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Epidemie

La carenza di vitamina D è collegata all’aumento di gravità e mortalità del COVID-19

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Renovatio 21 traduce e ripubblica questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense.

 

Renovatio 21 offre la traduzione di questo pezzo di CHD per dare una informazione a 360º.  Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

Il 7  aprile abbiamo suggerito quanto la vitamina D potesse essere determinante nelle infezioni da COVID-19 in base ai tempi della pandemia e alle popolazioni «a rischio». Abbiamo citato la letteratura che mostra che un sufficiente apporto di vitamina D ha ridotto il rischio di infezioni respiratorie acute e la gravità dell’infezione causata da altri virus. Abbiamo trovato diversi studi sull’uso di alti dosaggi di vitamina D in pazienti che devono utilizzare ventilatori che hanno mostrato risultati migliori, inclusa una ridotta mortalità. Un mese fa, abbiamo richiesto ulteriori ricerche.

 

Ora, nuovi studi su pazienti COVID-19 suggeriscono che la sufficienza di vitamina D potrebbe ridurre la gravità e la morte della malattia.

Nuovi studi su pazienti COVID-19 suggeriscono che la sufficienza di vitamina D potrebbe ridurre la gravità e la morte della malattia

 

Le associazioni sono forti

Il 9 aprile, i dati iniziali provenienti dalle Filippine su 212 pazienti confermati positivi al COVID-19 hanno mostrato che il livello di vitamina D era strettamente collegato alla gravità del COVID-19.

 

Lo studio ha suddiviso i pazienti in 4 categorie di gravità in base ai criteri stabiliti a Wuhan. I livelli erano:

 

  • Lieve: lievi caratteristiche cliniche senza polmonite
  • Ordinario – Polmonite confermata da TAC con febbre e altri sintomi respiratori
  • Grave – Ipossia (basso livello di ossigeno) e difficoltà respiratoria
  • Critico – Insufficienza respiratoria che richiede un monitoraggio intensivo.

 

Nell’analisi, l’85,5% dei pazienti con sufficiente (> 30 ng / ml) apporto di vitamina D ha riportato casi lievi mentre il 72,8% dei pazienti con carenza di vitamina D (<20 ng/ml) mostravano casi gravi o critici. 

I pazienti con insufficienza di vitamina D (tra 20 e 30 ng/ml) avevano una probabilità 12,55 volte maggiore di morire e i pazienti con carenza di vitamina D (<20 ng/ml) avevano 19,12 volte più probabilità di morire di malattia rispetto ai pazienti con sufficiente apporto di vitamina D

 

Il 26 aprile, un secondo studio retrospettivo è giunto dall’Indonesia. Questo studio più ampio ha esaminato lo stato della vitamina D in 780 casi confermati di COVID-19. I ricercatori hanno raccolto dati sul livello della vitamina D, l’età, il sesso e la presenza di comorbilità insieme ai dati sulla mortalità. Lo studio ha confermato ciò che sappiamo: che i pazienti maschi, con più di 50 anni e con condizioni preesistenti avevano tutti una probabilità significativamente maggiore di morire di COVID-19. Tuttavia, la scoperta più drammatica è stata che i pazienti con insufficienza di vitamina D (tra 20 e 30 ng/ml) avevano una probabilità 12,55 volte maggiore di morire e i pazienti con carenza di vitamina D (<20 ng/ml) avevano 19,12 volte più probabilità di morire di malattia rispetto ai pazienti con sufficiente apporto di vitamina D.

 

Siccome età, sesso e comorbilità possono anche essere associati alla carenza di vitamina D, i ricercatori hanno quindi effettuato un’analisi corretta. La scoperta chiave è che, anche dopo aver controllato l’età, il sesso e le eventuali comorbilità, «Rispetto ai casi con un livello normale di vitamina D, la probabilità di morte era circa 10,12 maggiore per i pazienti che mostravano carenze di vitamina D».

