Gender
I gay organizzati sono contro la celebrazione del latin lover dei record
Si è diffusa nelle ultime ore la notizia per cui ci sarebbe l’intenzione a Rimini di intitolare una via, o persino erigere un monumento, a Maurizio Zanfanti detto Zanza, l’uomo celebrato come il più poderoso seduttore di turiste straniere della Riviera Romagnola e non solo.
Secondo cifre non confermate, ma ampiamente circolate anche presso la grande stampa tedesca e scandinava, l’uomo avrebbe conquistato qualcosa come 6000 signore di passaggio a Rimini.
In molti di coloro che lavorano con il turismo riconoscevano allo Zanza, e ai suoi epigoni conquistadores di bionde oltremontane, perfino un ruolo fondamentale nell’economia della zona.
Lo Zanza morì nel 2018, e forse è possibile dire che fu una «morte bianca»: perì sul «lavoro», mentre, a 63 anni, si era appartato con una romena di 23.
Lo sconforto per il decesso toccò diverse Nazioni nordiche, dove l’uomo era probabilmente più famoso che da noi.
Ora la volontà di ricordarlo – anche per rammentare di un’era, quella delle discoteche riminesi e riccionesi, oramai passata per sempre – dà la stura a reazioni che fanno capire quanto l’aria sia cambiata.
Una famosa associazione gay, scrive il Corriere della Sera, ha dichiarato che lo Zanza «è un mito da cui Rimini deve staccarsi».
Non è dato di capire il perché di quel «deve», ma siamo nell’epoca di obblighi, anche peggiori di questo, calati dall’alto dei padroni del sistema.
Quindi, ci domandiamo, quei gay che rifiutano il monumento a Zanza, lo fanno perché sarebbe un volgare monumento che potrebbe trasmettere una sorta di «primazia» dell’eterosessualità?
C’è a Rimini una via dedicata a Pier Vittorio Tondelli, scrittore reggiano morto di AIDS nel 1991, autore di un romanzo che si chiama, appunto, Rimini. C’è qualche gruppo locale eterosessuale che ha manifestato contrarietà all’epoca? Non sappiamo. Non crediamo che abbia protestato nemmeno lo Zanza, che probabilmente quando hanno messo un letterato gay nella toponomastica non si è sognato di dire nulla (anzi, non si è neanche accorto: aveva altro da fare).
Oppure gli omosessuali non vogliono perché sarebbe un monumento alla promiscuità?
Ci sarebbe da capire, rispetto alla promiscuità, come sia davvero la situazione nella scena omosessuale estiva locale, di cui non abbiamo dati, né abbiamo eroi le cui gesta si tramandano nei decenni: possibile che non ci siano uno, massimo due Zanza LGBT che circolano trionfanti nelle notti romagnole?
Oppure si tratta forse di un’opposizione dovuta al rispetto della donna, argomento in cima dei pensieri degli LGBT, in ispecie quando i maschi transessuali competono negli sport nelle categorie femminili?
Dovrebbe risultare che tutte le 6.000 fossero consenzienti, anche se certificato di consenso informato con probabilità, anche perché servirebbe l’archivio di una biblioteca per contenerli tutti. Aggiungiamo come alcune, contattate a distanza di decadi dai giornali al momento della morte dello Zanfanti, apprendendo la notizia hanno pure pianto.
E quindi, quali argomenti hanno davvero i gay organizzati per opporsi alle celebrazioni per il grande seduttore discotecaro della costiera?
Non sappiamo, ma ricordiamo che anche all’estero le cose non vanno bene: a Palm Springs, negli USA, nel 2021 sorse una petizione per rimuovere una statua di Marylin Monroe, definita sessista.
