Epidemie
HIV, ciò che nessuno vuol dirvi: intervista al Dr. Paolo Gulisano

Il 1º dicembre scorso si è celebrata la giornata mondiale contro l’AIDS, indetta ogni anno per sensibilizzare la popolazione alla gravità della trasmissione del virus HIV.
Tanti sono stati gli avvenimenti che, non in modo causale, hanno accompagnato questo evento. È di pochi giorni prima la notizia dello scienziato genetista cinese che ha annunciato, attraverso il suo canale YouTube, la nascita di due sorelle gemelle geneticamente modificate con una tecnica di «taglia e cuci” genetico (il CRISPR-CAS9) attraverso il quale Jiankui He ha «silenziato» il gene che controlla il recettore chiamato CCR5. Il CCR5 si trova sulla superficie delle cellule immunitarie, i linfociti T, porta di ingresso per la quale entra il virus HIV.
A questo esperimento diabolico, fatto a danno di numerosi embrioni per creare i vaccini umanizzati – o potremmo dire uomini geneticamente e artificialmente vaccinati – si è aggiunto l’annuncio di nuovi finanziamenti mondiali per avanzare la ricerca al fine di inventare i vaccini contro il virus HIV, da iniettare già in età pediatrica. Basti pensare che in Italia i fondi sono stati stanziati all’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma: l’ospedale della Santa Sede.
Un esperimento diabolico, fatto a danno di numerosi embrioni per creare i vaccini umanizzati – o potremmo dire uomini geneticamente e artificialmente vaccinati
Mutazioni genetiche, vaccini: queste le grandi prospettiva della scienza ufficiale per contrastare l’AIDS. L’altra grande sfida lanciata, di anno in anno, dalla «medicina della prevenzione», è quella del sesso protetto. Tante, dicono, sarebbero le trasmissioni del virus attraverso l’atto sessuale cosiddetto «non protetto».
Se il sesso protetto dovrebbe essere la soluzione, dicono, nessuno parla però di un fenomeno largamente diffuso: il bugchasing, un fenomeno che riguarda persone che cercano consapevolmente e volontariamente di contrarre il virus dell’HIV. Il metodo viene utilizzato principalmente dalla comunità gay, è nato negli Stati Uniti e oramai è diffuso in tutto il mondo, compresa, largamente, l’Italia.
Il bugchasing, un fenomeno che riguarda persone che cercano consapevolmente e volontariamente di contrarre il virus dell’HIV
Il bugchasing è composto da due parti complementari: da una parte c’è il bug-chaser, cioè colui che «cerca il parassita», cioè che vuole materialmente contrarre il virus; dall’altra abbiamo il cosiddetto «donatore», il gift-giver, cioè colui che, già consapevole della sieropositività, è disposto ad aver rapporti sessuali non protetti per trasmettere attivamente il virus.
È un fenomeno su cui non esistono dati certi, precisi, giacché chi lo pratica non è solitamente disposto a renderlo pubblico seppur esistano siti in cui si creano gli appuntamenti per lo «scambio».
Vi sono poi gli untori, ovvero quelle persone affette da AIDS che non comunicano la loro sieropositività al proprio partner, continuando ad avere rapporti sessuali non protetti. Un caso eclatante, a questo proposito, è quello di Claudio Pinti, arrestato quest’anno per l’accusa di lesioni aggravate alla ex compagna morta per complicanze causate dall’AIDS. Pinti, sieropositivo consapevole, ha avuto rapporti sessuali non protetti con 228 persone diverse, fra cui molti uomini e transessuali.
Il cosiddetto «donatore», il gift-giver, è colui che, già consapevole della sieropositività, è disposto ad aver rapporti sessuali non protetti per trasmettere attivamente il virus
Tutto tace anche sulla promiscuità sessuale connessa al fenomeno immigratorio, in aumento particolarmente in Itala. L’Africa – e a dirlo è il Ministero della Salute e ogni ente internazionale – è il continente più sieropositivo del mondo.
Di tutte queste cose di cui nessuno vuole raccontarvi, ne abbiamo parlato con il Dott. Paolo Gulisano, medico infettivologo ed epidemiologo.
Dr. Gulisano, anche quest’anno si sono spese tante parole durante la Giornata Mondiale contro l’AIDS, celebrata il 1º dicembre. Oltre alle chiacchiere, quali sono i veri dati epidemiologici, quantomeno in Italia, rispetto a questa malattia?