 

Un terzo piccolo studio condotto presso il Centro di scienze della salute dell’Università della Louisiana , datato 24 aprile, ha esaminato l’insufficienza di vitamina D (VDI) in pazienti con COVID-19 grave e ha discusso i possibili meccanismi correlati alla vitamina D per la coagulopatia e le risposte immunitarie che si stanno osservando. Ha affermato che, «Tra i soggetti ricoverati in terapia intensiva, 11 (84,6%) avevano insufficienza di vitamina D, contro 4 (57,1%) dei soggetti con casi più lievi. Sorprendentemente, il 100% dei pazienti in terapia intensiva con meno di 75 anni aveva insufficiente apporto di vitamina D». Lo studio è limitato dalla piccola dimensione del campione ma è coerente con gli studi sopra citati.

«Il 100% dei pazienti in terapia intensiva con meno di 75 anni aveva insufficiente apporto di vitamina D»

 

In un eccellente articolo di revisione del 2018 sull’effetto della vitamina D sui pazienti in terapia intensiva, gli autori hanno dichiarato: «La carenza di vitamina D è comune nelle malattie critiche con prevalenza tra il 40 e il 70%.» Continuano: «È stato dimostrato che la carenza di vitamina D è associata a sepsi, sindrome da distress respiratorio acuto e danno renale acuto e tre diverse meta-analisi confermano che i pazienti con basso livello di vitamina D hanno una degenza più lunga in terapia intensiva e aumento di morbilità e mortalità».

 

Più di recente, in un altro documento di revisione (2020) che studia i potenziali collegamenti tra il livello di vitamina D e il rischio ammalarsi di influenza e COVID-19, gli autori sottolineano che: «Attraverso diversi meccanismi, la vitamina D può ridurre il rischio di infezioni. Tali meccanismi includono l’induzione di catelicidine e defensine che possono abbassare i tassi di replicazione virale e ridurre le concentrazioni di citochine pro-infiammatorie che producono l’infiammazione che danneggia il rivestimento dei polmoni, causando polmonite». Catelicidine e defensine sono molecole che il corpo produce per proteggersi da batteri, virus e funghi e modulare il sistema immunitario.

«Attraverso diversi meccanismi, la vitamina D può ridurre il rischio di infezioni. Tali meccanismi includono l’induzione di catelicidine e defensine che possono abbassare i tassi di replicazione virale e ridurre le concentrazioni di citochine pro-infiammatorie che producono l’infiammazione che danneggia il rivestimento dei polmoni, causando polmonite»

 

 

Perché la vitamina D dovrebbe essere studiata in grandi studi clinici

Attualmente, solo Remdesivir è stato approvato dalla FDA per i casi gravi di COVID-19. È un pro-farmaco da somministrare per via endovenosa (il farmaco è un precursore; il corpo crea il composto attivo) che è sia costoso, ha un prezzo potenziale di $ 4500 per paziente , sia difficile da produrre in grandi quantità rapidamente.

 

Lo studio NIAID/NIH sul Remdesivir è stato effettuato in doppio cieco e controllato con placebo. I partecipanti dovevano essere positivi al virus e affetti da problemi polmonari. Remdesivir ha migliorato i tempi di recupero (dimissione dall’ospedale o possibilità di tornare alla normale attività) di 4 giorni, da 15 giorni a 11.

 

Tuttavia, la differenza di sopravvivenza complessiva nello studio non ha raggiunto una significatività statistica (mortalità dell’8% nel gruppo trattato, 11,6% nel gruppo placebo). Pertanto, è improbabile che Remdesivir sia rivoluzionario negli Stati Uniti o la soluzione su scala globale.

È improbabile che Remdesivir sia rivoluzionario negli Stati Uniti o la soluzione su scala globale

 

Al contrario, la vitamina D viene generata grazie all’esposizione al sole ed è ampiamente disponibile. È economica, si può assumere tramite integratori e la formulazione iniettabile costa circa $ 100, che potrebbe essere necessaria per i pazienti con malattie renali. È prodotta in tutto il mondo e non è soggetta a restrizioni di brevetto. La sua sicurezza è ben consolidata e riconosciuta.

