Connettiti con Renovato 21

Geopolitica

Il Cremlino: «stiamo affrontando l’intera NATO in Ucraina»

Pubblicato

il

Mosca non è in guerra con Kiev, ma invece lo scontro è un tentativo dell’Occidente di usare gli ucraini nella sua situazione di stallo con la Russia.

 

Il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolaj Patrushev ha rilasciato dichiarazioni profonde e provocatorie affermando che non è fondamentalmente l’Ucraina con cui la Russia è in guerra, ma che l’esercito russo sta affrontando tutta la NATO all’interno dell’Ucraina.

 

«Gli eventi in Ucraina non sono uno scontro tra Mosca e Kiev. È uno scontro militare della NATO, in primis Stati Uniti e Gran Bretagna, con la Russia. Temendo un impegno diretto, gli istruttori della NATO spingono gli uomini ucraini a morte certa», ha affermato Patrushev in una nuova intervista al quotidiano statale Aif.ru.

 

Patrushev ha continuato descrivendo l’esercito russo come orientato a cercare di «liberare le sue regioni dall’occupazione e deve porre fine al sanguinoso esperimento dell’Occidente per distruggere il popolo fraterno dell’Ucraina».

 

Come riporta TASS, il segretario del Consiglio di sicurezza ha dichiarato che «non siamo in guerra con l’Ucraina perché non possiamo avere odio per gli ucraini comuni per impostazione predefinita», per poi definire la tradizione russa e ucraina come strettamente legate.

 

«Capitelo: la lingua ucraina è una delle lingue ufficiali in Crimea. Centri culturali ucraini, gruppi di canti e balli popolari ucraini continuano ad esistere in molte città. Un numero considerevole di persone nel sud dell’Estremo Oriente considera la cultura ucraina come la loro propria cultura, data una grande percentuale di migranti dai tempi di Stolypin», ha detto Patrushev riferendosi a Petr Stolypin, un primo ministro dell’Impero russo all’inizio del 1900, che ha supervisionato una politica di reinsediamento.

 

«Prima il popolo ucraino si renderà conto che l’Occidente lo sta usando per condurre una guerra contro la Russia, più vite saranno salvate (…) Molti lo hanno capito molto tempo fa, ma hanno paura di dirlo pubblicamente per paura di rappresaglie. Non fa parte dei piani dell’Occidente salvare la vita di qualcuno a scapito del suo arricchimento e di altre ambizioni. Anche così, gli americani, gli inglesi e gli altri europei spesso creano l’illusione di proteggere la civiltà dai barbari».

 

Il Patrushev ha poi fatto riferimento ai continui tentativi sostenuti dall’Occidente di Kiev di rendere illegale la lingua e la cultura russa, che ha un impatto diretto su milioni di persone nella regione: «tutta questa storia con l’Ucraina è stata progettata da Washington per provare le tecnologie per dividere un popolo che è uno seminando discordia».

 

«A milioni di persone è proibito parlare russo, la loro lingua madre, e sono costretti a impegnarsi nell’oblio delle proprie origini. L’Occidente, per servire le sue ambizioni, sta praticamente decimando il popolo ucraino, costringendo la vigorosa generazione a morire sul campo di battaglia e portando il resto della gente alla povertà».

 

Come sottolineato da Renovatio 21, è che anche su un piano non-militare, l’attuale situazione Ucraina è di fatto uno scontro tra Mosca e l’Occidente nelle sue forme, come pienamente visibile nel braccio di ferro – o meglio, nel chicken game – riguarda all’energia e alla finanza: fino a che punto l’Europa potrà permettersi di tenere chiuso il rubinetto del gas russo? Fino a che punto accetteremo crisi economica, docce fredde, appartamenti invivibili per la temperatura? Fino a che punto tollereremo la chiusura delle nostre aziende? Fino a che punto gli europei non si ribelleranno dinanzi alle bollette mostruose?

 

Questo è uno dei giochi in corso con Mosca. E l’esito può essere colossale, storico. Se una Germania, un’Italia, o un altro Paese uscissero dall’allineamento anti-Mosca, perché provate dalla follia ucraina e dalle sue conseguenze, potrebbe avviarsi il processo di dissoluzione della NATO e financo della UE.

 

Questo, secondo Renovatio 21, è il motivo per cui Putin sta facendo durare così a lungo una guerra che era iniziata con 65 chilometri di carrarmati arrivati praticamente nella capitale Kiev, per poi fare retro marsch.

 

Qualcuno che si è chiesto il perché?

 

Qualcuno che si renda conto che l’obbiettivo, oltre che il regime di Kiev, siamo indirettamente proprio noi?

