Spirito
Il Concilio Vaticano II fatto per disperdere il gregge ed abbandonarlo ai lupi: omelia di mons. Viganò
Renovatio 21 pubblica l’omelia di monsignor Carlo Maria Viganò per la festa di San Carlo Borromeo (4 novembre 2024).
SERVUS, PATER, ET ANGELUS
Omelia nella festa di San Carlo Borromeo, vescovo e confessore
Sacerdos et Pontifex,
et virtutum opifex.
Quattrocentoquarant’anni fa, il 3 Novembre del 1584, San Carlo Borromeo rendeva l’anima a Dio all’età di quarantasei anni.
Apparteneva all’antica e nobile famiglia padovana dei Buon Romeo, che aveva il proprio castello e la contea ad Arona, sul Lago Maggiore. Tonsurato a soli sette anni, a partire dal Novembre del 1552 fu studente di diritto a Pavia, divenne dottore in utroque jure nel 1559.
Votato alla Prelatura in quanto cadetto, iniziò la carriera ecclesiastica a ventidue anni, quando lo zio Giovanni Angelo de Medici – eletto Papa col nome di Pio IV – gli conferì importanti incarichi: Abate commendatario di una dozzina di Abbazie, Legato delle Romagne, protettore del Regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, Arciprete di Santa Maria Maggiore, Gran Penitenziere, amministratore della Diocesi di Milano, e poi Segretario di Stato.
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La vita del giovane Carlo fu dedicata al servizio della Chiesa e del Papato, sicché il cognome Buon Romeo pare perfettamente esprimere la fede del pellegrino che fa volta verso la Roma dei Martiri, la Roma di Pietro e Paolo, e la Roma della grande Riforma Cattolica e del Concilio di Trento.
Il suo ideale presbiterale consisteva nel creare un corpo, distinto dagli altri, le cui parti si collegavano organicamente e obbedivano tutte a una testa. «Voi siete i miei occhi, le mie orecchie, le mie mani» diceva Carlo ai suoi sacerdoti: questa metafora aveva in lui valore letterale.
Fondò gli Oblati di Sant’Ambrogio, prendendo ad esempio le costituzioni degli Oratoriani di San Filippo Neri. La sua congregazione costituiva un corpo di volontari a disposizione del Vescovo, ben addestrati e formati, disposti ad assumere incarichi difficili e impegnativi. Gli Oblati vennero impiegati per la direzione dei Seminari e, soprattutto, per la predicazione delle missioni al popolo.
Il loro carisma, nel quale si ravvisano molti elementi ignaziani, consisteva nel tenere viva una spiritualità contrassegnata dall’appartenenza al Clero diocesano, dal voto di obbedienza al Vescovo e dalla salvaguardia degli elementi propriamente ambrosiani.
La situazione della Chiesa nel Cinquecento non era delle migliori. Al decadimento morale dei laici e del Clero a causa della secolarizzazione indotta dalla cultura del Rinascimento – di netta impostazione neopagana, cabalistica ed esoterica nei ceti dirigenti – si accompagnava una scarsa formazione dottrinale.
La corruzione della Curia Romana, presa a pretesto dagli eretici per attaccare il Papato, rendeva assai arduo il governo della Chiesa e ben poco efficace il ministero dei Pastori.
Il Concilio tridentino, cui Borromeo collaborò attivamente, giunse a sanare questa crisi ecclesiale con una grande riforma che diede nuovo impulso all’intera società, non solo sotto un profilo religioso, ma anche morale, culturale, artistico ed economico. Esso diede inizio alla fondazione dei Seminari, grazie ai quali i chierici erano preparati ad affrontare gli impegni sacerdotali nelle varie discipline ecclesiastiche.
I Papi e i vescovi tridentini si comportarono insomma in modo diametralmente opposto a ciò che fecero i papi e i vescovi del Concilio Vaticano II, che usarono il loro «concilio» non per combattere i nuovi errori, ma per introdurli nel sacro recinto; non per restaurare la sacra Liturgia, ma per demolirla; non per raccogliere il gregge cattolico intorno ai Pastori, ma per disperderlo e abbandonarlo ai lupi.
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Se San Carlo fu infiammato di amore per la Messa e per la Santissima Eucaristia – famose le sue omelie al popolo e le sue meditazioni al clero su questo tema – i vescovi di tre secoli dopo ne calpestarono l’eredità, indebolendo proprio quei due presidi dell’ortodossia cattolica che nuovamente erano minacciati dal neoprotestantesimo di cui essi si facevano promotori.
