scrivendo, diciamo: Bon Sant Ambrœus a tucc!   Fu Penelope, una ragazza greca, a mostrarmelo per la prima volta.   In realtà mi porse una cartolina. La foto di un mosaico: un uomo dell’antichità, con la barba i baffi e i capelli corti. Un volto semplice, immerso in paramenti che invece parevan importanti. Sopra questa figura c’era scritto solo «AMBROSIVS».   «È Ambrogio. È il protettore di Milano. Tenete questa foto con voi».   Ciò accadeva, a Milano, quasi una ventina di anni fa. Per me, più di un’era geologica. Un altro pianeta, un’altra vita.   Si era, appunto, nei giorni di Sant’Ambrogio. Vivevo a Milano da un anno ma io mai avevo sentito il bisogno di sapere chi fosse Ambrogio. Mai avevo avvertito la necessità di guardarlo in faccia. Del resto, una faccia non poteva averla. Sant’Ambrogio era una festa, non una persona.   Eppure, pure in quella passata incarnazione del mio essere in cui la Fede era remota, avevo compreso che il gesto di Penelope aveva un valore inusuale. Non mi aveva passato un disco (allora c’erano) e neppure un libro (di quelli che non leggi e non restituisci). Sentivo che voleva trasmettermi qualcosa di speciale. Quasi un oggetto magico, un talismano: all’epoca le mie categorie cerebrali erano quelle.   Penelope aveva studiato negli anni Novanta con quella che allora era la mia fidanzata, una ragazza tedesco-americana.   Avevano studiato quella cosa che si chiama «design», che allora era quasi una cosa seria. Lo avevano fatto a Londra, al tempo centro di rimescolamento della intraprendenza giovanile mondiale, quel tipo di frullatore dove gli ingredienti erano americani, giapponesi, libanesi, russi, austriaci, coreani, fiamminghi, croati, i cui schizzi ormai apolidi si riversavano ad ondate nelle case di moda o negli studi pubblicitari di Milano. Erano giorni corruschi e distratti.   Niente di quel mondo poteva portarmi a pensare a quella inspiegabile scintilla che vedevo negli occhi di Penelope, un qualcosa che allora non potevo sapere come chiamare, ma ora sì: devozione. Penelope aveva ritrovato la Fede proprio in quel bailamme di colore e nichilismo che immergeva la nostra giovinezza.   Era cristiana ortodossa, anche questo scuoteva la mia ignoranza. Ma come, una ortodossa che mi parla di un santo cattolico?   «I santi venuti prima dello scisma sono santi per tutti» mi edusse con quell’accento soave. Io mica lo sapevo.

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Devozione

Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio.   Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso.   C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini.   Ero entrato nella cripta.   Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi.   Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre.   Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro?   La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione.   La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica.   Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi.   A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa.   Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio.   Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli.   Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile.   Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città?   Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade?   Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi.   Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.

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Tales ambio defensores

Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano.   Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica.   Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo.   Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio.   La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona.   Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione.   Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri.   In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare.   Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso.   «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani).   Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».

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Nemici di Ambrogio

Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici.   Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui.   Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare.   Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943.   Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria.   Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita.   Vogliono colpire Ambrogio.   Vogliono colpire la sua devozione.   Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio.   Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini.   Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.