 

 

 

 

 

Continua a leggere

Cina

La Cina conclude le manovre militari per conquistare Taiwan

Pubblicato

il

Da

L’ultima esercitazione militare cinese, Joint Sword 2024A, si è conclusa il 24 maggio.

 

Le manovre hanno dimostrato un livello significativo di gravità per quanto riguarda le minacce all’indipendenza di Taiwan e hanno avuto luogo tre giorni dopo l’insediamento del nuovo presidente Lai Ching-te.

 

Nell’ambito della reazione cinese, anche la guardia costiera cinese nella provincia del Fujian, di fronte a Taiwan, ha mobilitato navi per «operazioni di applicazione della legge» a lungo raggio.

Sostieni Renovatio 21

Le attuali operazioni, che sono state ampiamente coperte dai media cinesi, sono state molto più estese di quelle condotte in risposta alla visita dell’allora presidente della Camera Nancy Pelosi del 2 agosto 2022 a Taiwan, o alla successiva visita del 30 marzo – 6 aprile 2023 dell’allora presidente di Taiwano Tsai Ing-wen negli Stati Uniti, durante il quale ha incontrato funzionari statunitensi.

 

In una dichiarazione esplicita da riguardo, l’Esercito di Liberazione del Popolo (ELP) ha affermato venerdì che le esercitazioni sono progettate per testare la capacità della Cina di «prendere il potere» su Taiwan. Inoltre, il nome dell’esercitazione, Joint Sword 2024A, indica che se le provocazioni da parte di Taiwan continuano, ci sono anche una B, C e D in atto.

 

La questione di Taiwan riguarda l’intero sistemo economico internazionale a causa della centralità del Paese nella produzione globale di microprocessori.

 

Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwano, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.

 

La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.

 

Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.

 

In uno sviluppo recente, l’azienda olandese ASML, che vende a TSMC immense macchine di ultra-precisione a tecnologia ultravioletta per la produzione di chip, ha affermato di essere in grado di fermarle in caso di invasione da parte della Cina comunista.

 

I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.

Aiuta Renovatio 21

Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.

 

Alcuni mesi fa il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la riunificazione di Taiwan e della Cina continentale è una «inevitabilità storica», mentre a novembre il Chen Binhua, appena nominato nuovo portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwano del Consiglio di Stato cinese, aveva avvertito che «l’indipendenza di Taiwan significa guerra».

 

Oggi come allora, il Paese è un punto di tensione internazionale, tra le aperte minacce di invasione da parte della Repubblica Popolare Cinese e le manovre della flotta militare americana nell’area.

 

Come riportato da Renovatio 21, la tensione nella regione era salita quando a inizio anno il cacciatorpediniere lanciamissili USS John Finn della 7ª flotta USA ha annunciato il transito da sud a nord dello Stretto di Taiwano.

 

Taipei aveva vissuto una enigmatica falsa emergenza invasione, propalato dai media, pochi mesi fa.

 

Nel frattempo, come visto in settimana a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Taipei, nel Parlamento taiwanese sono botte ed episodi di rugby legislativo.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