Se San Carlo fu devoto fautore del culto mariano, del quale comprendeva la forte valenza antiprotestante, i fautori del Vaticano II cercarono in tutti i modi di indebolirlo, per favorire colpevolmente il dialogo ecumenico. E quei Seminari e Atenei che il Borromeo fondò per la difesa della Fede e la disciplina del clero, trecento anni dopo divennero ricettacoli di ribelli e di fornicatori.
E ciò non avvenne per un caso, ma per la deliberata e scellerata volontà di distruggere quel modello che si era rivelato incontestabilmente efficace, affinché la Chiesa Cattolica si ritrovasse come e peggio che nel Cinquecento.
Il modello dei beni fondiari di cui la famiglia Borromeo era proprietaria e il suo spirito genuinamente lombardo, ispirò San Carlo nel governo della Chiesa.
La sua economia pastorale ne portò il segno e consistette nel distribuire «terre» a buoni fittavoli (i pastori), a visitarli e controllarli. Essa era geografica e territoriale, mirava ad un miglior rendimento in termini di raccolti e di «frutti» dei terreni – le parrocchie – affidati ad economi zelanti.
L’insieme dei testi votati dal Concilio di Trento nel 1562-63 presentava l’ideale, offerto ad un’ambizione più alta e legato all’urgenza dei tempi, della eminente dignità e dei doveri del vescovo. Per tutta la vita i Canones reformationis generalis di Trento ebbero per San Carlo il valore di una rivelazione decisiva. Egli assistette e collaborò alla produzione di questa immagine del vescovo, uomo d’azione: «huomo di frutto et non di fiore, de’ fatti et non di parole» a dire del Cardinal Seripando.
Il Borromeo non poteva concepire la Fede senza le opere – dottrina fondamentale del Tridentino, negata dal sola fides dai Protestanti – e la sua vita fu un monumento all’azione pastorale, nutrita di solida spiritualità e di un grande amore per il popolo, per i poveri, per i bisognosi.
Anche in questo, significativamente, il suo esempio è eloquentissimo: il suo impegno nella cura degli appestati durante la peste che colpì Milano nel 1576-1577 lo portò a indire processioni penitenziali e a visitare e comunicare personalmente i malati nei lazzaretti.
I pavidi cortigiani, figli del Vaticano II, che qualche anno fa si sono rintanati nelle loro Curie proibendo addirittura la celebrazione della Messa durante la farsa pandemica, dovrebbero arrossire di vergogna dinanzi allo zelo di San Carlo e del suo Clero.
Una regola data ai sacerdoti dal Tridentino era: Se componere (Conc. Trid., VIII, p. 965), conformarsi al ruolo, trasformarsi alla lettera: «È tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir, poi che sarà confirmato questo Santo Concilio conforme al bisogno che ne ha la Christianità tutta e non più a disputare».
Il Borromeo non fu teologo, né grande disputatore – motivo per cui non lo vediamo annoverato tra i Dottori della Chiesa – ma pastore, ossia fedele esecutore. «Noi vorremmo avere osservato diligentemente tutto ciò che è stato prescritto in tutti i Sinodi precedenti» disse nel 1584.
E ancora: «La vita di un Vescovo deve regolarsi […] unicamente secondo le leggi della disciplina ecclesiastica».
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Quale abisso, cari fratelli, separa questa stirpe di santi Prelati da coloro che oggi ne hanno preso il posto! L’obbedienza di quelli si è mutata in ribellione di questi, la povertà in brama di beni e potere, la castità in vizi e fornicazione, la fedeltà al Magistero in ostentato incoraggiamento dell’eresia.
San Carlo sapeva anche scegliere i propri collaboratori, spesso sottraendoli ad altre Diocesi, al punto che San Filippo Neri, con la confidenza usuale tra Santi, lo chiama «ladro di vescovi». Quando divenne Arcivescovo di Milano, nel 1564, egli indisse il Sinodo diocesano e raccolse i suoi milleduecento sacerdoti per dettar loro un programma di applicazione dei decreti tridentini e una serie di misure disciplinari (residenza, riduzione del numero dei benefici, moralità, studi ecclesiastici, pratiche pastorali) che non mancò di sollevare proteste, specialmente quando egli applicò multe pecuniarie ai chierici disobbedienti.
Affidò il Seminario ambrosiano ai Gesuiti, continuando a vigilare e sorvegliare nei minimi dettagli la vita dei giovani che vi si formavano. L’istituto della Visita pastorale fu uno strumento che consentì a San Carlo di seguire la vita delle parrocchie, facendo sì che i Decreti del Concilio di Trento trovassero piena applicazione.
Quando nel 1565 morì lo zio Pio IV de Medici e nel 1566 venne eletto Pio V Ghisiglieri, il Borromeo si dedicò interamente alla cura animarum nella propria Diocesi.
