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Storia

I servizi russi: ai media tedeschi è stato chiesto di nascondere i simboli nazisti in Ucraina

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Il governo tedesco ha ordinato ai media nazionali di non mostrare simboli nazisti in Ucraina, secondo il Servizio di Intelligence Estero russo (SVR). I giornalisti sono stati avvertiti che potrebbero affrontare ripercussioni legali per aver trasmesso tali immagini, ha riferito l’agenzia lunedì.

 

Secondo l’SVR, le linee guida consigliano ai giornalisti di chiedere «gentilmente» ai soldati ucraini che espongono la svastica o altri simboli associati al nazismo di rimuovere gli «elementi di agitazione» ed evitare «azioni sgradite», come eseguire il saluto nazista.

 

L’agenzia ha sottolineato che la prevalenza dell’iconografia e dell’ideologia nazista nell’Ucraina contemporanea è ben documentata. La raccomandazione di escludere le prove dalle trasmissioni suggerisce un tentativo di fuorviare il pubblico tedesco sulla situazione, ha affermato l’SVR.

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Sebbene il rapporto russo non abbia specificato quando è stato emesso il documento o quale ramo del governo ne fosse responsabile, ha affermato che il rispetto delle disposizioni da parte delle agenzie di stampa riflette una mancanza di indipendenza.

 

Secondo il codice penale tedesco, l’esposizione pubblica di simboli associati al Terzo Reich è generalmente vietata, fatta eccezione per scopi didattici, scientifici, giornalistici o artistici.

 

Secondo Mosca, il nazionalismo ucraino moderno è plasmato dalla collaborazione storica con la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Personaggi come Stepan Bandera, che cercarono di stabilire uno stato-nazione ucraino sotto il patrocinio tedesco, sono celebrati come eroi nazionali.

 

La stampa e i politici occidentali hanno minimizzato l’uso di simboli nazisti da parte dei soldati ucraini, inquadrandolo come una stranezza storica piuttosto che come un segno di affiliazioni neonaziste, e liquidando le affermazioni contrarie come «propaganda russa». Mosca sostiene di aver accumulato prove sostanziali delle atrocità ucraine commesse sulla base di idee di supremazia nazionale, giustificando così la definizione del governo di Kiev come regime neonazista.

 

Come riportato da Renovatio 21, due anni fa vi fu il grottesco episodio dell’agenzia di stampa internazionale Reuters che aveva pubblicato un’intervista con una recluta ucraina con nome in codice «Adolf». Non paga, mesi dopo aveva ignorato che la foto che aveva mandato in stampa per un articolo ritraeva un ucraino con uno svasticone tatuato sul braccio.

 

C’era stato poi l’episodio, mitico, della foto fatta circolare dai giornali ignari di un combattente ucraino con la toppa dell’ISIS. Cosa che lascia pensare che quando Assad dice di aver le prove che gli USA addestrano terroristi islamici in Siria per mandarli in un Ucraina (cosa che un anno fa già dicevano i servizi russi) forse bisogna un po’ credergli.

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Come riportato da Renovatio 21, in precedenza il governo tedesco aveva rivelato di aver espulso sette soldati ucraini che esibivano simboli nazisti mentre erano nel paese per l’addestramento.

 

Dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina, sono emerse innumerevoli fotografie e video di soldati ucraini che indossano insegne della Germania di quei tempi, alcune delle quali sono state pubblicate sui social media dal presidente Vladimir Zelensky, il quale in teoria è di origine ebraica.

 

Vogliamo rammentare, tuttavia, che nel campionato mondiale di risciacquo del nazi, il Corriere della Sera, con questa indimenticabile intervista fatta ad un combattente runico a caso fuori dalla Lavra.

 

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Intelligence

Il potere della vittima

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È riemersa in queste ore una vecchia storia dell’orrore, quella dei «turisti-cecchini» italiani che avrebbero pagato per andare ad uccidere persone a caso nella Bosnia dilaniata dalla guerra degli anni Novanta. «I cecchini del weekend, dall’Italia a Sarajevo per uccidere: “Centomila euro a bambino, safari criminale”» titola Il Giorno.   È la storia, mai del tutto definita, delle «battute di caccia» di crudeli cittadini italiani nel caos sanguinario della fine della Yugoslavia.   «Viaggi in aereo fino a Belgrado, per poi spostarsi in elicottero o con veicoli a Pale e Sarajevo, ma anche a Mostar, altra città della Bosnia-Erzegovina dove secondo alcune testimonianze sono stati notati “tiratori turistici”» scrive il quotidiano, che fa almeno un nome, quello di «Jovica Stanisic, ex capo del servizio di sicurezza della Serbia condannato a 15 anni di carcere all’Aia per crimini di guerra nella ex Jugoslavia», il quale «avrebbe svolto un “ruolo” nell’organizzazione».

