Pensiero
I sindaci si arrendono a Fleximanno. Lo Stato moderno non lo farà mai
Fleximan è l’eroe del momento, la cosa è indiscutibile.
I giornali ieri dicono che sarebbe arrivato a quota 13. A Villa del Conte, in provincia di Padova, sarebbe stata lasciata anche una rivendicazione, una minaccia, un annuncio: «Fleximan sta arrivando». Ha colpito in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. In una sola settimana è riuscito a colpire cinque volte.
L’uomo che col flessibile, sterminatore di autovelox, è divenuto popolare come nessuno. Fleximan, che noi vogliamo chiamare Fleximanno (perché Norman–>Normanno; Herman –>Ermanno; Batman –>Batmanno) sembra trionfare nel cuore del popolo italiano.
Le discussioni nei bar d’Italia, città e campagna finalmente all’unisono, non possono vertere su altro. Giornali e telegiornali lo chiamano «vandalo», ma al popolo pare non importare.
I social traboccano di suoi ammiratori, tanto che un giudice ha già detto che potrebbe configurarsi per tutti il reato di apologia di reato: il lettore è avvisato, sapete che da lustri oramai si può venire rinviati a giudizio per un like, e in massa, e non scherziamo. (Va detto che vi sono avvocati in rete che dicono che, secondo una sentenza di qualche anno fa, il danneggiamento di autovelox comporterebbe invece una multa, peraltro di entità inferiore a molte multe per eccesso di velocità)
Siti e organizzazioni hanno prodotto con l’Intelligenza Artifiziale quantità di immagini del supereroe stradale padano, e anche Renovatio 21, come vedete qui sopra, ci ha dato dentro come poteva. (Apprezzerete la nostra versione, che prevede un elmo stile cavaliere medievale al neon, stile crociato del secolo XXI, e ovviamente il mantello, che forse è un tabarro portato in maniera ribalda).
A Padova è spuntato un murales che lo celebra sotto le forme della figlia dell’oscuro tibetologo consacrato portavoce del Dalai Lama Robert Thurman, Uma, nei panni della spadaccina vendicatrice della pellicola Kill Bill (2004): ornata della tuta giallonera di Bruce Lee ne L’ultimo combattimento di Chen (1978), in una mano tiene la katana, nell’altra un autovelox amputato.
Fleximan, murales nel centro di Padova: la giustiziera di Kill Bill in omaggio al “tagliatore” di autovelox https://t.co/jgU9CiHAJD . Leggi l'articolo⤵️
— il Resto del Carlino (@qn_carlino) January 24, 2024
Sono saltati fuori degli emulatori: quello piemontese però è stato beccato, identificato e denunziato.
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La notizia, tuttavia, è la resa dei sindaci. Testate nazionali riportano che un numero di primi cittadini veneti avrebbe alzato bandiera bianca: il segnale che daranno è che non piazzeranno autovelox nuovi al posto di quelli abbattuti dalla furia fleximanna.
Il sindaco di Villanova (PD) rifiuta l’idea di una reinstallazione: «in quella stessa strada ce n’è già un altro, e poi dobbiamo tenere conto anche del dissenso delle persone, se c’è chi arriva a tanto non possiamo ignorarlo».
Il sindaco di Cadoneghe Marco Schiesaro: «già non ero molto convinto prima, ora con quello che è successo, le indagini e tutto il resto, ho deciso di non reinstallare nulla».
Il sindaco di Tribano Massimo Cavazzana: «dobbiamo fare una riflessione, la nostra strada è battuta da molti camion e le auto vanno spesso in sorpasso, però dobbiamo anche trovare un dialogo con la popolazione, magari potremmo accenderlo a fasce orarie e mettere degli avvisi quando è funzionante».
Fleximanno ha vinto per lo meno nel padovano: nel rodigino invece un sindaco ha detto che «non possiamo certo darla vinta a questi criminali», un altro sta cercando di sostituire l’autovelox abbattuto alla viglia di Natale.
Ora, che i sindaci indicano la ritirata è un segno potente: l’autorità, sentita la vox populi, arretra. Mica capita spesso, anzi. Ma è facile capire cosa stia succedendo: i sindaci dei piccoli comuni non sono solitamente scarrozzati da autoblu con lampeggiante. Sono, cioè, politici non divorziati dalla realtà – anche dalla realtà stradale – come lo sono quelli romani, quelli che fanno leggi e decreti, e poi calpestano il traffico con il macchinone la scorta.
Il sindaco del piccolo comune, sempre a differenza di molti politici romani, non è stato sempre sindaco: e quindi si ricorda come anche lui, negli anni, è stato molestato dagli automi implacabili che misurano la tua velocità – e vogliamo dire che proprio da quelle parti c’è un Paese dove, se vi si passa, è impossibile non prendere una multa (lo scrivente, che è uno che tendenzialmente guida pianissimo, ne ha prese due a distanza di pochi giorni) e una tangenziale dove possono arrivarti more per eccesso di 1 chilometro all’ora sul limite.
Insomma, il sindaco, nonostante sia entrato dentro il meccanismo dello Stato italiano, potrebbe essere d’accordo: con gli autovelox si è esagerato.
L’idea di essere multati senza nessun contatto umano – ti controlla una macchina, una vera Intelligenza Artificiale ante litteram – è snervante per chiunque, per alcuni estremisti non dovrebbe nemmeno essere legale. E i casi di autovelox truccati sono noti: nel 2011 si parlava di 146 comuni coinvolti, centinaia di indagati, una cifra di almeno 82 mila multe emesse ingiustamente.