Continua a leggere

Geopolitica

Birmania, i Rohingya presi di mira anche dai buddisti dell’Arakan Army

Pubblicato

il

Da

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Nonostante il blocco di internet imposto dalla giunta golpista, le Nazioni unite parlano di «rapporti spaventosi e inquietanti» sugli attacchi contro la popolazione civile di etnia Rohingya. Negli ultimi mesi la giunta golpista, sempre più in difficoltà sul campo, ha alimentato le tensioni interetniche, arruolando (anche in maniera forzata) i Rohingya contro la milizia etnica locale. Un tragedia che sta riportando il Paese ai tempi delle violenze settarie.   Le atrocità commesse negli ultimi mesi nello Stato birmano occidentale del Rakhine sembrano essere il preludio di una nuova fase di violenze che potrebbe investire l’intero Myanmar una volta terminato il conflitto civile tra le milizie etniche e l’esercito.   Da giorni, diversi rappresentanti delle Nazioni unite parlano di «rapporti spaventosi e inquietanti» sugli attacchi contro la popolazione civile di etnia Rohingya da parte della giunta militare ma anche della milizia etnica locale, l’Arakan Army, che controlla gran parte del territorio del Rakhine.   «Ancora una volta, il mondo sembra deludere un popolo disperato nel momento del pericolo, mentre si svolge un disastro disumano guidato dall’odio nello Stato Rakhine», dove «stanno emergendo notizie allarmanti e credibili di omicidi, sparizioni forzate e diffusi incendi dolosi», ha dichiarato Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti umani in Myanmar.   Circa 45mila civili Rohingya, secondo i dati diffusi dall’ONU, sono sfollati dopo che una serie di incendi sono divampati nella città di Buthidaung e dintorni, distruggendo case e campi coltivati.   I Rohingya hanno puntato il dito contro l’Arakan Army, che a sua volta ha incolpato gli attacchi aerei della giunta militare. Le immagini satellitari hanno confermato la devastazione causata dagli incendi tra aprile e maggio, ma il blocco di internet imposto dall’esercito birmano impedisce di ottenere informazioni certe e verificate.   L’Arakan Army ha però conquistato la città e ha ora esteso i combattimenti alla vicina municipalità di Maungdaw, dove esistono «rischi chiari ed evidenti di una grave diffusione della violenza», ha affermato nei giorni scorsi Liz Throssell, portavoce dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Come aveva segnalato l’International Crisis Group in un rapporto pubblicato a inizio mese, da tempo stavano montando le tensioni tra l’Arakan Army, dominato da combattenti di etnia Rakhine e fede buddhista, e i Rohingya, di fede musulmana.   A differenza di altre parti del Paese, gli scontri nel Rakhine sono scoppiati a novembre dopo che l’Arakan Army ha deciso di unirsi ad altre milizie etniche in un’offensiva congiunta contro l’esercito birmano. Fino ad allora aveva sostanzialmente retto (tranne che per un periodo di qualche mese nella seconda metà del 2022) un cessate il fuoco firmato appunto tra l’Arakan Army e l’esercito birmano, responsabile del colpo di Stato che a febbraio 2021 ha dato avvio al conflitto.   Da allora le milizie etniche (che combattono per maggiore autonomia nei loro territori dai tempi dell’indipendenza dall’impero britannico nel 1948) si sono unite tra di loro e ad altri gruppi armati contro il regime militare, che appare sempre più in difficoltà.   L’Arakan Army da sempre si batte per uno Stato di etnia Rakhine. Ma nella regione vivono anche 600mila Rohingya, a cui il governo birmano nega la cittadinanza, considerandoli immigrati illegali dal Bangladesh. Nel 2017 furono il principale obiettivo di una campagna di repressione dell’esercito che oggi è oggetto di un processo per genocidio da parte delle Nazioni unite. Almeno 750mila persone scapparono nel vicino Bangladesh per sfuggire alla persecuzione.   Eppure, nonostante ciò, molti Rohingya negli ultimi mesi si sono uniti alle fila dell’esercito per combattere contro l’Arakan Army, dopo che a febbraio la giunta militare, a corto di uomini dopo tre anni di combattimenti, ha imposto a uomini e donne la leva obbligatoria.   La maggior parte del reclutamento è forzato, ma alcuni Rohingya si sono arruolati volontariamente, si legge nel rapporto dell’International Crisis Group: «anche se la paura e la rabbia nei confronti dell’Arakan Army sembrano essere parte della loro motivazione, il regime avrebbe anche lanciato la prospettiva di salari regolari e, almeno in alcuni casi, la promessa di cittadinanza. Anche influenti leader della comunità Rohingya vicini ai militari hanno incoraggiato i giovani ad arruolarsi».   L’esercito birmano ha quindi alimentato le tensioni intercomunitarie per indebolire l’Arakan Army, collaborando per esempio anche con l’Arakan Rohingya Salvation Army – una milizia che i militari avevano designato come «organizzazione terroristica» e i cui attacchi contro le forze dell’ordine nel 2017 avevano dato il pretesto per l’inizio della campagna di repressione contro i Rohingya.   Twan Mrat Naing, il leader dell’Arakan Army ha in più occasioni definito i Rohingya «bengalesi», in maniera dispregiativa. Questa retorica ha infiammato la situazione, al punto che i militari sono riusciti ad attrarre nuovi combattenti anche dai campi profughi Rohingya in Bangladesh.   «Fonti nei campi hanno riferito a Crisis Group che negli ultimi mesi migliaia di aspiranti combattenti hanno attraversato il confine con il Myanmar, compresi bambini di quattordici anni; questa campagna di reclutamento si è intensificata drammaticamente negli ultimi giorni, con l’arruolamento di ben 500 rifugiati», scrive ancora il centro di ricerca. «Mentre alcuni Rohingya stanno rispondendo agli appelli per lottare per una propria patria, la maggior parte delle reclute sono state costrette a prestare servizio contro la loro volontà. Questo reclutamento forzato avviene apertamente nei campi, ma le forze dell’ordine del Bangladesh hanno fatto poco per fermarlo».   Gli attacchi contro i civili da parte dell’Arakan Army rischiano di alimentare l’arruolamento dei Rohingya e il ciclo di violenza. Diversi osservatori hanno affermato che l’attuale situazione ricorda quella che si era creata tra il 2012 e il 2017, quando il Rakhine era scosso da violenze settarie.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine del 2017 di VOA Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Continua a leggere