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L’articolo parla di esposto di un giornalista italiano alla Procura di Milano, per il quale potrebbe essere ascoltato dal giudice una delle fonti dei virgolettati del pezzo, un ex ufficiale dell’Intelligence militare della Bosnia, cioè il Paese considerato vittima delle violenze dei serbi.   «Per il modo in cui tutto era organizzato – ha spiegato l’ex 007 – i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo e che fosse coinvolto anche il servizio di Intelligence militare serbo con l’assistenza di comandanti serbi nella parte occupata» continua Il Giorno.   La storia raccontata dalla spia militare bosniaca è allucinante: all’epoca, ha raccontato, «condividemmo le informazioni con gli ufficiali del SISMI(ora AISI) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste (…) un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste». Nell’esposto, prosegue la testata «si fa riferimento a “soffiate” pure sul tariffario dell’orrore: “i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis”».   I nomi, tuttavia, non saltano fuori. Un altro articolo sempre de Il Giorno titola «Cecchini del weekend a Sarajevo, l’ex 007 bosniaco: “Il SISMI fu informato e li bloccò. Ma non abbiamo mai ottenuto i nomi”».   Nelle conclusioni fa capolino, d’un bleu, il neofascismo: «la speranza è quella di riuscire a dare un nome agli impuniti “cecchini del weekend” e trovare elementi in grado di portare a una svolta, trent’anni dopo i fatti. Persone vicine ad ambienti dell’estrema destra, che avrebbero agito “con la copertura dell’attività venatoria” e con soldi da spendere». Insomma fascisti abbienti in combutta con i servizi di un Paese post-comunista, per il brivido di uccidere a pagamento.

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Lasciamo alla magistratura il lavoro di accertare i fatti, che sarebbero di gravità rivoltante – notiamo, tuttavia, che a distanza di 30 anni questi ricchi destrorsi potrebbero ora avere quasi ottant’anni (e quindi, potrebbero scampare la galera anche se condannati) oppure essere addirittura deceduti.   Questo rigurgito della guerra yugoslava ci riporta alla mente tante, tantissime cose. Ci ricordiamo quando, all’epoca, eravamo praticamente convinti delle storie degli orchi serbi e dei poveri bosniaci, senza minimamente pensare che si trattasse di propaganda NATO: l’Occidente, secondo un disegno usato più di una volta, voleva spaccare la Yugoslavia cugina della Russia, e, manovra più interessante, creare un piccolo Stato musulmano in Europa.   E ce la fecero: eccoti la Bosnia-Erzegovina (un nuovo Stato talmente autentico da avere un nome duplice, tipo Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Massa-Carrara), con a capo Alija Izetbegović (1925-2003), da giovane membro dei Mladi Muslimani, i «Giovani Musulmani» che volevano un ritorno all’Islam più puro per le genti yugoslave la cui pratica era stinta.   I «Giovani Musulmani» si divisero tra il sostegno alla divisione Handschar delle Waffen-SS, a maggioranza musulmana, o ai partigiani comunisti jugoslavi. Il New York Times sostiene che si sia unito alla divisione Handschar delle SS. Vedendo l’Ucraina odiera sappiamo, tuttavia, che l’Occidente è disposto a chiudere un occhio sulla svastica, se è per dare addosso a nemici della Russia.   Finita la guerra, nel 1946 lo trovano a pubblicare un giornale clandestino chiamato Muzhahid («Mujahiddin») e viene imprigionato per «affermazioni contro l’Unione Sovietica».   Nel 1970, Izetbegovic pubblicò un manifesto intitolato Dichiarazione islamica, in cui esprimeva le sue opinioni sui rapporti tra Islam, Stato e società. Il manifesto fu vietato dal governo, che vi vedeva una cospirazione per l’istituzione di una Bosnia-Erzegovina «islamicamente pura». La Dichiarazione designava il Pakistan come un Paese modello da emulare per i rivoluzionari musulmani di tutta la Terra.   «Non può esserci pace o coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche… lo Stato dovrebbe essere un’espressione della religione e dovrebbe sostenere i suoi concetti morali» scrive ancora il futuro presidente bosniaco, il quale non abbiamo idea di quante foto abbio fatta assieme ai nostri primi ministri, presidente, deputati, etc.   In pratica, un fondamentalista islamico al vertice di un Paese Europeo, creato apposta per lui. Uno Stato Islamico europeo, sia pure senza la boria videomatica che successivamente mostrò l’ISIS, come da disegno del mondo-Clinton. Creiamo un Stato musulmano teoricamente «moderato» (anche se cosparso di integralisti), come spina nel fianco dell’Europa, pronto per fare, alla bisogna delle «cose interessanti».   Per significare queste «cose interessanti» voglio buttare là, così per fare, un paio di volte in cui la narrazione della Bosnia come vittima dei malvagi serbi, qualche volta, anche leggendo i giornaloni, ha vacillato. Per esempio, quando si apprese che l’allora imam della controversa moschea di viale Jenner a Milano finì i suoi giorni in battaglia in Bosnia – e chissà quindi cosa predicava sotto la Madonnina, e chissà chi faceva passare di là, tenendo presente che erano pure gli anni delle infinite stragi islamiche in Algeria.   Vi fu poi l’incredibile storia, circolata su qualche giornale e TV, del villaggio musulmano bosniaco da dove, dieci anni fa, sarebbe partito un commando suicida, poi neutralizzato, intento a fare esplodere Piazza San Pietro durante i funerali di Giovanni Paolo II, incredibile celebrazione dove potevano disintegrare una quantità di Presidenti americani, europei, africani, asiatici più re e regine e perfino il papa successivo. Si parlò di un gruppo chiamato «Gioventù islamica attiva», nome non tanto distante da quello del gruppo del presidente bosniaco mezzo secolo prima.   La storia della Bosnia-pakistana e dei balcani islamici non si fermò a Sarajevo.