Qui combatté strenuamente il diffondersi delle eresie luterane, calviniste, zwingliane ed infine anabattiste che trovavano seguaci presso gli Agostiniani, i Francescani e i Domenicani. Ma contro le ribellioni, le sette, i carnevali e le concussioni – i suoi principali avversari – San Carlo preferiva i rigori della predicazione o della legge ecclesiastica, più che le interferenze del potere temporale, all’epoca sotto la dominazione spagnola.
Forte dell’esempio del suo illustre predecessore Sant’Ambrogio, mai egli si piegò allo strapotere dell’autorità civile, alla quale non esitò a comminare anche la scomunica. Il Borromeo creò così un corpo d’élite, grazie a istituzioni modello in cui tutti i metodi applicati nella Diocesi potevano funzionare in modo esemplare: «Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam Seminarii institutionem». Niente sembra più necessario o salutare per restaurare l’antica disciplina degli ecclesiastici che l’istituzione di Seminari.
San Carlo si occupò delle vocazioni tardive, dei curati di villaggio, dei piccoli seminari, della formazione ecclesiastica nei cantoni Svizzeri limitrofi, il Ticino e i Grigioni. Ma l’élite che vi si formava non era quella della ricchezza o della nobiltà né quella del sapere: i poveri vi erano largamente ricevuti e finanziariamente aiutati.
Contro la lethargia dei preti e dei vescovi egli oppose l’ascesim, per farne servi, patres, et angeli. Servitori del Vescovo nel suo servizio dei fedeli; padri delle anime, sull’esempio dei Padri della Chiesa antica e dei loro successori; angeli, infine, per l’imitazione di un ordine gerarchizzato, per la castità che vale loro una posterità spirituale, e per il loro statuto di esseri separati.
I balli o le superstizioni che egli soppresse, le sostituì non con discorsi, ma con gesti: guidò egli stesso le processioni di reliquie, si professò pubblicamente devoto dei Santi, si fece pellegrino della Sacra Sindone a Torino o della Vergine a Varallo, Varese, Saronno, Rho, Tirano o Loreto.
E seppe essere tanto fiero Principe della Chiesa dinanzi ai potenti, quanto tenero Pastore del popolo cristiano, sempre senza mai umiliare la dignità di cui era insignito. Scrive eloquentemente di lui il nipote e successore sulla Cattedra milanese, Federico: «mai non si scardinalava, ed […] era un Vescovo che mai non si svescovava».
San Carlo, infine, fu colui grazie al quale nel 1575 venne ripristinato il venerabile Rito Ambrosiano, nel quale sono stato battezzato per immersione e in cui celebro quotidianamente il Santo Sacrificio. Ancora oggi sopravvive, nella sua versione non corrotta dalla pseudoriforma liturgica di Giovanni Battista Montini, in alcune chiese della Diocesi di Milano.
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Invochiamo l’intercessione di San Carlo Borromeo – del quale mi onoro di portare il nome – in questi tempi dolorosi che travagliano la Santa Chiesa. Possa egli essere per noi modello ed esempio, specialmente per quanti di voi si apprestano ad ascendere i gradi dell’Ordine Sacro e per quanti sono già sacerdoti.
Ci guidi nella nostra vita e nel nostro Ministero la dignità con cui San Carlo ricoprì importanti e delicati incarichi al servizio della Chiesa; la fermezza paterna con la quale seppe riformare il Clero e la disciplina ecclesiastica; la mansuetudine con cui istruì il gregge affidatogli dal Signore; la severità verso se stesso nell’orazione, nel digiuno e nella penitenza.
Affidiamo alla sua protezione la Barca di Pietro, nave senza nocchiere in gran tempesta, perché implori dal Cielo nuovi santi Pastori che non si prostrino al mondo, ma a Cristo; che siano fedeli alla Santa Chiesa e al Papato Romano, e non asserviti ai nemici dell’una e dell’altro.
E come abbiamo udito dal Vangelo di ieri, riponiamo la nostra fiducia in Nostro Signore, addormentato mentre i flutti minacciano di sommergere l’unica Arca di salvezza.
Alle nostre preghiere risponda la voce serena del Salvatore, che comanda al mare e ai venti. Tempora bona veniant.
E così sia.