«Conosci il tuo stato» era lo slogan scelto per la Giornata mondiale di lotta all’Aids 2018. Uno slogan molto generico, che potrebbe andare bene per qualunque campagna di prevenzione, dal diabete ai Pap test. In questo caso invece si trattava di un invito a sottoporsi al test HIV, un esame che permette di individuare un’eventuale infezione e nel caso di positività intraprendere un percorso di cura. Poi naturalmente in occasione di tale giornata non mancano mai le iniziative più folkloristiche, come le distribuzioni pubbliche di preservativi o di materiale informativo.
Comunque è interessante rilevare che quest’anno l’attenzione sia stata rivolta non tanto alla prevenzione primaria (evitare il contagio) ma a quella detta secondaria, cioè la diagnosi precoce della malattia. Una scelta interessante. Ma i dati epidemiologici cosa ci dicono, relativamente all’AIDS? Ci dicono che in Italia, nel 2016, sono state riportate 3451 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a 5,7 nuovi casi per 100 mila residenti. Il numero delle nuove diagnosi è risultato in calo rispetto all’anno precedente (nel 2015 erano 3549), per tutte le modalità di trasmissione (rapporti eterosessuali; uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini – MSM, Men who have sex with men; utilizzatori di droghe per via endovenosa – IDU, Injecting drug users).
Lo riferisce la Relazione Aids 2017 (inviata al Parlamento il 12 settembre 2018) che illustra le attività svolte dal Ministero nell’ambito dell’informazione, della prevenzione, dell’assistenza e dell’attuazione di progetti relativi all’HIV/Aids; le attività realizzate in collaborazione con il Comitato tecnico sanitario (Sezione per la lotta contro l’Aids e Sezione del volontariato per la lotta contro l’Aids) e l’attività svolta dall’Istituto superiore di sanità (ISS), in particolare le iniziative in tema di sorveglianza dell’infezione da Hiv e dell’Aids.
In aumento anche la quota degli stranieri con una nuova diagnosi di HIV
Cosa ci dicono questi dati? Quello che emerge è che l’incidenza maggiore di casi si riscontra nella fascia di età 25-29 anni e che nel 2016 la maggior parte delle nuove diagnosi di HIV è stata tra gli MSM tra i maschi eterosessuali (dal 2010 la proporzione di diagnosi in questi gruppi è in costante crescita).
In aumento anche la quota degli stranieri con una nuova diagnosi di HIV. Importante sottolineare che oltre la metà (56%) delle nuove diagnosi avviene in fase clinica avanzata, quando il livello di immunodepressione è già serio. Spesso, infatti, la mancanza di sintomi negli anni che precedono la manifestazione dell’Aids non induce a fare il test per l’HIV, anche se ci si è esposti a rapporti sessuali occasionali non protetti.
Solo un quarto delle persone con nuova diagnosi ha effettuato il test in seguito a un comportamento a rischio: la maggior parte scopre di essere positivo all’HIV perché ha già dei sintomi che suggeriscono l’insorgenza della malattia o per un controllo fatto per motivi non legati a questa infezione. Questa è dunque la ragione che ha spinto a puntare sulla diagnosi precoce degli infetti più che sulla prevenzione primaria.
Nell’attuale fase storica i vaccini godono di una popolarità e di un sostegno che non hanno mai conosciuto in precedenza. Si sta inducendo nella popolazione una mentalità fortemente Pro Vax, un consenso quasi acritico nei confronti delle pratiche vaccinali. Un tale contesto sembrerebbe quindi assolutamente favorevole all’introduzione sul mercato di vaccini anti-HIV
Per non saper né leggere né scrivere, la novità dell’anno sono i fondi disposti in tre diversi continenti per la ricerca di un vaccino che vorrebbe sconfiggere l’AIDS. Cosa ne pensa?
Nell’attuale fase storica i vaccini godono di una popolarità e di un sostegno che non hanno mai conosciuto in precedenza. Si sta inducendo nella popolazione una mentalità fortemente pro-Vax, un consenso quasi acritico nei confronti delle pratiche vaccinali. Un tale contesto sembrerebbe quindi assolutamente favorevole all’introduzione sul mercato di vaccini anti-HIV.