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Di lì a poco arrivò il Kosovo, dove si ripeté lo schemino: con la spintarella atlantico-americana, via un pezzo della Yugoslavia, cioè la Serbia, legata ai russi, e avanti con un altro staterello islamico-europeo – il quale sarebbe divenuto, di lì a poco, il primo Paese al mondo per esportazione pro-capite di foreign-fighter ISIS. La guerra del Kosovo fu un’ulteriore galleria dell’orrore, con la NATO che stavolta arrivò a bombardare direttamente Belgrado e oltre, mentre in televisione servivano immagini di un esodo di kosovari musulmani che denunziavano ogni tipo di violenza: ecco, gli islamici yugoslavi erano, ancora una volta, vittime dei serbi.   Non che i serbi non abbiano riflettuto, in qualche modo, su questo schema di vittima-carnefice in cui, per un disegno geopolitico, metapolitico immenso, si sono trovati incastrati.   Lo ha fatto un film che non ho visto, e che non vedrò mai (perché ci tengo all’integrità della mia mente) così come con probabilità non lo vedranno in Spagna, Portogallo, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Brasile, dove la pellicola è stata proibita. Si tratta di un horror intitolato, semplicemente Srpski film (2010), noto internazionalmente come A Serbian film («Un film serbo»).   Quello che so della trama lo devo ad un amico serbo, divenuto poi cittadino italiano, che non c’è più, perché divorato da un turbo male, al cui pensiero ho gli occhi lucidi anche ora mentre scrivo. Lui – che no, non aveva nessun istinto orrendo, essendo una delle persone più buone che abbia mai conosciuto – mi spiegava come questa storia lasciava il segno nella sensibilità serba dopo gli anni di guerra.   La trama del film, che riprendiamo dall’enciclopedia online, vede Milos, un pornodivo ritiratosi a vita privata per stare con moglie e figlio, venga invitato ad una nuova produzione serba per il mercato estero. Il produttore, che offre una quantità di danaro immensa che permette a Milos di risolvere i suoi guai finanziari, specifica nel contratto che il pornoattore non deve sapere nulla del film che sta girando.   Il primo set della misteriosa produzione cinematografica è un orfanotrofio, dove Milos assiste al pestaggio di una ragazzina da parte di sua madre, una prostituta, che poi farà una scena di fellatio con lui dinanzi alla figlia: l’uomo si rifiuta, ma è costretto dai cameraman, e invitato a picchiare a sua volta la donna.   A quel punto Milos, disgustato e sconvolto, decide di non proseguire le riprese e va a parlare con il produttore, che si scopre essere uno psicologo con un oscuro passato in polizia. Il produttore gli spiega che lui stesso, come Milos e tutto il popolo serbo sono «vittime», e la «vittima», dice, è ciò che vende di più. L’uomo quindi mostra al protagonista un filmato ributtante e demoniaco al punto che nemmeno la descriviamo qui. L’attore decide di troncare, ma si sveglia in un letto coperto di sangue: è stato drogato, e ora non trova più la famiglia, e dove erano gli uffici del produttore trova solo cassette in cui egli, sotto l’effetto di una qualche sostanza, stupra, uccide, viene stuprato.   Seguono ancora torture, minacce di castrazioni e scene ancora più intollerabili, con un finale che svela una realtà di orrore davvero abissale. La famiglia…   In fondo alla storia, una scena fa capire che anche quell’abominio è motore per la filiera dei carnefici.   Il mio amico, che diceva non aver retto alla visione di tutto il film, mi raccontava che la pellicola aveva attivato in tanti serbi la realizzazione di essere stati manipolati negli anni della guerra e dell’orrore, un continuum dove forze più grandi, e più oscure, ti spingevano verso questo meccanismo perverso ed incomprensibile… sei vittima… sei carnefice… cosa sei? La pazzia, a questo punto, è una reazione appropriata, ed è forse quello che vogliono: il pazzo è manipolabile, non in grado di unirsi ad altri e opporre resistenza.   Allo stesso tempo, è impossibile non interrogarsi su ciò che il sistema chiama «vittima»: è vittima («scappa dalla guerra») l’immigrato, che a spese nostre spaccia e stupra nella nostra città; è vittima l’omotransessuale (perché indotto ad odiarsi dalla «società omofoba»), che pretende oggi di comprare i bambini e poi farli castrare e riempire di ormoni sintetici; è vittima l’ebreo israeliano (perché «l’Olocausto», «il 7 ottobre, etc.»), che poi compie il massacro robotico automatizzato di decine migliaia di palestinesi, e non sembra nemmeno volersi fermare lì.   Conosciamo la cifra metafisica di questo processo: è la sostituzione dell’Agnello con il caprone infernale. Di Cristo con Bafometto. Il carnefice diviene, per il racconto sistemica, la vittima: ecco spiegato il fascino assoluto per gli accusati di episodi di cronaca nera, che divengono ben più importanti dell’ammazzato, sino a trovare uno zoccolo di opinione pubblica che li ritiene innocenti. Agnelli, appunto.   Abbiamo raccontato qui la trama di un film horror estremo. Il lettore di Renovatio 21 sa, tuttavia, che scene ancora più estreme si sono avute nella realtà – per esempio con il traffico degli organi in Kosovo.   Rammentiamo l’Esercito di liberazione del Kosovo, il gruppo militante kosovaro albanese sostenuto dagli USA clintoniani chiamato UCK (memorabili le immagini alla TV italiana con i miliziani mascherati in stile ETA e le bandiere albanese e statunitense). I membri dell’UCK alcuni dei quali arrivati sono giunti alle più alte cariche del nuovo Stato kosovaro, hanno subito accuse di prelievo illegale di organi, come nel caso del presidente kosovaro Hashim Thaci.   Durante il periodo in cui era a capo dell’Esercito di liberazione del Kosovo, il Washington Times ha riferito che l’UCK finanziava le sue attività con il traffico di droghe illegali di eroina e cocaina nell’Europa occidentale. Secondo Carla Del Ponte, procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dal 1999 al 2007, civili serbi – tra cui donne e bambini – furono rapiti dall’UÇK e successivamente trasferiti a Burrel, in Albania, dove vennero trattenuti in attesa dell’espianto dei loro organi, destinati a cliniche turche specializzate in trapianti; alcuni subirono più prelievi prima di essere uccisi e fatti sparire.   Le accuse contro Thaci risalgono a decenni fa, e furono formulate da sedi istituzionali come il Consiglio d’Europa di Strasburgo. Un rapporto al Consiglio d’Europa, scritto da relatore presso il Consiglio d’Europa Dick Marty ed emesso il 15 dicembre 2010 afferma che Thaci era il leader del «Gruppo Drenica» incaricato del traffico di organi prelevati dai prigionieri serbi. Come noto ai lettori di Renovatio 21, i trapianti di organo – cioè, la predazione degli organi – possono avvenire solo a cuor battente, e con il ricevente non troppo lontano. Diverse agenzie di stampa internazionali riportarono quindi che in un’intervista per la televisione albanese il 24 dicembre 2010, Thaçi aveva dichiarato che avrebbe pubblicato informazioni sui nomi di Marty e dei collaboratori di Marty. Nel 2011, Marty ha chiarito che il suo rapporto coinvolgeva gli stretti collaboratori di Thaci ma non lo stesso Thaci.   Il 24 aprile 2020, le Camere specializzate per il Kosovo e l’Ufficio del procuratore specializzato con sede all’Aia hanno presentato un atto d’accusa in dieci capi per l’esame della Corte, accusando Thaci e altri di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, sparizione forzata di persone, persecuzioni e torture.   Non si contano le foto dei nostri politici con Thaci, divenuto presidente del neo-Stato kosovaro, scattate con i nostri primi ministri, presidenti, politici – molti dei quali, ancora oggi attivi a sinistra, ebbero un ruolo nella guerra a seguito della quale il Kosovo albanese fu creato, con i caccia statunitensi che partivano dall’Italia…