+ Carlo Maria Viganò
Arcivescovo
4 Novembre MMXXIV a. D.ñi S.cti Caroli Episcopi Mediolanensis et Confessoris
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Immagine: Guercino (1591-1666), San Carlo Borromeo in preghiera (1613-1614), Collegiata di San Biagio, Cento (Ferrara)
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Renovatio 21 offre questa omelia di Monsignor Viganò per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
Spirito
L’élite distrugge l’originale per sostituirlo con la contraffazione: mons. Viganò contro il restauro di Notre Dame
Emmanuel Macron inspects the new Altar and Cathedra of the Cathedral of Notre-Dame de Paris, which look like something bought at Ikea. pic.twitter.com/OlYgTojgXN
— Catholic Sat (@CatholicSat) November 29, 2024
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Spirito
La Santa Sede sta valutando la possibilità di creare un reato di abuso spirituale
Il Sommo Pontefice ha accolto la richiesta del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) di costituire un gruppo di lavoro per valutare l’opportunità di creare un nuovo reato di «abuso spirituale» e di integrarlo nel codice di diritto canonico. L’eventuale novità di un simile reato, data la vaghezza del concetto che resta in gran parte da definire, non è priva di interrogativi.
Il codice di diritto canonico si arricchirà di un nuovo provvedimento legislativo? Nulla è ancora certo al momento, ma quello che è certo è che papa Francesco, al termine dell’udienza del 22 novembre 2024 alla presenza del prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF), ha consentito la creazione di un gruppo di lavoro interdipartimentale per lavorare in questa direzione.
La sfida è definire un nuovo reato che copra l’uso abusivo del «falso misticismo» per manipolare una persona. Nel resoconto dell’udienza del 22 novembre, pubblicato dalla Sala Stampa della Santa Sede, si rileva che il cardinale Victor Manuel Fernandez ha spiegato al Papa che il suo dicastero utilizzava già la nozione di «falso misticismo».
Questo utilizzo riguarda un concetto ben preciso: quello di «questioni legate alla spiritualità e a presunti fenomeni soprannaturali (…) come casi di pseudomisticismo, apparizioni, visioni e messaggi attribuiti ad origine soprannaturale».
Ma il prefetto del DDF ha sottolineato un problema che, secondo lui, merita di essere affrontato: «non esiste nel diritto canonico alcun reato classificato sotto l’espressione falso misticismo, anche se i canonisti talvolta usano l’espressione come circostanze di alcuni delitti di abuso».
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Il «patrono della fede» ha ricordato che nei nuovi standard di valutazione di presunti eventi e fenomeni soprannaturali emanati dal suo dicastero all’inizio del 2023, si riconosce ormai che «l’utilizzo di presunte esperienze soprannaturali» o di «elementi mistici riconosciuti come mezzo o pretesto per esercitare un controllo sulle persone o per commettere abusi, deve essere considerato di un peso morale del tutto particolare».
Agli occhi di alcuni canonisti romani – come ricorda il sito d’informazione The Pillar – la questione della creazione di un nuovo reato canonico appare «opportuna, anche se molto tardiva», in particolare a causa dei recenti casi di abuso in cui l’influenza spirituale sembra avere ha giocato un ruolo importante.
Fino a creare recentemente un vero e proprio conflitto di competenze che ha avvelenato i rapporti tra il DDF e la Segreteria di Stato nell’«affare Principi», intitolato a un sacerdote ormai ridotto allo stato laicale.
Ma se alcuni casi di abuso spirituale possono essere chiaramente identificati, altre situazioni più vaghe possono essere piuttosto difficili da valutare dalla legge; senza contare il rischio di vedere moltiplicarsi indebitamente le denunce per tali abusi, intasando i tribunali diocesani e romani che credono di avere abbastanza lavoro da fare per aggiungerne altro.
Tocca ora a mons. Filippo Iannone, prefetto del Dicastero per i testi legislativi, riunire i canonisti competenti per valutare, insieme al DDF, l’opportunità di incrementare l’elenco – già lungo – dei reati perseguiti dal Codice di Diritto Canonico.