Questo spiega le ampie sovvenzioni concesse, magari anche a scapito di altri campi di ricerca. Tuttavia, oltre a quelle che possono essere tutte le perplessità rispetto a tali vaccini, alla loro reale efficacia, ai possibili effetti collaterali e reazioni avverse, temo che la richiesta del vaccino anti HIV – del quale peraltro si parla da più di 30 anni senza che si sia arrivati a produrlo – risponda ad una esigenza culturale preoccupante.
Se un individuo infatti fosse vaccinato – magari già da bambino – potrebbe ritenere di essere protetto, sicuro, e questo potrebbe spingere ad una vita sessuale sregolata, disordinata, mettendo a rischio la persona anche per altre malattie sessualmente trasmesse, di cui si parla meno, ma che sono in aumento e rappresentano un rischio per la salute. Un esempio per tutte le Epatiti di tipo A, per le quali le organizzazioni sanitarie hanno lanciato un allarme recentemente a seguito delle epidemie che si verificano ad esempio dopo ogni Gay Pride.
Solitamente, dietro a questi grandi finanziamenti, ci stanno sempre i soliti: Microsoft, Apple, e via discorrendo. Interesse per la salute o interessi personali?
Se un individuo infatti fosse vaccinato – magari già da bambino – potrebbe ritenere di essere protetto, sicuro, e questo potrebbe spingere ad una vita sessuale sregolata, disordinata, mettendo a rischio la persona anche per altre malattie sessualmente trasmesse, di cui si parla meno, ma che sono in aumento e rappresentano un rischio per la salute.
L’Organizzazione Mondiale della Salute per anni ha sostenuto che la lotta all’AIDS la si fa con l’ABC, ovvero le iniziali di Abstinence, Be Faithful, Condom. È chiaro che con i primi due metodi, l’astinenza e la fedeltà coniugale, non ci si guadagna niente, in termini economici, anche se molto in termini di salute, visto che hanno una sicurezza del 100%. Con i preservativi il business è già da tempo ben avviato, evidentemente ora tocca a qualcun altro fare profitto.
Non crede tuttavia che la ricerca di un vaccino per sconfiggere il virus HIV che causa l’AIDS cozzi con il fatto che, la promiscuità sessuale, sia una delle maggiori cause di infezione?
Come dicevo in precedenza, l’illusione di una protezione potrebbe spingere ad una promiscuità sessuale e a comportamenti a rischio ancora maggiore di quella attuale. Un vero boomerang. Promuovere una cultura dell’affettività responsabile è il metodo preventivo più sicuro ed efficace, ma non lo si vuole nemmeno prendere in considerazione.
Così si spinge per il vaccino, anche perché è sempre più evidente il fatto che i preservativi non vengono utilizzati, e non certo perché la Chiesa Cattolica li condanna (o dovremmo dire li condannava un tempo), ma perché fa parte di uno stile «disinvolto» di sessualità pericolosa. Nel 2017 la maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituiscono l’84,3% di tutte le segnalazioni (eterosessuali 45,8%; MSM, Men who have sex with men 38,5%).
Per le Epatiti di tipo A le organizzazioni sanitarie hanno lanciato un allarme recentemente a seguito delle epidemie che si verificano ad esempio dopo ogni Gay Pride
Soffermiamoci un momento su questo tema del sesso libero e cosiddetto «non protetto». L’Africa ha una percentuale altissima di persone sieropositive. L’immigrazione di massa, specie in Italia, non alza il rischio di infezione da HIV? Per quale motivo?
Diciamo subito che in base ai dati epidemiologici in nostro possesso, risulta che in Italia il 34,3% delle persone diagnosticate come Hiv positive è di nazionalità straniera. Considerato che gli stranieri rappresentano circa il 10% della popolazione italiana, questo dato vuole dire che la diffusione dell’HIV tra gli stranieri è oltre il triplo che negli italiani.
Un dato che fa pensare. Molti immigrati provengono da Paesi dove la diffusione dell’HIV, così come quella della TBC, è molto più alta che in Europa. Basta far parlare i dati. Il numero dei decessi correlati all’AIDS nel 2016 per grandi aree è il seguente: Africa Sud-Orientale: 420 mila; Africa Centro-Orientale: 310 mila; Nord Africa e Medio Oriente: 11 mila; America Latina: 36 mila, più il dato dei soli Caraibi che è di 9400. Europa dell’Est e Asia centrale: 40 mila; Europa Occidentale e Nord America: 18 mila; Asia e Pacifico: 170 mila. Ora, la lettura di questi numeri ci fornisce delle evidenze molto chiare.