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Pensate sia finita? Macché: ci è stato servito, in questi anni, un bel sequel. Una bella guerra proxy sostenuta dalla NATO sempre contro i russi, ma stavolta ancora più direttamente: non più i cugini serbi, ma i fratelli ucraini.   Eccoti riservita la sbobba della vittima: Kiev, poverella fra le Nazioni, deve essere sostenuta con miliardi e armi, perché vittima dell’invasione dell’orco russo. Ecco che spuntano fuori stragi compiute dai russi malvagi, come Bucha, di cui per qualche ragione non si parla più: ma lo status di vittima dell’Ucraina, Paese aggredito, rimane inscalfibile, lo dice pure Giorgia Meloni.   Pazienza se la vittima ha, come dire, forti simpatie naziste, si chiude un occhio anche qui. Pazienza pure se – è capitato – emerge pure qualche collegamento con il fondamentalismo islamico. Pazienza se la vittima è accusata di abominevoli torture e di aver compiuto crimini di guerra, di essere un pericolo per gli stessi Paesi che la sostengono. La storiella atlantica va avanti spedita, e comincia a fregarsene platealmente delle vostre dissonanze cognitive.   Quale pensate che sia, anche qui, uno degli effetti collaterali dello schemino geostrategico occidentale? Indovinato: anche qui si è parlato, e plurime volte in questi anni, di traffico degli organi in zona di guerra, con coinvolti, secondo le accuse russe, personaggi israelo-ucraini che avevano già calcato la scena in Kosovo.   Il film dell’orrore lo abbiamo già visto. Sappiamo come va a finire.   È il caso di uscire dal cinema NATO. Al più presto.   Roberto Dal Bosco