C’è la questione poi del costo: una multa, per molti di noi, è qualcosa che ti cambia l’economia del mese. Il popolo che arranca per arrivare a fine mese apre tremando al postino che porta la raccomandata. Non è così, invece per gli abbienti: anzi, possono considerare la mora come un costo compreso nello spostamento.
Un caso del genere lo si è visto a Vicenza pochi giorni fa: un signore con una stupenda Lamborghini ha parcheggiato dinanzi a Piazza dei Signori, Sancta Sanctorum della pedonalità della città più pedonale d’Italia, piazza dove in teoria nemmeno le biciclette potrebbero transitare. Quando i vigili gli hanno detto che dovevano procedere con la multa di ben 100 euro, il ricco personaggio «avrebbe immediatamente mostrato una certa insofferenza e cominciato a darsi delle arie con gli agenti della pattuglia che gli chiedevano di esibire patente e libretto», e poi «avrebbe deriso anche quella cifra, sottolineando che l’avrebbe pagata senza battere ciglio perché per lui sarebbe un importo irrisorio» ha scritto Il Giornale di Vicenza.
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Insomma, le multe, come le tasse, sono un mezzo per spremere i poveri facendoli soffrire, mentre i ricchi possono permettersi di pagarle – o di non pagarle.
Il gettito delle multe non è, per lo Stato, una voce da sottovalutare: nel 2022 il «mercato» valeva 3 miliardi, con città come Milano che incassano 150 milioni di euro in un anno dalle contravvenzioni.
Lo Stato può rinunziare ad una simile manna? Sono cifre da piccola manovra, sono quello che si definisce nel linguaggio politico-giornalistico un «tesoretto».
E quindi: no, il governo non può rinunziarvi, sono tanti soldi. O forse… anche sì?
Ipotizziamo: se montasse una vera ondata di malcontento, non è impossibile che l’autorità possa iniziare a considerare di smetterla di depredare le tasche dei cittadini con un sistema percepito via via sempre più come un sopruso. Scelte antieconomico in passato sono già state fatte: pensate dalla denuclearizzazione del Paese seguita al referendum del 1986.
È possibile, quindi, che anche al governo possano iniziare a pensarla come i sindaci padovani, i quali, va ricordato, si arrendono al Fleximanno lasciando sul piatto il gruzzoletto annuo delle multe.
Tuttavia, bisogna capire che se mai si farà a meno all’autovelox, sarà per istituire un sistema di controllo più. Perché lo Stato moderno non può esistere senza il controllo – diffuso, capillare, digitale, totale – sul cittadino.
Il controllo, numerico e biologico, è il fondamento dello Stato moderno. Lo Stato che in realtà è «piattaforma», e il cittadino «utente», dove non ci sono diritti, ma «accessi», tutto sotto la gestione del sistema che richiede non la cooperazione del cittadino, ma la sua sottomissione.
Ne abbiamo avuto la prova con il green pass: lo Stato che controllava la tua persona a livello biomolecolare, e che a seconda di esso ti proibiva di uscire e di lavorare, rispetto agli abusi delle contravvenzioni automatiche è avanti di anni luce in fatto di sorveglianza totale.
La realtà è che parlare di autovelox, oggi, è come parlare di carrozze e cavalli invece che di auto elettriche. Già vi sono mille sistemi più pervasivi, e non abbattibili, non fleximannabili, per controllare non solo quanto veloce correte, ma dove andate, quante volte, quando, perché.
Ci sono i satelliti, ci sono le telecamere intelligenti, magari con il riconoscimento facciale, ci sono i droni – anche quelli visti durante i lockdown, prova generale per la società del controllo, per la tecnocrazia che l’élite sogna di infliggere al resto dell’umanità almeno dai tempi della Repubblica di Platone.
Ci sono, soprattutto, i vostri telefonini: lo sapete, vi seguono, vi tracciano, prevedono i vostri spostamenti – e rivendono l’informazione a qualcuno che sui vostri dati lucrerà.
Di più: sapete anche che i vostri telefonini vi ascoltano, anche se hanno pure il coraggio di negarlo. Orwell in 1984 raccontava degli incontri dei protagonisti nei boschi, dove si sperava non vi fossero i microfoni del Grande Fratello, anche se il dubbio c’era. Nel XXI secolo, i microfoni del potere totalitario li portiamo appresso da noi, si chiamano smartphone, e che ci spiano senza pietà oramai è cosa che abbiamo perfino accettato, come il protagonista nel tremendo finale del romanzo.
Vogliono controllare ogni parte della vostra vita: vogliono stabilire quello che potete e non potete dire su internet (lo fanno già da anni), vogliono stabilire quello che dovete mangiare (dite addio alla carne) , quanto dovete spostarvi (perché, anche solo respirando, emetterete CO2, la sostanza che sta alla base della vita), cosa dovete comprare, quando dovete farlo, dove potrete farlo (le CBDC, l’euro digitale, sono qui) vogliono entrarvi nel cervello con microchip che renderanno le elezioni inutili, dice Klaus Schwab.
La tecnocrazia ha già messo i sensori in ogni ambito della nostra vita, e glielo abbiamo lasciato fare, con i computer e con il COVID.
Che cosa potrà mai essere, quindi, un autovelox abbattuto, se il mondo intero sta divenendo un’immane, ineludibile, matrice di controllo?
Quale Fleximan occorre, per fermare l’incubo biototalitario che si sta caricando in tutto l’Occidente?
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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Immagine screenshot da YouTube
Eutanasia
Il vero volto del suicidio Kessler
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