Palm Springs tiene la estatua de Marylin mas grande del mundo pic.twitter.com/YrM5VeBNEH
— Mr.Freaki ???? (@MisterFreaki) February 25, 2022
Qualcuno può pensare che con la cancel culture, stia avanzando in realtà un nuovo puritanesimo – che come quello precedente informa le élite che comandano gli Stati Uniti – che sorge tra teorie gender istituzionalizzate, dark room, ormoni transessualizzanti dati ai bambini, «chemsex» e attività indicibili in luoghi sempre più pubblici, lontano anni luce dalle solari camporelle dello Zanza.
Tra quanto qualcuno salterà fuori a chiedere la cancellazione del Don Giovanni di Mozart?
Quando chiederanno la damnatio memoriae per Casanova, con rogo pubblico delle sue Memorie scritte da lui medesimo?
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
Gender
La donna più forte del mondo in realtà era un uomo
Jammie Booker, vincitrice del torneo «La donna più forte del mondo» 2025, è stata privata del titolo dopo che gli organizzatori hanno accertato che l’atleta di Philadelphia era nata maschio. La squalifica, l’ultima di una serie crescente di polemiche sui maschi biologici che gareggiano nelle categorie femminili, è arrivata a pochi giorni dalla competizione.
Il caso è esploso durante i Cerberus Strength Official Strongman Games in Texas lo scorso fine settimana, dove Booker ha dominato la categoria Women’s Open. Gli organizzatori hanno precisato di non essere stati informati in anticipo del background biologico dell’atleta e, a seguito di un’indagine urgente, l’hanno esclusa dalla classifica. «Abbiamo la responsabilità di garantire equità, assegnando gli atleti alle divisioni maschile o femminile in base al sesso alla nascita», si legge in un comunicato diffuso sui social da Official Strongman, che ha aggiornato i punteggi e incoronato la britannica Andrea Thompson come nuova campionessa.
La partecipazione di atlete transgender a competizioni sportive continua a generare dibattiti accesi. A luglio, il Comitato Olimpico e Paralimpico degli Stati Uniti (USOPC) ha vietato alle donne transgender di gareggiare nelle categorie femminili alle Olimpiadi, in linea con un ordine esecutivo del presidente Donald Trump che esclude le trans dalle squadre femminili e minaccia di tagliare i fondi alle istituzioni che lo violano.
Casi emblematici come quello della nuotatrice statunitense Lia Thomas e della sollevatrice neozelandese Laurel Hubbard hanno riacceso il confronto su eventuali vantaggi fisici persistenti per le atlete transgender rispetto alle donne biologiche, nonostante il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) abbia affermato nel 2021 che non si debba presumere un «vantaggio automatico» e abbia demandato le regole di idoneità alle singole federazioni sportive.
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La questione è tornata d’attualità alle Olimpiadi di Parigi 2024, quando la pugile algerina Imane Khelif – squalificata l’anno prima ai Mondiali per presunti motivi di genere – ha conquistato l’oro, spingendo l’ex presidente del CIO Thomas Bach a negare l’esistenza di un «sistema scientificamente solido» per distinguere uomini e donne nello sport.
Ora il CIO è orientato a escludere le donne transgender dalle categorie femminili alle prossime Olimpiadi, sulla base di una nuova politica di ammissibilità prevista per il 2026, come riportato dal Times all’inizio di novembre citando fonti interne. La revisione si fonda su una valutazione scientifica che conferma come i vantaggi acquisiti durante la pubertà maschile possano perdurare anche dopo trattamenti farmacologici per ridurre i livelli di testosterone.
Come riportato da Renovatio 21, l’ex presidente del CIO Thomas Bach sosteneva all’epoca che non esisteva «un sistema scientificamente solido» per distinguere tra uomini e donne nello sport.
Come riportato da Renovatio 21, il sollevamento pesi, come ogni altra disciplina (il nuoto, la maratona, il ciclismo, la BMX, l’hockey, il sollevamento pesi, il basket, il ju jitsu, etc.), era già stato colpito dal transessualismo sportivo. Lo è stato persino il biliardo in un’episodio noto, Alexandra Cunha, 49 anni, capitano della squadra nazionale femminile portoghese, si è ritirata dal torneo International Rules Pool Tour, incolpando i recenti cambiamenti alle regole da parte dell’autorità governativa dello sport, la World Eightball Pool Federation.