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Immagine di S. Perquin via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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Ratzinger e il «mostro» del papato scomposto. Riflessione di mons. Viganò
Renovatio 21 pubblica questa riflessione dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò
IL PAPATO «SCOMPOSTO»
Emeritus, Munus, Ministerium
La saga infinita sulla Rinunzia di Benedetto XVI continua ad alimentare una narrazione delle vicende cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio sempre più ardita e surreale. Teorie inconsistenti e non suffragate da alcuna prova hanno fatto presa su tantissimi fedeli ed anche su sacerdoti, aumentando la confusione e il disorientamento. Ma se ciò è stato possibile, è in buona parte anche dovuto a chi, conoscendo la verità, nondimeno la teme per le conseguenze che essa, una volta svelata, potrebbe avere. Vi è infatti chi ritiene preferibile tenere insieme un castello di menzogne e inganni, piuttosto di dover mettere in discussione un passato di connivenze, silenzi e complicità.Sostieni Renovatio 21
Lo scambio epistolare
Nel corso di un incontro all’Hotel Renaissance Mediterraneo di Napoli con i Cattolici del locale Cœtus fidelium tenutosi lo scorso 22 Novembre, mons. Nicola Bux ha accennato ad uno scambio epistolare con il «Papa emerito Benedetto XVI», risalente all’estate del 2014, che costituirebbe la smentita delle teorie sulla invalidità della Rinunzia. Il contenuto di queste lettere – la prima, di mons. Bux, del 19 Luglio 2014 (tre pagine) e la seconda, di Benedetto XVI, del 21 Agosto successivo (due pagine) – non è stato diffuso dieci anni fa, come sarebbe stato più che auspicabile, ma solo oggi se ne è appena accennata l’esistenza. Si dà il caso che io sia al corrente tanto di questo scambio epistolare quanto del suo contenuto. Per quale motivo mons. Bux decise di non divulgare tempestivamente la risposta di Benedetto XVI quand’era ancora vivo e in grado di confermarla e circostanziarla, e invece di rivelarne soltanto l’esistenza, senza svelarne il contenuto, a quasi due anni dalla sua morte? Perché nascondere alla Chiesa e al mondo questa autorevole e importantissima dichiarazione?La rivoluzione permanente
Per rispondere a questi legittimi interrogativi occorre mettere da parte la finzione mediatica. Occorre anzitutto comprendere che la visione antitetica di un Ratzinger «santo subito» e di un Bergoglio «brutto e cattivo» fa comodo a tanti. Questa impostazione semplicistica, artefatta e falsa, evita di affrontare il cuore del problema, ossia la perfetta coerenza di azione dei «papi conciliari» da Giovanni XXIII e Paolo VI al sedicente Francesco, ivi compresi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. I fini sono gli stessi, anche se perseguiti con modalità e linguaggio differenti. L’immagine di un anziano, elegante e fine teologo, in pianeta romana e calzari rossi, che riconosce cittadinanza al Rito tridentino e di un intemperante eresiarca globalista che non celebra la Messa e vanifica Summorum Pontificum, mentre promulga la liturgia maya con femmine turificanti, rientra in quell’operazione di polarizzazione forzata che abbiamo visto adottata anche nella sfera civile, dove un analogo progetto eversivo è stato condotto a termine favorendo da una parte le forze ultra-progressiste e dall’altro tenendo buone le voci del dissenso. In realtà, Ratzinger e Bergoglio – ed è proprio questo che i conservatori non vogliono riconoscere – costituiscono due momenti di un processo rivoluzionario che contempla fasi alterne e solo apparentemente contrapposte, seguendo la dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. Un processo che non inizia con Ratzinger e non finirà con Bergoglio, ma che rimonta a Roncalli e sembra destinato a protrarsi finché la deep church continuerà a sostituirsi alla gerarchia Cattolica usurpandone l’autorità. Nella visione ratzingeriana, la tesi del Vetus Ordo e l’antitesi del Novus Ordo si compongono nella sintesi di Summorum Pontificum, grazie all’escamotage di un unico rito in due forme. Ma questa «coesistenza pacifica» è il prodotto dell’idealismo tedesco; ed è falsa perché si fonda sulla negazione dell’incompatibilità tra due modi di concepire la Chiesa, uno sancito da duemila anni di Cattolicità, l’altro impostosi con il Concilio Vaticano II grazie all’operato di eretici fino ad allora condannati dai Romani Pontefici.Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
La «ridefinizione» del Papato