 

Se la vitamina D può ridurre la gravità del COVID-19, potrebbe veramente essere il fattore che fa la differenza. Togliere la pressione dagli ospedali e dagli operatori sanitari, proteggere i nostri anziani, veterani e prigionieri e prevenire un nuovo aumento di ricoveri e decessi sono alcuni dei vantaggi che offre.

 

La vitamina D viene generata grazie all’esposizione al sole ed è ampiamente disponibile. È economica, si può assumere tramite integratori

Un comunicato stampa del 28 aprile della Medical University of South Carolina è incoraggiante. I primi ricercatori sugli effetti della vitamina D, Bruce Hollis, PhD e il dott. Carol Wagner, stanno iniziando a studiare il COVID-19. Hollis e Wagner hanno recentemente esaminato l’impatto della vitamina D assunta in gravidanza e durante l’allattamento sulla salute infantile. Hanno oltre 60 anni di esperienza nella ricerca sulla vitamina D.

 

Attualmente, ci sono 10 studi clinici tra cui l’effetto della vitamina D per il trattamento del COVID-19, in alcuni come aggiunta a terapie standard e in altri in combinazioni specifiche con altri farmaci e integratori. Sfortunatamente, molti di questi studi non sono ben progettati per mostrare risultati significativi perché le dosi proposte sono piuttosto basse. 

 

 

Il centro della questione

La vitamina D potrebbe mostrarsi rivoluzionaria, riducendo i decessi e la gravità della malattia. La vitamina D, derivata dal sole, è gratuita e l’esposizione regolare per 20 minuti al giorno in questo periodo dell’anno fornirà circa 1000 UI per le persone che vivono a media latitudine che espongono circa il 30% della loro superficie corporea. La vitamina D è disponibile per quasi tutti, anche i più poveri e recentemente disoccupati.

La vitamina D, derivata dal sole, è gratuita e l’esposizione regolare per 20 minuti al giorno in questo periodo dell’anno fornirà circa 1000 UI per le persone che vivono a media latitudine che espongono circa il 30% della loro superficie corporea

 

Le popolazioni che non riescono a uscire facilmente (anziani, popolazioni carcerarie, persone che lavorano in luoghi chiusi) potrebbero aver bisogno di integratori di vitamina D per raggiungere livelli ematici sufficienti. Dovremmo lavorare per testare i livelli di vitamina D in quelle popolazioni per assicurarci che siano sufficienti.

 

Si prega di condividere queste informazioni; potrebbero salvare una vita.

 

 

Katie Weisman e il team di Children’s Health Defense

 

Traduzione di Alessandra Boni

 

 

© 12 maggio 2020, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.

 

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Epidemie

La Russia sottoporrà a test per l’epatite tutti i lavoratori immigrati. E l’Italia?

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A partire da marzo 2026, la Russia imporrà ai lavoratori migranti di sottoporsi a test per l’epatite B e C, ampliando le attuali disposizioni di screening medico. Le nuove regole si applicheranno ai cittadini stranieri e agli apolidi che entrano in Russia per lavoro, oltre a coloro che richiedono lo status di rifugiato o asilo temporaneo.

 

Le visite mediche sono obbligatorie per i migranti: senza di esse, non è possibile ottenere permessi di lavoro, residenza temporanea o permanente. I lavoratori migranti devono completare gli esami entro 30 giorni dall’arrivo, mentre chi non intende lavorare ha 90 giorni di tempo. Attualmente, gli screening includono test per droghe e malattie gravi come HIV, tubercolosi, sifilide e lebbra.