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Le profezie di Yuri Bezmenov

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Yuri Aleksandrovich Bezmenov (1939–1993), noto anche come Tomas David Schuman, è stato un giornalista sovietico e agente del KGB specializzato in propaganda e sovversione ideologica.

 

La sovversione ideologica consiste nel distorcere la percezione della realtà di una società fino a portarla all’autodistruzione: era questo il messaggio che negli anni Ottanta cominciò a portare al pubblico americano, tramite circuiti conservatori il Bezmenov, disertore del KGB.

 

In molti notano che le cui rivelazioni sulla sovversione ideologica restano ancora attuali. I suoi moniti, basati sull’esperienza diretta delle «misure attive» sovietiche, delineano schemi per demolire le società libere non con bombe, invasioni o epidemie, ma con il veleno delle idee manipolate e del degrado culturale.

 

Il Substack di Doug Ross Director Blue ha sintetizzato venti punti del pensiero bezmenoviano.

 

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1) La sovversione ideologica è un processo a lungo termine, che richiede dai 15 ai 60 anni, volto a modificare la percezione della realtà in una nazione bersaglio senza ricorrere alla forza militare.

 

2) Solo circa il 15% delle attività del KGB era dedicato allo spionaggio tradizionale; la maggior parte si concentrava sulla guerra psicologica e sulla manipolazione ideologica.

 

3) L’obiettivo è demoralizzare una società, minando le sue basi morali, educative e culturali, rendendo le persone incapaci di riconoscere le minacce o di difendersi.

 

4) La demoralizzazione richiede 15-20 anni, il tempo necessario per educare una generazione con idee sovversive.

 

5) I sistemi educativi a tutti i livelli sono obiettivi primari, trasformando le scuole in centri di indottrinamento che promuovono il relativismo sui fatti e sul pensiero critico.

 

6) L’infiltrazione dei media genera confusione amplificando narrazioni divisive e screditando la verità oggettiva.

 

7) La religione viene attaccata presentandola come obsoleta o oppressiva, erodendo le ancore spirituali e sostituendole con la lealtà allo Stato o il nichilismo.