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Don Ricossa mi ricorda, con tanto di documentazione, «che Cardini è stato membro del comitato scientifico della rivista massonica Ars Regia; che Cardini ha ricevuto e accettato un’onorificenza dal Grand’Oriente d’Italia; che Cardini ha scritto la prefazione ad un libro sui Templari del figlio dell’allora Gran Maestro della Massoneria Raffi, con i proventi del libro che vanno all’opera massonica degli Asili notturni; che Cardini ha partecipato a un convegno della Gran Loggia d’Italia, obbedienza di piazza del Gesù; che Cardini si riconosce nella Leggenda medioevale dei tre anelli, ripresa dal massone Lessing, e nell’idea di cristiani, ebrei e musulmani “fratelli in Abramo”; che per Cardini ha ragione Gad Lerner nel dire che Gesù Cristo non è cristiano ma ebreo, essendo il Cristianesimo una invenzione di Saulo di Tarso; che per Cardini non è neppure storicamente certo che Gesù Cristo sia esistito; che per Cardini il film su Ipazia, martire pagana vittima dei cristiani, è storicamente ineccepibile, e che d’altronde il Cristianesimo si è imposto con la violenza ben più che l’Islam. Per cui non stupiamoci se le preferenze di Cardini vadano a preti come don Gallo: “posso attestare che pochi come lui nella storia del cristianesimo sono stati altrettanto fedeli al messaggio del Cristo e alla missione della Chiesa nel mondo”».   «Quando ero vice presidente del CNR — mi dice Roberto de Mattei — organizzai a Roma un seminario internazionale sulle Crociate, ma ritenni di non invitare il professor Cardini, perché il suo è un lavoro di decostruzione dell’idea di Crociata, incompatibile con i risultati della più recente e accreditata letteratura scientifica. Cardini mi telefonò furioso e lo giudicai una mancanza di stile».   Lo stesso lavoro demolitorio e desacralizzante il Cardini lo porta su Ambrogio.   L’episodio che dà l’avvio all’elezione di Ambrogio all’episcopato, e cioè il bambino che urla in Chiesa «Ambrogio Vescovo!» trascinando con sé tutta Milano, è per Cardini una «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un evento da spin doctor in cui la «spontaneità popolare è accuratamente pilotata».   Tuttavia è la sottomissione di Teodosio che infastidisce di più il professore, «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».   Il famoso episodio in cui il vescovo Ambrogio piega l’Imperatore inducendolo alla penitenza rappresenta per l’autore qualcosa di intollerabile, perché emblema perfetto di un «progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».   In breve, quel che il Cardini non può sopportare è il primato della Chiesa sul mondo. Teodosio costretto alla penitenza dal vescovo Ambrogio per la strage di Tessalonica (Salonicco, in Grecia…) è per il vecchio studioso la base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio» ha delineato quella Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di Papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».   Comprendete? Papa Francesco — in effetti, il Papa più sottomesso all’Impero, l’Impero del Male — come antidoto ai danni provocati da Ambrogio.   La Chiesa non deve demandare al potere la penitenza se questo commette ingiuste stragi: capite l’attualità di questa richiesta?   Una Chiesa assoggettata al potere (come quella che stiamo vedendo oggi) è per il toscano la condizione giusta per la sposa di Cristo: «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene», tuttavia «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto»   Insomma, «forse senza di lui non avremmo avuto un conflitto tra mondo cattolico e modernità».   Tradotto: senza Ambrogio il cattolicesimo sarebbe naturaliter modernista.   Prendo questi virgolettati, che in me sortiscono l’effetto di amar ancora di più il mio Santo, da un articolone celebrativo che al libercolo in questione dedicò il Paolo Mieli sul primo quotidiano nazionale.   Una di quelle doppie paginate, sempre dense ed interessantissime a dire il vero, che una volta alla settimana consentono al pluri-ex-direttore del Corrierone di recensire qualche testo più o meno revisionista.   Il Mieli, a dire il vero, potrebbe aver qualche cavallo coinvolto nella corsa. Egli è figlio dell’ex agente del Psychological Warfare Branch dei servizi segreti britannici Ralph Merrill (all’anagrafe egiziana Renato Mieli) poi direttore dell’ANSA e de L’Unità finito però, poco dopo, ad esaltare l’ultraliberismo di Hayek e Von Mises (e per questo i fondi di Confindustria non gli sono mancati); soprattutto, possiamo dire che il Mieli Paolo è, come il padre, di origine ebraica.   Mai vorrei che vi fosse, in questo petardino editoriale contro Ambrogio, l’antico pregiudizio che vede il Santo come antisemita. Perché Ambrogio affrontò a testa alta l’Imperatore Teodosio anche un’altra volta.

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Nel 388, a Callinicum (ora Raqqa, l’ex-capitale dell’ISIS), una sinagoga fu data alle fiamme. Il governatore romano locale, sostenuto da Teodosio, decise che a pagare la ricostruzione dovesse essere il vescovo locale, ritenuto sobillatore degli incendiari.   Ambrogio scrisse all’Imperatore il suo dissenso:   «Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? (…) Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani (…) Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi?»   Ambrogio aveva centrato già allora tutta la questione dell’incompatibilità tra Stato e Chiesa quando per lettera chiese a Teodosio: «che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [cioè, del mantenimento dell’ordine pubblico, ndr] o il motivo della religione?».   È la medesima domande che si pose Andreotti quando capì che se non votava la legge sul libero aborto in Italia il suo governo sarebbe caduto. Sappiamo come si rispose. Lo sanno anche i 6 milioni di bambini ammazzati da quella legge, più aggiungiamo magari qualche milionata di vittime della conseguente pratica genocida della fecondazione assistita, che per ogni bambino sintetico nato ne ammazza almeno una ventina — quindi, altri milioni, molti di più, seguiranno.   Ambrogio, a differenza dei democristiani e dei loro patti con le potenze infernali, non faceva compromessi.   «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga — scrisse in un’altra epistola all’Imperatore — sì, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Rileggete: «perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Anche a secoli di distanza, come pensate che lo possano perdonare ebrei, falsi cristiani, servi degli dèi della morte?

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Tradidi quod et accepi

Voglio concludere.   Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta.   Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente?   No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace».   Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere.   Una cosa però l’ho fatta.   Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio.   S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano.   Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime.   Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua.   Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile.   Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana.   Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io.   Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità.   Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me.   Roberto Dal Bosco

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Immagine: Anonimo lombardo (inizio XVII secolo), Statua di Sant’Ambrogio di Milano nel Museo del Duomo, Milano. Statua a guglia in marmo di Candoglia. Immagine di Vassia Atanassova via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International  
       
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