 

Le modifiche al processo di controllo sanitario per gli stranieri in visita sono state proposte all’inizio dell’anno da un gruppo di lavoro sulle politiche migratorie, guidato dalla vicepresidente della Duma di Stato, Irina Yarovaya. La vicepresidente ha chiarito che l’obiettivo è rafforzare il monitoraggio sanitario degli stranieri in arrivo e prevenire la diffusione di malattie pericolose.

 

I lavoratori migranti sono fondamentali per l’economia russa, occupando ruoli chiave in settori come edilizia, agricoltura e servizi. Milioni di migranti, soprattutto dall’Asia centrale, sono attratti da salari più alti rispetto ai loro paesi d’origine. Tuttavia, questo afflusso ha sollevato dibattiti su salute pubblica e stabilità sociale. Per questo, le autorità russe hanno introdotto rigidi controlli sanitari e requisiti per i migranti, cercando di bilanciare i benefici economici con la sicurezza sanitaria.

 

Nell’ultimo anno, la Russia ha anche intensificato la lotta contro l’immigrazione illegale. Il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che istituisce una nuova agenzia statale all’interno del Ministero dell’Interno, incaricata di migliorare la gestione dei flussi migratori.

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Il Cremlino ha dichiarato che l’iniziativa punta a razionalizzare il processo migratorio, promuovere il rispetto delle leggi russe tra i migranti e ridurre le attività illegali.

 

In Italia la situazione epidemiologica dell’immigrazione è un grande tabù del discorso pubblico.

 

«In base ai dati epidemiologici in nostro possesso, risulta che in Italia il 34,3% delle persone diagnosticate come HIV positive è di nazionalità straniera» diceva in un’intervista a Renovatio 21 il dottor Paolo Gulisano sette anni fa. «Considerato che gli stranieri rappresentano circa il 10% della popolazione italiana, questo dato vuole dire che la diffusione dell’HIV tra gli stranieri è oltre il triplo che negli italiani».

 

«Un dato che fa pensare. Molti immigrati provengono da Paesi dove la diffusione dell’HIV, così come quella della TBC, è molto più alta che in Europa. Basta far parlare i dati. Il numero dei decessi correlati all’AIDS nel 2016 per grandi aree è il seguente: Africa Sud-Orientale: 420 mila; Africa Centro-Orientale: 310 mila; Nord Africa e Medio Oriente: 11 mila; America Latina: 36 mila, più il dato dei soli Caraibi che è di 9400. Europa dell’Est e Asia centrale: 40 mila; Europa Occidentale e Nord America: 18 mila; Asia e Pacifico: 170 mila. Ora, la lettura di questi numeri ci fornisce delle evidenze molto chiare».

 

«È quindi chiaro quali siano i rischi di una immigrazione di massa, incontrollata anche dal punto di vista sanitario, e i rischi legati al fatto che un numero impressionante di immigrate africane viene gettato nel calderone infernale della prostituzione, che diventa veicolo di diffusione di malattie veneree».

 