 

8) Le strutture familiari vengono indebolite promuovendo l’individualismo, il divorzio e stili di vita alternativi che frammentano la coesione sociale.

 

9) Il relativismo morale confonde il bene e il male, portando all’apatia e all’incapacità di unirsi contro i veri nemici di una società.

 

10) La storia viene riscritta per diffamare eroi e tradizioni nazionali, alimentando dubbi e sensi di colpa nella popolazione.

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11) Dopo la demoralizzazione, la destabilizzazione dura dai 2 ai 5 anni e colpisce economia, relazioni estere e difesa per creare caos interno.

 

12) Il sabotaggio economico amplifica le divisioni di classe, riduce la classe media e alimenta il risentimento attraverso inflazione, scarsità o disuguaglianza.

 

13) La politica estera viene manipolata per isolare la nazione, mettendo a dura prova le alleanze e rafforzando gli avversari.

 

14) La prontezza della difesa viene compromessa da tagli al bilancio, divisioni interne o propaganda antimilitare.

 

15) La fase di crisi sfocia in violenza o sconvolgimenti, in cui una società demoralizzata e destabilizzata richiede soluzioni radicali.

 

16) Durante la crisi, le persone rinunciano volontariamente alla libertà in cambio della sicurezza promessa, aprendo la strada al controllo autoritario.

 

17) La normalizzazione è la fase finale, in cui i cambiamenti sovversivi diventano la «nuova normalità», istituzionalizzati e irreversibili.

 

18) L’opposizione viene messa a tacere attraverso censura, emarginazione o eliminazione nella fase di normalizzazione.

 

19) Il processo si basa su «utili idioti»: intellettuali, élite, attivisti e leader occidentali benintenzionati che, inconsapevolmente, promuovono il suicidio sociale.

 

20) Una volta che la sovversione ha successo, nemmeno la rivelazione della verità potrà invertirla, poiché la popolazione rifiuta i fatti che contraddicono la propria visione del mondo riprogrammata.

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Nelle sue lezioni e conferenze, i cui video sono ancora circolanti in rete, Bezmenov spiega che una volta che si ottiene l’implosione di un Paese sono solo due prospettive che rimangono possibili: l’invasione da parte di uno Stato limitrofo (che teme il contagio del caos) oppure l’inserimento di un «salvatore della patria», un uomo forte innalzato dalle masse per riportare l’ordine. In quest’ultimo caso, racconta l’ex spia sovietica, chi ha preparato la demoralizzazione e la stabilizzazione ha certamente pronta la figura da inserire per poi volgere la politica del Paese secondo gli interessi della potenza straniera.

 

L’ex agente del KGB, che fuggì quando era in servizio nell’ambasciata di Nuova Dehli negli anni Settanta travestendosi da hippy occidentale (Indira Gandhi aveva proibito l’asilo politico dei diplomatici presso altre ambasciate, una misura pensata solo per tutelare l’alleato sovietico), si era poi spostato in Canada (dove lavorò alla radio, facendosi così localizzare dal KGB che aveva identificato la sua voce) e negli Stati Uniti, sposando quindi un’infermiera di origini filippine. Egli, laureato in orientalistica, aveva assistito con i suoi occhi alle manovre occulte dell’URSS nel fomentare la secessione del Pakistan orientale, ora conosciuto come Bangladesh, come da desiderio dell’India alleata di Mosca.

 

Le intuizioni di Bezmenov trovano oggi riscontro per ovvie ragioni: dalle nostre istituzioni educative frammentate, alle scienze corrotte, fino alla mancanza di fiducia negli «esperti».

 

Secondo il libro di Roberto Dal Bosco Cristo o l’India il Bezemenov raccontò l’interesse che il servizio segreto russo aveva per Maharishi Mahesh Yogi (1918-2008), il notorio guru dei Beatles e di tante altre celebrità. Il KGB mandò Bezmenov ad incontrarlo quando vide che le frotte di giovani statunitensi che transitavano per il suo ashram.

 

«Tornavano a case pieni di marijuana, hashish ed idee pazzoidi sulla meditazione… meditare, è in altre parole isolarsi dai problemi sociali e politici correnti del tuo paese, chiudersi nella propria bolla, dimèntichi dei guai del mondo» dichiarava l’ex spia sovietica in una conversazione del 1984. «Ovviamente il KGB era affascinato da questo centro di lavaggio del cervello per stupidi americani (…) gli indiani stessi li guardano come idioti (…) la moglie di un deputato, o una prominente celebrità di Hollywood, dopo essere passate da quella scuola sono molto più strumentalizzabili dai manipolatori dell’opinione pubblica e dal KGB rispetto ad una persona normale (…) una persona troppo dedicata alla meditazione introspettiva (…) è esattamente ciò che il KGB e la propaganda marxista-leninista vogliono dagli americani, distrarre la loro attenzione, la loro opinione, le loro energie mentali dai veri problemi degli Stati Uniti in un non-problema, in un non-mondo, in un’armonia inesistente».