Risulta che in Italia il 34,3% delle persone diagnosticate come HIV positive è di nazionalità straniera. Considerato che gli stranieri rappresentano circa il 10% della popolazione italiana, questo dato vuole dire che la diffusione dell’HIV tra gli stranieri è oltre il triplo che negli italiani
L’AIDS è una malattia ormai collegata ad un uso disordinato della sessualità. I casi di infezioni da trasfusioni o da uso di sostanze stupefacenti iniettive sono decisamente rari. È una malattia che nelle zone ricche del pianeta dove c’è accessibilità a farmaci costosi è affrontabile e dove la letalità è scesa molto nel corso degli anni. L’analisi geografica dei casi di morte ci dice che là dove ci sono i cosiddetti «paradisi sessuali» come nei Caraibi o in Oriente, il tasso di morbilità e mortalità è molto più alto.
C’è poi il dramma dell’Africa, che presenta numeri ancora impressionanti. È quindi chiaro quali siano i rischi di una immigrazione di massa, incontrollata anche dal punto di vista sanitario, e i rischi legati al fatto che un numero impressionante di immigrate africane viene gettato nel calderone infernale della prostituzione, che diventa veicolo di diffusione di malattie veneree.
Cosa ci dice del fenomeno del bugchasing? Dove è perché è così diffuso?
C’è il dramma dell’Africa, che presenta numeri ancora impressionanti. È quindi chiaro quali siano i rischi di una immigrazione di massa, incontrollata anche dal punto di vista sanitario, e i rischi legati al fatto che un numero impressionante di immigrate africane viene gettato nel calderone infernale della prostituzione, che diventa veicolo di diffusione di malattie veneree.
Il bugchasing è una pratica sessuale che non si deve avere paura a definire una grave forma di perversione. Si tratta di pratiche sessuali con sconosciuti, con soggetti HIV positivi, fatte senza l’uso di preservativi, nella massima promiscuità. I praticanti di questa sorta di sesso estremo, i cosiddetti bugchasers, dichiarano diverse motivazioni relative alla loro scelta: per alcuni il rischio relativo a contrarre il virus dell’HIV aumenterebbe il desiderio durante l’atto sessuale, anche se questi soggetti dichiarano di non avere necessariamente un vero e proprio desiderio di contrarre il virus.
Alcuni considerano l’essere infettati come qualcosa di estremamente erotico, l’ultimo limite da infrangere, l’ultimo estremo atto sessuale rimasto da compiere.
Cosa spinge secondo lei a questa folle ricerca del rischio?
In primo luogo la noia. L’ipersessualizzazione della società porta ad anticipare sempre più l’inizio dell’attività sessuale, a sperimentare ogni tipo di rapporto, e se non basta la realtà c’è anche il sesso virtuale, le cyber relazioni, la pornografia e così via. Una persona può arrivare a 30 anni in una situazione di saturazione delle emozioni erotiche.
Alcuni considerano l’essere infettati come qualcosa di estremamente erotico, l’ultimo limite da infrangere, l’ultimo estremo atto sessuale rimasto da compiere.
A quel punto si deve andare oltre. È come nelle dipendenze da sostanze: si comincia con le droghe leggere, e poi si finisce per non avere mai abbastanza dalle sostanze psicotrope di cui si diventa schiavi. Oltre a questo, mi sembra che questo tipo di comportamento manifesti un disagio di tipo psichico: una sorta di cupio dissolvi, una tendenza all’autodistruzione. Una specie di emozione estrema, come la roulette russa, che nasce da un disprezzo inconscio per la vita: me la gioco tirando un grilletto, o accoppiandomi al buio con un portatore di HIV. Tanto ne sono il padrone e la posso bruciare come voglio. È il culmine dell’ irresponsabilità.
Perché non esistono dati certi circa questo fenomeno, e perché si tratta di un tema così poco affrontato anche quando si parla di AIDS a livello mondiale?
Perché questo fenomeno smaschera molte falsità diffuse sull’AIDS nel corso degli anni, come quella che sarebbe bastato l’uso del preservativo, osteggiato dagli ambienti religiosi oscurantisti, a sconfiggere la malattia. E smaschera anche le conseguenze dell’edonismo folle della modernità liquida per cui ciò che conta è il divertimento e la ricerca del piacere ad ogni costo.