Geopolitica

Nicaragua, la Santa Sede gioca la carta dell’appeasement

Pubblicato

il

Da

Per allentare la morsa in cui si trova prigioniera la Chiesa del Nicaragua a causa dell’opposizione di parte del clero al potere in carica, la diplomazia pontificia ha scelto di procedere con cautela, e può contare sulla leva delle future nomine episcopali, dato che nel Paese sono in palio più della metà delle sedi episcopali, rileva The Pillar.

 

Il 17 marzo 2023, il nunzio ad interim ha lasciato il Paese e ha chiuso la nunziatura «su richiesta del governo nicaraguense» secondo Vatican News. Il quotidiano La Croix spiega: «il presidente sandinista Daniel Ortega non ha apprezzato le dichiarazioni di Francesco che, in un’intervista al sito d’informazione argentino Infobae, il 10 marzo 2023, aveva descritto il Nicaragua come una “rozza dittatura” ritenendo che il capo dello Stato soffriva di uno “squilibrio”».

 

Una situazione esplosiva di cui il Segretario di Stato ha subito preso il controllo per allentare le tensioni che non possono che nuocere alla situazione della Chiesa in Nicaragua, le cui libertà hanno particolarmente sofferto negli ultimi anni, anche a causa del coinvolgimento di membri del clero nelle opposizione al potere – che riteneva che la posizione del clero a favore dei manifestanti nell’aprile 2018 fosse andata troppo oltre.

 

Una meccanica ovattata

La diplomazia più antica del mondo intende evitare un deterioramento della situazione. Ma silenzio e tempo sono due risorse che la Santa Sede ha ancora nel suo gioco. Il silenzio innanzitutto: da un anno il Vaticano tace. «La Segreteria di Stato ha dato ordine di non pronunciarsi sull’argomento» ha spiegato La Croix nel marzo scorso.

 

Il 14 gennaio, dopo un anno e mezzo di detenzione, mons. Rolando Alvarez, vescovo di Matagalpa ed esponente dell’opposizione al regime di Daniel Ortega, è stato rilasciato ed espulso in Vaticano, seguito da un altro vescovo, quindici sacerdoti e due seminaristi, tutti discretamente sparsi in Italia con l’ordine di astenersi da qualsiasi dichiarazione pubblica sulla situazione nel loro Paese, riassume La Croix. Un silenzio che sembra aver allentato la tensione tra la Chiesa e Daniel Ortega.

 

In questa spinosa questione, il tempo è alleato anche della diplomazia vaticana. «Delle nove diocesi» di questo Paese di quasi sette milioni di abitanti, «almeno cinque» necessitano di future nomine episcopali, nota The Pillar: sufficienti per permettere alla Santa Sede di riprendere il controllo.

Sostieni Renovatio 21

Così, le diocesi di Managua e Jinotega sono entrambe rette da metropoliti che hanno raggiunto il limite di età di settantacinque anni previsto dalla legge della Chiesa: rispettivamente, il cardinale Leopoldo Brenes e mons. Carlos Herrera, presidente della Conferenza episcopale nicaraguense. Altre tre diocesi (Matagalpa, Esteli, Siuna) hanno visto i loro vescovi esiliare per motivi politici.

 

A Esteli, la Segreteria di Stato ha nominato padre Fruttos Valle Salmeron all’incarico di amministratore apostolico – in attesa del nome del futuro vescovo residenziale. Secondo The Pillar, quest’ultimo «è stato criticato per aver apparentemente allontanato dalla curia diocesana» e da importanti parrocchie diversi sacerdoti critici nei confronti del regime di Ortega.

 

D’ora in poi è Daniel Ortega a ricoprire il ruolo di richiedente se vuole ottenere da Roma vescovi più concilianti nei suoi confronti, sapendo che in Nicaragua non esiste un concordato che regoli la questione delle nomine episcopali: il sovrano pontefice è in teoria libero di fare le sue scelte e il potere in carica deve scendere a patti con lui il meno possibile.

 

L’opportunità per la Santa Sede di riequilibrare i rapporti di forza e di trovare una via di mezzo che consenta ad entrambi di allentare la morsa in cui si trova intrappolata la Chiesa locale, senza provocare un regime che al momento sembra poco indebolito dall’opposizione di alcuni ecclesiastici.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di Milei.vencel via Wikimedia pubblicata su licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

Continua a leggere

Più popolari