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Epidemie

Paura e profitto, dall’AIDS al COVID

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton ha paragonato la pandemia di COVID-19 all’epidemia di AIDS, definendola una «seconda versione» della stessa narrazione sulla salute pubblica. Entrambe le epidemie includevano l’uso improprio dei test PCR, la soppressione di scienziati dissenzienti e le motivazioni finanziarie alla base del «terrore della peste», ha affermato Shenton in un’intervista con Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense, su CHD.TV.   La pandemia di COVID-19 è stata un evento che si verifica una volta ogni secolo o ha avuto parallelismi nella storia recente? Per la regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton, la pandemia è stata la «seconda ripresa» dell’epidemia di AIDS.   «È stato così angosciante dover affrontare il COVID», ha detto Shenton a Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense (CHD), durante un’intervista di lunedì su CHD.TV. «Se solo avessimo potuto vincere la battaglia contro l’AIDS, non avremmo avuto il COVID».   Shenton, produttore del documentario del 2011 Positivamente Falso: Nascita di un’eresia e autore del libro del 1998 «Positively False: Exposing the Myths around HIV and AIDS», si è unito alla Holland per discutere delle somiglianze tra l’epidemia di COVID-19 e quella di AIDS.   Entrambe le epidemie includono l’uso inappropriato dei test PCR per determinare l’infezione, la somministrazione di trattamenti medici che si sono rivelati mortali per molti pazienti, il coinvolgimento di personaggi come il dottor Anthony Fauci e le ripercussioni affrontate dagli scienziati che hanno messo in discussione la narrazione dominante, ha affermato Shenton.   «Una delle cose straordinarie e sorprendenti di tutto questo… è quanto siano simili molte delle dinamiche dell’epidemia di AIDS a quelle dell’epidemia di COVID», ha affermato Shenton.   Secondo Shenton, le risposte all’AIDS e al COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», una strategia «utilizzata da organizzazioni che guadagnano enormi quantità di denaro attraverso le malattie infettive, definendo le cose infettive».   Shenton ha affermato di pensare che il suo documentario avrebbe contribuito a cambiare la narrazione dominante sull’AIDS, ma non è riuscito a superare i potenti interessi che traggono profitto dallo status quo.   «Spesso pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma non è così», ha detto Shenton.   Tuttavia, il documentario ha prodotto un archivio di 35 anni di studi scientifici, interviste video e altri documenti. Shenton ha donato la biblioteca informativa al CHD.   «Metteremo a disposizione un archivio delle sue migliaia e migliaia di pagine sull’AIDS», ha affermato Holland. Si prevede che i documenti saranno accessibili nei prossimi mesi.

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Le opinioni dissenzienti sull’AIDS «abilmente represse per decenni»

Shenton era una reporter della BBC, l’emittente pubblica nazionale del Regno Unito, quando sviluppò il lupus indotto da farmaci, dopo essere stata sottoposta a un’eccessiva terapia farmacologica in Spagna negli anni ’70.   «Mi hanno dato tutto quello che c’era scritto nel libro», ha detto Shenton. «Certo, sono imploso e mi sono sentito gravemente male. Sono stato al Westminster Hospital per due mesi. Sono quasi morto».   L’esperienza ha suscitato in lei l’interesse per le indagini sulle lesioni causate dai trattamenti medici.   In seguito è entrata a far parte dell’emittente nazionale britannica Channel 4, producendo una serie di documentari, Kill or Cure. La serie si concentrava sulla riluttanza delle grandi aziende farmaceutiche a ritirare trattamenti pericolosi o inefficaci. «Quello mi ha davvero dato la carica», ha detto Shenton.   Nei primi anni ’80, Shenton e il suo produttore vennero a conoscenza della ricerca del dottor Peter Duesberg, un biologo molecolare tedesco che sosteneva che l’HIV non causava l’AIDS.   Iniziò a mettere in discussione le narrazioni dominanti. «Abbiamo continuato a realizzare 13 documentari sull’AIDS», ha detto Shenton.   Il documentario Positively False si concentra sulla «manipolazione delle aziende farmaceutiche e delle organizzazioni [mediche] interessate in tutto il mondo, che manipolano il terrore della peste», ha affermato Shenton.   Il film rivela «la scienza imperfetta che circonda l’AIDS e le conseguenze di seguire ipotesi sbagliate», ha affermato Shenton nell’introduzione. Tra queste, la convinzione che l’AIDS sia infettivo, che sia causato dall’HIV e che l’HIV sia contagioso.   «Molti scienziati e ricercatori non sono d’accordo. Queste opinioni sono state abilmente represse per decenni dall’ortodossia scientifica prevalente e dai media mainstream», ha affermato Shenton nel documentario.   I ricercatori che mettevano in discussione la narrazione dominante sull’HIV/AIDS sono stati repressi e messi a tacere, così come gli scienziati che mettevano in discussione la narrazione prevalente sul COVID-19, ha affermato Shenton.