Smaschera, infine, la pretesa di essere i padroni assoluti della propria vita: basta infatti un piccolo virus cui si consente di agire indisturbato a distruggere una vita. Ogni nostra azione porta a delle conseguenze. È bene averlo sempre presente.
Cristiano Lugli
Epidemie
Paura e profitto, dall’AIDS al COVID

Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
La regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton ha paragonato la pandemia di COVID-19 all’epidemia di AIDS, definendola una «seconda versione» della stessa narrazione sulla salute pubblica. Entrambe le epidemie includevano l’uso improprio dei test PCR, la soppressione di scienziati dissenzienti e le motivazioni finanziarie alla base del «terrore della peste», ha affermato Shenton in un’intervista con Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense, su CHD.TV.
La pandemia di COVID-19 è stata un evento che si verifica una volta ogni secolo o ha avuto parallelismi nella storia recente? Per la regista ed ex reporter della BBC Joan Shenton, la pandemia è stata la «seconda ripresa» dell’epidemia di AIDS.
«È stato così angosciante dover affrontare il COVID», ha detto Shenton a Mary Holland, CEO di Children’s Health Defense (CHD), durante un’intervista di lunedì su CHD.TV. «Se solo avessimo potuto vincere la battaglia contro l’AIDS, non avremmo avuto il COVID».
Shenton, produttore del documentario del 2011 Positivamente Falso: Nascita di un’eresia e autore del libro del 1998 «Positively False: Exposing the Myths around HIV and AIDS», si è unito alla Holland per discutere delle somiglianze tra l’epidemia di COVID-19 e quella di AIDS.
Entrambe le epidemie includono l’uso inappropriato dei test PCR per determinare l’infezione, la somministrazione di trattamenti medici che si sono rivelati mortali per molti pazienti, il coinvolgimento di personaggi come il dottor Anthony Fauci e le ripercussioni affrontate dagli scienziati che hanno messo in discussione la narrazione dominante, ha affermato Shenton.
«Una delle cose straordinarie e sorprendenti di tutto questo… è quanto siano simili molte delle dinamiche dell’epidemia di AIDS a quelle dell’epidemia di COVID», ha affermato Shenton.
Secondo Shenton, le risposte all’AIDS e al COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», una strategia «utilizzata da organizzazioni che guadagnano enormi quantità di denaro attraverso le malattie infettive, definendo le cose infettive».
Shenton ha affermato di pensare che il suo documentario avrebbe contribuito a cambiare la narrazione dominante sull’AIDS, ma non è riuscito a superare i potenti interessi che traggono profitto dallo status quo.
«Spesso pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma non è così», ha detto Shenton.
Tuttavia, il documentario ha prodotto un archivio di 35 anni di studi scientifici, interviste video e altri documenti. Shenton ha donato la biblioteca informativa al CHD.
«Metteremo a disposizione un archivio delle sue migliaia e migliaia di pagine sull’AIDS», ha affermato Holland. Si prevede che i documenti saranno accessibili nei prossimi mesi.
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Le opinioni dissenzienti sull’AIDS «abilmente represse per decenni»
Shenton era una reporter della BBC, l’emittente pubblica nazionale del Regno Unito, quando sviluppò il lupus indotto da farmaci, dopo essere stata sottoposta a un’eccessiva terapia farmacologica in Spagna negli anni ’70.
«Mi hanno dato tutto quello che c’era scritto nel libro», ha detto Shenton. «Certo, sono imploso e mi sono sentito gravemente male. Sono stato al Westminster Hospital per due mesi. Sono quasi morto».
L’esperienza ha suscitato in lei l’interesse per le indagini sulle lesioni causate dai trattamenti medici.
In seguito è entrata a far parte dell’emittente nazionale britannica Channel 4, producendo una serie di documentari, Kill or Cure. La serie si concentrava sulla riluttanza delle grandi aziende farmaceutiche a ritirare trattamenti pericolosi o inefficaci. «Quello mi ha davvero dato la carica», ha detto Shenton.
Nei primi anni ’80, Shenton e il suo produttore vennero a conoscenza della ricerca del dottor Peter Duesberg, un biologo molecolare tedesco che sosteneva che l’HIV non causava l’AIDS.