Ritroviamo lo stesso modus operandi nella volontà espressa prima da Paolo VI, poi da Giovanni Paolo II e infine da Benedetto XVI di «ridefinire» il Papato in chiave collegiale ed ecumenica, ad mentem Concilii, laddove la divina istituzione della Chiesa e del Papato (tesi) e le istanze ereticali dei neomodernisti e delle sette acattoliche (antitesi) si compongono nella sintesi di una ridefinizione del Papato in chiave ecumenica, prospettata dall’enciclica Ut unum sint promulgata da Giovanni Paolo II nel 1995 e più recentemente formulata nel Documento di Studio del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani dello scorso 13 Giugno: Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica ‘Ut unum sint’. Non stupirà apprendere – come mi confidò il card. Walter Brandmüller nel gennaio del 2020 rispondendo ad una mia precisa domanda – che il prof. Joseph Ratzinger elaborava la teoria del papato emerito e collegiale con il collega Karl Rahner, negli anni Settanta quando entrambi erano «giovani teologi». Nel corso di una conversazione telefonica che ebbi nel 2020, una fidatissima assistente di Benedetto XVI mi confermò l’intenzione del Papa – più volte reiterata alla stessa – di ritirarsi a vita privata nella sua dimora bavarese, senza mantenere né il nome apostolico né le vesti papali. Ma questa eventualità era considerata come inopportuna per coloro che avrebbero perso il proprio potere in Vaticano, specialmente nei confronti di quei conservatori che avevano in Benedetto XVI il proprio riferimento e ne avevano mitizzata la figura. Non sappiamo con certezza se la soluzione teorizzata con Rahner dal giovane Ratzinger fosse ancora contemplata dall’anziano Pontefice, né se il papato emerito sia stato «riesumato» da chi voleva tenere Benedetto in Vaticano, anche avvalendosi delle pressioni esterne sulla Santa Sede che si erano concretizzate con la sospensione del Vaticano dal sistema SWIFT, ripristinato significativamente subito dopo l’annuncio della Rinunzia. Di fatto la Rinunzia ha creato un’immensa confusione nel corpo ecclesiale e ha consegnato la Sede di Pietro al suo demolitore, il che vede comunque coinvolto Joseph Ratzinger. Benedetto ricorse quindi all’invenzione del «Papato emerito», cercando, in violazione della prassi canonica, di tenere in vita l’immagine del «fine teologo» e del defensor Traditionis che il suo entourage aveva costruito. Peraltro, un’analisi delle vicende che riguardano l’epilogo del suo Pontificato è estremamente complessa sia in ragione delle peculiarità intellettuali e caratteriali di Ratzinger, sia per l’opacità dell’azione dei suoi collaboratori e della Curia, sia infine per l’assoluto ἅπαξ della Rinunzia, così come effettuata da Benedetto XVI, una modalità del tutto inedita mai prima verificatasi nella storia del Papato. D’altra parte, questa parentesi di mozzette e camauri doveva eclissarsi con il passaggio delle consegne al già designato arcivescovo di Buenos Aires, candidato dalla Mafia di San Gallo a prendere il suo posto sin dal Conclave del 2005. Il ruolo di Benedetto XVI come Emerito ha avuto la funzione di affiancare una sorta di papato conservatore (munus) che vigilasse sul papato progressista di Bergoglio (ministerium), in modo da tenere insieme la componente moderatamente conservatrice ratzingeriana e quella violentemente progressista bergogliana, favorendo la percezione di una continuità tra il «papa emerito» e il «papa regnante». In sostanza, si è trovato il modo di mantenere Benedetto in Vaticano, per far sì che la sua presenza entro le Mura Leonine apparisse come una forma di approvazione di Bergoglio e delle aberrazioni del suo «pontificato». Dal canto suo, l’argentino ha visto in questo monstrum canonico – perché tale è il «papato emerito» – uno strumento di destrutturazione del Papato in chiave conciliare, sinodale ed ecumenica; la qual cosa, come sappiamo, era condivisa dallo stesso Benedetto XVI.Il «monstrum» canonico del Papato emerito
Va detto che anche l’istituto dell’Episcopato emerito è un monstrum canonico, perché con esso il Vescovo diocesano si vede «congelare» la giurisdizione su base anagrafica (al raggiungimento del 75° anno di età), contro la prassi plurisecolare della Chiesa. L’emeritato, facendo venir meno nei Vescovi la coscienza di essere Successori degli Apostoli, ha avuto come immediata conseguenza anche una totale deresponsabilizzazione, relegandoli al ruolo di meri funzionari e burocrati. Anche l’istituzionalizzazione delle Conferenze Episcopali come organismi di governo che interferiscono ed ostacolano l’esercizio della potestas dei singoli Vescovi, ha certamente costituito un attentato alla divina costituzione della Chiesa Cattolica e alla sua Apostolicità. L’Episcopato emerito, introdotto subito dopo il Concilio nel 1966 con il Motu Proprio Ecclesiæ Sanctæ e poi acquisito dal Codice di Diritto Canonico del 1983 (can. 402, § 1), rivela una significativa coerenza con Ingravescentem ætatem del 1970, che priva i Cardinali settantacinquenni delle loro funzioni di Curia e quelli ottantenni del diritto di eleggere il Papa in