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Test PCR «completamente inutili» per AIDS e COVID

In entrambi i focolai, sono stati utilizzati test PCR per determinare l’infezione, ha affermato.   «Il test [PCR] è completamente e totalmente inutile», ha detto Shenton. I test non possono «distinguere tra particelle infettive e non infettive».   Shenton ha affermato che i diversi Paesi utilizzano standard diversi per determinare una diagnosi positiva di HIV.   «Si potrebbe fare il test per l’HIV, per esempio in Sudafrica, e risultare positivi, e volare in Australia e risultare negativi», ha detto Shenton.   All’inizio dell’epidemia di AIDS, molti scienziati ritenevano che fattori legati allo stile di vita, tra cui la dipendenza da droghe ricreative e l’uso di nitriti come i «poppers», fossero la causa dell’AIDS a causa dei danni che provocavano al sistema immunitario.   Allo stesso tempo, i funzionari sanitari e i media hanno erroneamente attribuito la diffusione della malattia in Africa all’AIDS, quando in realtà era la mancanza di accesso all’acqua potabile a far ammalare le persone, ha detto Shenton.   Queste narrazioni sono cambiate quando le agenzie sanitarie governative hanno iniziato a interessarsi alla ricerca sull’AIDS, ha affermato Shenton.   «Quando il CDC [Centers for Disease Control and Prevention] è intervenuto e ha riunito tutti i suoi rappresentanti per esaminare questo gruppo di giovani uomini che erano molto, molto malati… l’intera teoria secondo cui l’AIDS era causato dallo stile di vita o dalla tossicità è scomparsa», ha detto Shenton.

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Fauci ha promosso trattamenti mortali per AIDS e COVID

Shenton ha affermato che i trattamenti medici dannosi sono stati al centro sia dell’epidemia di AIDS che di quella di COVID-19.   Nel 1987, la Food and Drug Administration statunitense approvò l’AZT (azidotimidina) per le persone sieropositive. L’AZT si rivelò pericoloso per molti pazienti affetti da AIDS. Durante la pandemia di COVID-19, i vaccini e il remdesivir hanno danneggiato le persone.   E in entrambi i casi – l’epidemia di AIDS e la pandemia di COVID-19 – Fauci ha svolto un ruolo chiave.   «Eravamo profondamente, profondamente critici nei confronti di Fauci, per il modo in cui ha gestito gli studi multicentrici di fase due sull’AZT. Voglio dire, erano corrotti, e tutta la prima fase è stata finanziata dall’azienda farmaceutica [Burroughs Wellcome, ora GSK ], e avevano dei rappresentanti, e questo è noto attraverso i documenti sulla libertà di informazione, che sono andati lì e hanno portato a casa i risultati del gruppo trattato con il farmaco e del gruppo placebo, eliminando gli effetti collaterali nel gruppo trattato con il farmaco» ha detto la Shenton.   Nel film Positively False, diversi scienziati e ricercatori hanno spiegato come l’AZT impedisca la sintesi del DNA, impedisca la replicazione delle cellule e contribuisca alla generazione di cellule cancerose.   Tuttavia, secondo il documentario, i pazienti che mettevano in dubbio la sicurezza e l’efficacia dell’AZT venivano stigmatizzati e la loro sanità mentale veniva messa in discussione.   Holland ha fatto riferimento al libro del 2021 del Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr., The Real Anthony Fauci : Bill Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health che contiene una sezione sul lavoro di Fauci durante l’epidemia di AIDS.   «Solleva tutti questi interrogativi il fatto che in realtà sembra la stessa truffa e gli stessi giocatori… non è cambiato molto», ha detto Holland.