Iniziò a mettere in discussione le narrazioni dominanti. «Abbiamo continuato a realizzare 13 documentari sull’AIDS», ha detto Shenton.
Il documentario Positively False si concentra sulla «manipolazione delle aziende farmaceutiche e delle organizzazioni [mediche] interessate in tutto il mondo, che manipolano il terrore della peste», ha affermato Shenton.
Il film rivela «la scienza imperfetta che circonda l’AIDS e le conseguenze di seguire ipotesi sbagliate», ha affermato Shenton nell’introduzione. Tra queste, la convinzione che l’AIDS sia infettivo, che sia causato dall’HIV e che l’HIV sia contagioso.
«Molti scienziati e ricercatori non sono d’accordo. Queste opinioni sono state abilmente represse per decenni dall’ortodossia scientifica prevalente e dai media mainstream», ha affermato Shenton nel documentario.
I ricercatori che mettevano in discussione la narrazione dominante sull’HIV/AIDS sono stati repressi e messi a tacere, così come gli scienziati che mettevano in discussione la narrazione prevalente sul COVID-19, ha affermato Shenton.
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Test PCR «completamente inutili» per AIDS e COVID
In entrambi i focolai, sono stati utilizzati test PCR per determinare l’infezione, ha affermato.
«Il test [PCR] è completamente e totalmente inutile», ha detto Shenton. I test non possono «distinguere tra particelle infettive e non infettive».
Shenton ha affermato che i diversi Paesi utilizzano standard diversi per determinare una diagnosi positiva di HIV.
«Si potrebbe fare il test per l’HIV, per esempio in Sudafrica, e risultare positivi, e volare in Australia e risultare negativi», ha detto Shenton.
All’inizio dell’epidemia di AIDS, molti scienziati ritenevano che fattori legati allo stile di vita, tra cui la dipendenza da droghe ricreative e l’uso di nitriti come i «poppers», fossero la causa dell’AIDS a causa dei danni che provocavano al sistema immunitario.
Allo stesso tempo, i funzionari sanitari e i media hanno erroneamente attribuito la diffusione della malattia in Africa all’AIDS, quando in realtà era la mancanza di accesso all’acqua potabile a far ammalare le persone, ha detto Shenton.
Queste narrazioni sono cambiate quando le agenzie sanitarie governative hanno iniziato a interessarsi alla ricerca sull’AIDS, ha affermato Shenton.
«Quando il CDC [Centers for Disease Control and Prevention] è intervenuto e ha riunito tutti i suoi rappresentanti per esaminare questo gruppo di giovani uomini che erano molto, molto malati… l’intera teoria secondo cui l’AIDS era causato dallo stile di vita o dalla tossicità è scomparsa», ha detto Shenton.
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Fauci ha promosso trattamenti mortali per AIDS e COVID
Shenton ha affermato che i trattamenti medici dannosi sono stati al centro sia dell’epidemia di AIDS che di quella di COVID-19.
Nel 1987, la Food and Drug Administration statunitense approvò l’AZT (azidotimidina) per le persone sieropositive. L’AZT si rivelò pericoloso per molti pazienti affetti da AIDS. Durante la pandemia di COVID-19, i vaccini e il remdesivir hanno danneggiato le persone.
E in entrambi i casi – l’epidemia di AIDS e la pandemia di COVID-19 – Fauci ha svolto un ruolo chiave.
«Eravamo profondamente, profondamente critici nei confronti di Fauci, per il modo in cui ha gestito gli studi multicentrici di fase due sull’AZT. Voglio dire, erano corrotti, e tutta la prima fase è stata finanziata dall’azienda farmaceutica [Burroughs Wellcome, ora GSK ], e avevano dei rappresentanti, e questo è noto attraverso i documenti sulla libertà di informazione, che sono andati lì e hanno portato a casa i risultati del gruppo trattato con il farmaco e del gruppo placebo, eliminando gli effetti collaterali nel gruppo trattato con il farmaco» ha detto la Shenton.
Nel film Positively False, diversi scienziati e ricercatori hanno spiegato come l’AZT impedisca la sintesi del DNA, impedisca la replicazione delle cellule e contribuisca alla generazione di cellule cancerose.