Conclave. Al di là della formulazione giuridica di queste leggi ecclesiastiche, se ne comprende la mens solo in un’ottica di deliberata esclusione dei Vescovi e dei Cardinali anziani dalla vita della Chiesa, volta a favorire il «ricambio generazionale» – un vero e proprio reset della gerarchia Cattolica – con Prelati ideologicamente più vicini alle nuove istanze promosse dal Vaticano II. Questa epurazione artificiale della compagine più anziana dell’Episcopato e del Collegio Cardinalizio – e dunque presumibilmente meno incline alle innovazioni – ha finito per falsare gli equilibri interni alla gerarchia, secondo un’impostazione mondana e secolare già ampiamente adottata in ambito civile. E quando, sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II, le cosiddette «vedove Montini» – ossia i cardinali che negli anni Ottanta avevano raggiunto i limiti di età – chiesero la revoca di Ingravescentem ætatem per non essere escluse dal Conclave, divenne evidente che anche i progressisti degli anni Settanta erano ormai destinati a loro volta a finire vittime della norma che avevano invocato per altri: Et incidit in foveam quam fecit (Ps 7, 16). Non sfuggirà che, in un’ottica di «ridefinizione» del papato in chiave sinodale, laddove il Vescovo di Roma sia considerato primus inter pares, l’istituzione dell’Episcopato emerito e le norme che limitano l’esercizio dell’Episcopato e del Cardinalato al raggiungimento di una certa età, costituiscono la premessa all’istituzionalizzazione del Papato emerito e alla giubilazione del Papa anziano.Iscriviti al canale Telegram
Il falso problema di munus e ministerium
Dalla tesi del Papato (sono papa) in conflitto con l’antitesi della Rinunzia (non sono più papa) risulta un concetto in continuo divenire – come il divenire è l’assoluto per Hegel – ovverosia la sintesi del papato emerito (sono ancora Papa ma non faccio più il Papa). Non si trascuri questo aspetto filosofico del pensiero di Joseph Ratzinger, che gli è precipuo e ricorrente: la sintesi è di per sé provvisoria, in vista di una sua mutazione in tesi a cui si contrapporrà una nuova antitesi che darà luogo ad un’ulteriore sintesi, a sua volta provvisoria. Questo incessante divenire è la base ideologica, filosofica e dottrinale della rivoluzione permanente inaugurata dal Concilio Vaticano II sul fronte ecclesiale e dalla Sinistra globale sul fronte politico. Abbiamo dunque assistito a una sorta di separazione artificiale del Papato: da una parte il Papa rinunciava al Papato e dall’altra la persona papæ, Joseph Ratzinger, cercava di mantenerne alcuni aspetti che gli garantissero protezione e prestigio. Siccome l’allontanamento fisico dalla Sede Apostolica poteva apparire come una forma di disapprovazione della linea di governo della Chiesa imposta dalla deep church bergogliana, tanto il Segretario personale quanto il Segretario di Stato fecero forti pressioni perché Ratzinger rimanesse «a mezzo servizio», per così dire, giocando sulla fittizia separazione tra munus e ministerium – peraltro vigorosamente smentita nella risposta dell’Emerito a mons. Bux. Il prof. Enrico Maria Radaelli ha evidenziato nei suoi approfonditi studi che questa arbitraria bipartizione del mandato petrino tra munus e ministerium rende invalida la Rinunzia. Dal momento che il Primato petrino non può essere scomposto in munus e ministerium, essendo esso una potestas che Cristo Re e Pontefice conferisce a colui che è stato eletto per essere Vescovo di Roma e Successore di Pietro, la negazione di Ratzinger (nella citata lettera) di non aver voluto scindere munus e ministerium è in contraddizione con l’ammissione dello stesso Benedetto di aver impostato il Papato emerito sul modello dell’Episcopato emerito, che appunto si basa su questa artificiosa e impossibile scissione tra essere e fare il Papa, tra essere e fare il Vescovo. L’absurdum di questa divisione è evidente: se fosse possibile possedere il munus senza esercitare il ministerium, dovrebbe essere parimenti possibile esercitare il ministerium senza possedere il munus, ossia svolgere le funzioni di papa senza esserlo: la qual cosa è un’aberrazione tale da inficiare radicalmente il consenso all’assunzione del Papato stesso. E in un certo senso questa dicotomia surreale tra munus e ministerium l’abbiamo vista concretizzata, quando l’Emerito era papa ma non esercitava il papato, mentre Bergoglio faceva il Papa senza esserlo.Aiuta Renovatio 21
La desacralizzazione del Papato