Come riportato da Renovatio 21, alle Olimpiadi di Tokyo vi fu il caso del sollevatore di pesi supermassimi transessuale Laurel Hubbard, 43 anni, che rappresentò la Nuova Zelanda a Giochi e riuscì, incredibilmente, a non vincere.
Due anni fa il pesista transessuale «Anne» Andres aveva stabilito il record nazionale durante un campionato durante il Campionato del Canada Occidentale 2023.
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Immagine screenshot da YouTube
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La Corte UE ordina alla Polonia di riconoscere il matrimonio gay
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Studio della Sanità USA conferma i pericoli dei farmaci transgender e degli interventi chirurgici sui minori
Il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS) ha reso pubblico mercoledì un atteso rapporto sottoposto a revisione paritaria, che mette in guardia contro i rischi dell’«assistenza di affermazione di genere» per i minori, scatenando l’ira delle associazioni pro-LGBTQ+.
Lo studio, intitolato «Trattamento della disforia di genere pediatrica: revisione delle prove e delle migliori pratiche», si basa su un’analisi preliminare diffusa a maggio sui giovani con confusione di genere. Conferma che bloccanti della pubertà, ormoni di sesso opposto e interventi chirurgici provocano «danni significativi e a lungo termine, spesso trascurati o monitorati in modo inadeguato». Tra i rischi elencati: infertilità, disfunzioni sessuali, ridotta densità ossea, effetti cognitivi negativi, problemi cardiovascolari e metabolici, disturbi psichiatrici, complicanze operatorie e rimpianti post-trattamento.
Il segretario HHS Robert F. Kennedy Jr. ha appoggiato le conclusioni, accusando l’establishment medico di «negligenza». «L’American Medical Association e l’American Academy of Pediatrics hanno diffuso la menzogna che procedure chimiche e chirurgiche di rifiuto del sesso potessero giovare ai bambini», ha dichiarato in una nota. «Hanno tradito il giuramento di non nuocere, infliggendo danni fisici e psicologici duraturi a giovani vulnerabili. Questa non è medicina, è negligenza».
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Il rapporto giunge dopo l’ordine esecutivo firmato a gennaio dal presidente Donald Trump, che limita gli interventi di «cambio di sesso» per under 19, definendoli «mutilazioni chimiche e chirurgiche» mascherate da cure mediche necessarie.
Sempre più ospedali e medici stanno riducendo questi trattamenti: tra gli esempi, l’Università del Michigan, Yale Medicine, Kaiser Permanente, il Children’s Hospital di Los Angeles, UChicago Medicine e il Children’s National Hospital di Washington stanno eliminando o limitando bloccanti della pubertà e farmaci analoghi per i minori.
Negli USA circa 2,8 milioni di persone dai 13 anni in su si identificano come transgender, con la Gen Z che raggiunge il 7,6% tra chi si dichiara LGBTQ+.
Oltre al rapporto HHS, un’ampia letteratura scientifica indica che «affermare» la disforia di genere espone a pericoli gravi: oltre l’80% dei bambini la supera spontaneamente entro la tarda adolescenza, e anche una «riassegnazione» completa non riduce i tassi elevati di autolesionismo e suicidio tra chi soffre di confusione di genere.
Inchieste come quella del 2022 sulla Vanderbilt University Medical Center hanno documentato medici che promuovevano questi interventi pur consapevoli dei rischi, ammettendo in email e video che «fanno un sacco di soldi».
L’HHS ha precisato di aver invitato l’American Academy of Pediatrics e l’Endocrine Society a contribuire al rapporto, ma entrambe hanno declinato.
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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic
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