 

«È di beneficio per l’aggressore sovietico avere un branco di americani drogati invece che americani che sono consapevoli, in salute, fisicamente in forma, e svegli rispetto alla realtà. Maharishi Mahesh Yogi può non essere a libro paga del KGB ma contribuisce grandemente alla demoralizzazione della società americana, e non è il solo. Ci sono centinaia di quei guru che vengono nella vostra nazione per capitalizzare sull’ingenuità e la stupidità degli americani».

 

Il lettore si può chiedere se oggigiorno, anche per l’Italia, è cambiato qualcosa.

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Harvey contro Philby, storie di spie e lotte intestine agli albori della CIA

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L’FBI non riuscì ad aggiudicarsi il controllo dell’Intelligence americana nel dopoguerra ma non per questo John Edgar Hoover (1895-1972) si ritirò dalla competizione. Lo sforzo profuso da William Harvey (1915-1976) nell’estrarre delle prove soddisfacenti dalla spia sovietica Elizabeth Bentley (1908-1963) non diede i suoi frutti ma i successivi approfondimenti degli interrogatori misero in luce la reale penetrazione sovietica negli apparati statunitensi.    Harvey lasciò l’FBI e poco dopo entrò nella CIA, secondo la versione formale ebbe a ridire con Hoover in seguito al fiasco del caso Bentley. La versione di Joseph J. Trento nel suo The Secret History of the CIA invece racconta come Harvey divenne la talpa di Hoover all’interno della CIA. Sia Hoover che Harvey erano convinti che i vecchi membri dell’OSS passati alla CIA avevano un passato che li rendeva vulnerabili all’essere reclutati come spie sovietiche.    Kim Philby (1912-1988), britannico, uno dei più famosi agenti doppiogiochisti nella storia dello spionaggio, nella sua autobiografia descriveva le differenze tra gli uomini dell’FBI e della CIA: «gli uomini dell’FBI sono orgogliosi della loro ignoranza, di essere cresciuti nell’ordinarietà, bevono whiskey dissetandosi con la birra. Al contrario, gli uomini della CIA hanno un atteggiamento cosmopolita. Discutono sull’assenzio e servono un Borgogna appena sopra la temperatura ambiente. Non è solo una questione di frivolezza è una fondamentale spaccatura sociale tra le due organizzazioni».