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Il «terrore della peste» esisteva molto prima dell’AIDS o del COVID

Secondo Shenton, le epidemie di AIDS e COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», che è esistito nel corso della storia.   All’inizio del XX secolo, negli Appalachi, fu diagnosticata un’epidemia di pellagra. La malattia, che causava una mortalità diffusa e si diceva fosse infettiva, si rivelò essere una carenza nutrizionale.   «Negli Appalachi, la popolazione molto povera viveva con una dieta completamente priva di nutrienti», ha detto Sheton. «Si trattava di una varietà di mais, ma lo cucinavano eliminandone tutti i nutrienti e dipendevano solo da quello».   La gente aveva così tanta paura di contrarre la pellagra che coloro che si pensava fossero infetti venivano ricoverati in istituti o «gettati fuori dalle navi», ha affermato.   Un infettivologo di New York, il dottor Joseph Goldberger, stabilì che la pellagra non era contagiosa, ma era causata da malnutrizione e carenza di niacina (vitamina B), ha detto Shenton. Fu emarginato per le sue scoperte.   «È stato ridotto allo stato laicale, privato dei fondi, ridicolizzato. È morto. E cinque anni dopo la sua morte, hanno detto che aveva assolutamente ragione: non era contagioso, era tossico», ha detto.   Secondo Shenton, in Giappone dagli anni ’50 agli anni ’70 la mielo-ottico-neuropatia subacuta (SMON) era comune.   «Centinaia di migliaia di giapponesi sono rimasti paralizzati dalla vita in giù e ciechi, e nessuno riusciva a capire il perché. E ovviamente pensavano: “Oh, è un virus”», ha detto.   Un neurologo giapponese, il dottor Tadao Tsubaki, ha studiato i pazienti affetti da SMON e ha stabilito che la condizione non era infettiva, ma era causata da un farmaco antidiarroico ampiamente somministrato, il cliochinolo.   «Ci sono voluti 30 anni e squadre di avvocati per respingere in tribunale l’idea che la causa della SMON fosse un virus», ha affermato Shenton.   Michael Nevradakis Ph.D.   © 7 ottobre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.    

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Epidemie

Le restrizioni COVID in Spagna dichiarate incostituzionali, annullate oltre 90.000 multe

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Oltre 90.000 multe per violazioni delle norme anti-COVID sono state annullate dopo che la Corte costituzionale spagnola ha dichiarato incostituzionali le severe misure adottate nel 2020.

 

Secondo il quotidiano spagnuolo The Objective, al 3 settembre 2025 sono state revocate 92.278 sanzioni, in seguito alla sentenza che ha giudicato incostituzionali alcune disposizioni del decreto sullo stato di emergenza del 2020, in vigore durante il primo lockdown per il COVID-19.

 

Queste sanzioni rappresentano solo la prima tranche di multe destinate all’annullamento, con altre che probabilmente seguiranno. Durante il rigido lockdown del 2020, imposto con lo stato di allarme, sono state emesse oltre 1 milione di sanzioni a livello nazionale, con circa 1,3 milioni di persone multate per aver violato le restrizioni.

 

La Corte Costituzionale ha stabilito che alcune parti dell’articolo 7 del Regio Decreto 463/2020, relative al divieto generale di circolazione, comportavano una sospensione ingiustificata del diritto fondamentale alla libertà di movimento, andando oltre una semplice limitazione. Tale misura superava i limiti dello stato di allarme, secondo la Corte, che ha precisato che una restrizione così drastica sarebbe stata giustificabile solo con uno stato di emergenza più severo, soggetto a un iter parlamentare più rigoroso.

 

La sentenza si applica retroattivamente a tutte le multe emesse durante il lockdown del 2020, creando un notevole onere per l’amministrazione statale. The Objective riferisce che «l’applicazione è stata lenta e disuniforme a seconda delle regioni», suggerendo che i rimborsi potrebbero richiedere mesi o anni.

 

Il quotidiano sottolinea che i 92.278 casi annullati finora rappresentano «solo la punta dell’iceberg di una crisi normativa» derivante dalle severe politiche di lockdown imposte dal governo spagnolo nel 2020.

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Immagine di Javier Perez Montes via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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