Tuttavia, secondo il documentario, i pazienti che mettevano in dubbio la sicurezza e l’efficacia dell’AZT venivano stigmatizzati e la loro sanità mentale veniva messa in discussione.
Holland ha fatto riferimento al libro del 2021 del Segretario alla Salute degli Stati Uniti Robert F. Kennedy Jr., The Real Anthony Fauci : Bill Gates, Big Pharma, and the Global War on Democracy and Public Health che contiene una sezione sul lavoro di Fauci durante l’epidemia di AIDS.
«Solleva tutti questi interrogativi il fatto che in realtà sembra la stessa truffa e gli stessi giocatori… non è cambiato molto», ha detto Holland.
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Il «terrore della peste» esisteva molto prima dell’AIDS o del COVID
Secondo Shenton, le epidemie di AIDS e COVID-19 sono esempi di «terrore della peste», che è esistito nel corso della storia.
All’inizio del XX secolo, negli Appalachi, fu diagnosticata un’epidemia di pellagra. La malattia, che causava una mortalità diffusa e si diceva fosse infettiva, si rivelò essere una carenza nutrizionale.
«Negli Appalachi, la popolazione molto povera viveva con una dieta completamente priva di nutrienti», ha detto Sheton. «Si trattava di una varietà di mais, ma lo cucinavano eliminandone tutti i nutrienti e dipendevano solo da quello».
La gente aveva così tanta paura di contrarre la pellagra che coloro che si pensava fossero infetti venivano ricoverati in istituti o «gettati fuori dalle navi», ha affermato.
Un infettivologo di New York, il dottor Joseph Goldberger, stabilì che la pellagra non era contagiosa, ma era causata da malnutrizione e carenza di niacina (vitamina B), ha detto Shenton. Fu emarginato per le sue scoperte.
«È stato ridotto allo stato laicale, privato dei fondi, ridicolizzato. È morto. E cinque anni dopo la sua morte, hanno detto che aveva assolutamente ragione: non era contagioso, era tossico», ha detto.
Secondo Shenton, in Giappone dagli anni ’50 agli anni ’70 la mielo-ottico-neuropatia subacuta (SMON) era comune.
«Centinaia di migliaia di giapponesi sono rimasti paralizzati dalla vita in giù e ciechi, e nessuno riusciva a capire il perché. E ovviamente pensavano: “Oh, è un virus”», ha detto.
Un neurologo giapponese, il dottor Tadao Tsubaki, ha studiato i pazienti affetti da SMON e ha stabilito che la condizione non era infettiva, ma era causata da un farmaco antidiarroico ampiamente somministrato, il cliochinolo.
«Ci sono voluti 30 anni e squadre di avvocati per respingere in tribunale l’idea che la causa della SMON fosse un virus», ha affermato Shenton.
Michael Nevradakis
Ph.D.
© 7 ottobre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.
Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.
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Epidemie
Le restrizioni COVID in Spagna dichiarate incostituzionali, annullate oltre 90.000 multe

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Epidemie
Morti in casa anche per 8 giorni: emergenza ‘kodokushi’ tra gli anziani soli giapponesi

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Secondo l’Agenzia nazionale di polizia, nel primo semestre del 2025 sono stati oltre 40mila in Giappone i casi di morte isolata in casa. Il 28% viene scoperto dopo più di una settimana. Tra le cause: invecchiamento della popolazione, indebolimento dei legami, riluttanza a chiedere aiuto. Padre Marco Villa, responsabile di un centro d’ascolto a Koshigaya: «Una persona mi ha appena detto: mi è rimasto un solo amico, ci sentiamo due volte all’anno… La solitudine il dramma più grande di questo Paese».
Kodokushi (孤独死): la morte in casa di persone circondate da una profonda aridità relazionale, che non viene scoperta anche per un lungo periodo di tempo dopo il decesso. È uno dei drammatici volti della solitudine in Giappone. Secondo i nuovi dati dell’Agenzia nazionale di polizia diffusi oggi, in Giappone solo nel primo semestre del 2025 sono stati 40.913 i decessi avvenuti in isolamento nelle abitazioni.
Una cifra che segna un aumento di 3.686 casi rispetto allo stesso periodo del 2024. Ma il dettaglio forse più inquietante è che almeno il 28% di essi (11.669 persone) è stato scoperto dopo almeno 8 giorni.