D’altronde, il processo di desacralizzazione del Papato iniziato con Paolo VI (pensiamo alla scenografica deposizione del triregno) è proseguito senza soluzione di continuità anche sotto il Pontificato di Benedetto XVI (che ha rimosso la tiara anche dallo stemma papale). Ciò è da attribuirsi precipuamente alla nuova ecclesiologia ereticale del Vaticano II, che ha fatto proprie le istanze della società secolarizzata e «democratica» accogliendo in seno alla Chiesa concetti quali la collegialità e la sinodalità che le sono ontologicamente estranei, stravolgendo così la natura monarchica della Chiesa voluta dal suo divino Fondatore. Lascia certamente interdetti e immensamente addolorati vedere con quanto zelo la gerarchia conciliare e sinodale si sia fatta promotrice della sovversione in seno alla Chiesa Cattolica. Una sequenza di riforme, norme e pratiche pastorali da oltre sessant’anni demoliscono sistematicamente ciò che sino a prima del Vaticano II era considerato intangibile e irriformabile. Va anche ricordato che la Rinunzia di Benedetto XVI non è stata seguita da un normale Conclave, nel quale gli Elettori hanno scelto serenamente il candidato alla successione sul Soglio di Pietro; ma da un vero e proprio colpo di Stato compiuto ex professo dalla Mafia di San Gallo – ossia dalla componente eversiva infiltratasi nella Chiesa nel corso dei decenni precedenti – mediante la manomissione e violazione del regolare processo elettivo e il ricorso a ricatti e pressioni sul Collegio Cardinalizio. Non dimentichiamo che un eminente prelato ha confidato a conoscenti che ciò a cui aveva personalmente assistito in Conclave poteva pregiudicare la validità dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio. Anche in questo caso, incomprensibilmente, il bene della Chiesa e la salvezza delle anime sono stati messi da parte, in nome di una farisaica osservanza del segreto pontificio, forse non del tutto scevra da ricatti e minacce. Vi è un’evidente contraddizione tra lo scopo che Benedetto si prefiggeva (cioè: rinunciare al papato) e il mezzo che egli ha scelto per farlo (basato sull’invenzione del Papato emerito). Questa contraddizione, in cui soggettivamente Benedetto si è dimesso ma oggettivamente ha prodotto un monstrum canonico, costituisce un atto così sovversivo da rendere nulla e invalida la Rinunzia. A suo tempo questa contraddizione dovrà essere sanata da un pronunciamento autoritativo, ma rimane il fatto ineludibile che la forma in cui è stata posta la Rinunzia non toglie le successive irregolarità che hanno portato Bergoglio ad usurpare il Soglio di Pietro con la complicità della deep church e del deep state. Né è possibile pensare che la Rinunzia non debba essere letta alla luce del piano eversivo che mirava ad estromettere Benedetto XVI per sostituirlo con un emissario dell’élite globalista. Il castello di menzogne cui cooperano laici, sacerdoti e prelati, anche in buona fede, rimane una gabbia nella quale essi si sono imprigionati. Nella drammatizzazione mediatica, gli attori Ratzinger e Bergoglio ci sono stati presentati come portatori di teologie antitetiche, quando in realtà essi rappresentano due stadi successivi del medesimo processo rivoluzionario. Ma l’apparenza, il simulacro su cui si basa la comunicazione di massa non può sostituire la sostanza di Verità cui è indefettibilmente tenuta la Chiesa Cattolica per mandato divino.Sostieni Renovatio 21
Conclusione
Ai tantissimi fedeli scandalizzati, ai molti sacerdoti e religiosi confusi e indignati, ai pochi – almeno per ora – che levano la voce per denunciare il golpe perpetrato ai danni della Santa Chiesa dai suoi stessi Ministri, rivolgo il mio incoraggiamento a perseverare nella fedeltà a Nostro Signore, Sommo ed Eterno Sacerdote, Capo del Corpo Mistico. Resistete forti nella fede, ci ammonisce il Principe degli Apostoli (1 Pt 5, 9), sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le vostre stesse sofferenze. Il sonno nel quale il Salvatore sembra ignorarci mentre la Barca di Pietro è sconquassata dalla tempesta, deve essere per noi uno sprone ad invocare il Suo aiuto, perché solo nel momento in cui ci rivolgeremo a Lui, lasciando da parte rispetti umani, teorie inconsistenti e calcoli politici, Lo vedremo destarSi e comandare ai venti e al mare di placarsi. Resistere nella fede richiama il combattimento per rimanere fedeli a ciò che il Signore ha insegnato e comandato, proprio nel momento in cui molti, soprattutto ai vertici della gerarchia, Lo abbandonano, Lo rinnegano e Lo tradiscono. Resistere nella fede implica il non venir meno nel momento della prova, sapendo attingere in Lui la forza per superarla vittoriosi. Resistere nella fede significa infine saper guardare in faccia la realtà della passio Ecclesiæ e del mysterium iniquitatis, senza cercare di dissimulare l’inganno dietro il quale si nascondono i nemici di Cristo Questo è il senso delle parole del Salvatore: Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi (Gv 8, 32). + Carlo Maria Viganò Arcivescovo 30 Novembre 2024, Andreæ ApostoliIscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
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