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Harvey possedeva una tenacia che nessun altro aveva. Il vantaggio sui suoi colleghi era che lui stava combattendo contro un nemico al contrario degli altri. Per Harvey i servizi segreti sovietici dell’NKVD e in seguito il KGB i servizi segreti sovietici, erano criminali. Lui era un poliziotto e la sua visione del controspionaggio rimaneva quella del poliziotto.    Bill Harvey era l’uomo giusto al momento giusto, proprio in quel momento la United States Army Security Agency, il precursore della NSA, National Security Agency, stava cominciando a decriptare un codice sovietico chiamato VENONA. Molti dei messaggi stavano confermando le dichiarazioni rilasciate dalla Bentley proprio ad Harvey. Il quadro che ne stava uscendo era che i Sovietici avevano spiato America e Inghilterra durante tutto il periodo bellico.    Harvey era stato commissionato a seguire il nuovo ufficio dell’OSO, Office of Special Operation, chiamato «Staff C» e dedito al controspionaggio. Il suo nuovo ufficio si trovava non lontano dal Lincoln Memorial e il suo nuovo collega era l’ex agente dell’OSS, reclutato dall’ufficio di Roma, James Jesus Angleton (1917-1987). Nonostante le differenze tra classi sociali e interessi i due legarono immediatamente.    Harvey era estremamente colpito dal lavoro di controspionaggio portato avanti da Angleton negli anni da agente dell’OSS ma la cosa che più affascinava e disturbava l’ex FBI era la sua strettissima relazione con la superspia Kim Philby. I loro incontri erano talmente abituali che si sentivano praticamente ogni giorno e i pranzi assieme avvenivano più volte a settimana. Philby a sua volta aveva stretti contatti anche con Allen Dulles e con il suo braccio destro, Frank Wisner, responsabile dei Clandestine Services   Nel 1949 quando il codice VENONA venne decriptato per la prima volta, Philby venne mandato dall’MI6 nella capitale americana per lavorare con la CIA sull’individuazione dei doppiogiochisti. In particolare il britannico avrebbe dovuto lavorare su HOMER, identificato come colpevole di aver sottratto informazioni dal progetto Manhattan a favore dei sovietici. Sia gli americani che gli inglesi erano convinti che fosse impiegato nell’ambasciata britannica a Washington.    Harvey iniziò a sviluppare crescenti sospetti su Philby e sul suo compagno di università a Cambridge, Donald Maclean (1913-1983), di cui era fermamente convinto fosse HOMER. Cercò il supporto di Angleton e di chiunque altro avesse volontà ad ascoltare nella CIA ma senza incontrare alcun appoggio. Improvvisamente Maclean venne promosso all’ambasciata inglese del Cairo e sostituito con Guy Burgess (1911-1963), anche lui compagno d’università di Philby a Cambridge.    I sospetti di Harvey crebbero sempre più, rendendosi conto che Philby aveva accesso al progetto VENONA e che contemporaneamente diverse operazioni clandestine non avevano portato i frutti sperati come in Albania, Lettonia, Lituania ed Estonia.   Philby nel frattempo aveva sposato una ragazza ebrea austriaca, comunista dichiarata, al suo matrimonio era presente anche Teddy Koellek futuro sindaco di Gerusalemme, che ammonì Angleton di rimuovere immediatamente Philby dalla sede della CIA. Ma Angleton, anche per non portare alla luce i suoi contatti con il Mossad, mantenne il riserbo sul loro scambio.    Una sera durante una cena a casa di Philby, complice l’elevato tasso alcolico di Burgess, i rapporti con Harvey si ruppero definitivamente. Successivamente alla cena, precisamente dal venticinque maggio 1951, Guy Burgess e Donald Maclean scomparvero. Era l’inizio della loro personale odissea verso l’Unione Sovietica e non sarebbero riapparsi in superficie per almeno altri cinque anni.    Il generale Smith, direttore della CIA in quel momento, pretese un documento scritto da chiunque avesse avuto rapporti personali con le talpe sovietiche. Bill Harvey dopo aver letto il resoconto di Angleton ci scrisse sopra: «qual’è il resto della storia?». I due ruppero i loro rapporto da quel momento in avanti, Harvey non riuscì a capire la posizione di Angleton, chiedendosi quale potesse essere il movente che avesse spinto il suo collega.

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La conclusione della storia scosse alle fondamenta le basi dell’intero sistema dell’intelligence inglese e americano. Il generale Smith ottenne che Philby venisse rimosso da Washington e contemporaneamente il controspionaggio inglese aprì un indagine su di lui.    Per Harvey però non si poteva parlare di vittoria, come con il caso Bentley non c’erano abbastanza prove per un accusa definitiva. Sarebbe dovuto diventare un eroe a Langley ma invece venne sempre trattato con sospetto per aver accusato un membro del club. Il futuro della CIA non sarebbe stato lui ma Allen Dulles e Richard Helms che impersonificavano appieno lo spirito dell’agenzia.   «La gerarchia della CIA rimaneva immutata nel suo sistema inglese», disse William Corson, autore e colonnello della CIA in pensione, «amicizia, OSS e la rete dei vecchi commilitoni. Questo era esattamente il modo in cui Dulles misurava le persone». Philby rimaneva un membro del club, mentre Harvey non lo sarebbe mai potuto diventare. Nessuno lo voleva più nella sede centrale e proprio per questo Harvey accettò il trasferimento a Berlino, dove il generale Smith gli accordò il controllo totale dell’ufficio.    La BBC pubblicò nel 2016 un video in cui Philby raccontava nel 1981 la sua esperienza a membri della Stasi. La spia descriveva la sua carriera come doppiogiochista di successo debitrice verso alcune variabili che gli vennero in aiuto.   La mitologica efficienza dell’MI6 era, durante la guerra, semplice propaganda, infatti potè ogni notte tornare a casa con i documenti segreti, fotografarli e consegnarli a corrieri sovietici senza mai incorrere in alcun ostacolo, sino a divenire a capo del dipartimento di controspionaggio con il compito di scovare spie sovietiche, libero dal rischio di accuse grazie all’appartenenza all’alta classe sociale inglese. Nessuno si sarebbe mai permesso di accusarlo con il rischio di venire distrutto da un terribile scandalo.   Marco Dolcetta Capuzzo

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; modificata
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