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Una delle principali cause è anzitutto l’invecchiamento della popolazione del Giappone: 1 persona su 4 ha più di 65 anni. «Inoltre, si tende sempre più a non avere legami significativi né con il territorio, né con la famiglia. La maggioranza della gente non vive nei luoghi dove è cresciuta, ma si trova a vivere dove c’è lavoro», spiega ad AsiaNews dal Giappone padre Marco Villa, missionario del PIME che opera a Koshigaya, cittadina nella periferia nord di Tokyo, nella diocesi di Saitama. «Quindi, si fa più fatica a intrecciare relazioni significative con gente che non si conosce. Ciò accade anche perché avere relazioni a volte è davvero una cosa faticosa, allora si decide di non impegnarsi».
Padre Marco Villa nel 2012 ha favorito la nascita a Koshigaya del Centro d’Ascolto Mizu Ippai («un bicchiere d’acqua») – di cui è responsabile – proprio con l’obiettivo di sostenere le persone affette dalla solitudine, comprese le persone hikikomori, che soffrono di isolamento patologico ed estraniamento. Nel suo servizio non è raro che venga a conoscenza di casi di kodokushi, l’ultimo solo pochi mesi fa. «Una signora che frequenta il centro è rientrata a casa la sera, dopo un incontro. Dopo circa due settimane, il figlio mi ha chiamato dicendo che non aveva contatti con la mamma, chiedendo se l’avessi sentita. È andato a vedere se si trovava a casa, e l’ha trovata morta», racconta p. Marco Villa.
Questo caso dimostra che anche le persone che riescono a curare dei legami, a uscire di casa, possono andare incontro a una morte isolata. «Vivendo da sola si è imbattuta in questi rischi», dice Villa. Rischi che aumentano in quelle persone che, invece, vivono una solitudine più estrema, perché non hanno dei familiari vicini, o perché non hanno degli amici.
Padre Marco Villa racconta anche di una telefonata avuta poco prima di essere contattato oggi da AsiaNews. «Una persona mi ha detto che è morto un suo amico; ora gli rimane un amico solo, che sente due volte all’anno: una per gli auguri di compleanno e una per gli auguri di buon anno. È l’unico amico che ha: mi ha chiesto di passare del tempo insieme. Queste sono situazioni che incontro regolarmente», aggiunge.
Oltre alla significativa quota di persone anziane in Giappone, favorisce il preoccupante fenomeno kodokushi anche «la ritrosia della persona giapponese a chiedere aiuto». Villa spiega che, culturalmente, nel domandare è insita «la preoccupazione di dare fastidio agli altri, di non voler dare preoccupazioni a causa delle proprie difficoltà».
La tendenza rilevata è la gestione in totale autonomia dei problemi personali. Ciò affievolisce inevitabilmente i legami con le persone della famiglia, così come con coloro che vivono nello stesso luogo. Un elemento che il missionario definisce «costante», basandosi sulla sua esperienza in Giappone. «La solitudine è il dramma principale del Paese», dice.
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Padre Marco Villa ammette di essere rimasto «sconvolto» dai casi di solitudine profonda incontrati nel Paese. Da questo sentimento nacque il Centro d’Ascolto Mizu Ippai di Koshigaya. «Chiesi al vescovo (della diocesi di Saitama, ndr) di poter iniziare un’attività a tempo pieno per cercare di alleviare la solitudine delle persone», racconta. Il Centro mette in campo le risorse del «volontariato dell’ascolto»: non professionisti all’opera, ma volontari e volontarie che offrono il proprio ascolto, nella struttura, così come alla stazione ferroviaria, luogo di aggregazione per la presenza di numerosi negozi.
Un’attività che affianca le iniziative istituzionali. «Lo Stato è consapevole di queste situazioni e cerca di essere sempre più capillare nel territorio attraverso strutture dedicate, cercando di creare delle occasioni di incontro per la gente. Questo è un tentativo, secondo me valido, che il Giappone porta avanti», spiega.
Come invertire la tendenza di questa drammatica e così diffusa esperienza umana? «La cosa fondamentale è creare delle occasioni di incontro, dei luoghi adatti per potersi trovare; fondamentalmente cercando di diventare amici delle persone che vivono in stato di solitudine», dice padre Marco Villa.
Solitudine che in alcuni casi viene «risolta» da lunghi dialoghi intrattenuti con l’intelligenza artificiale. «Ieri un ragazzo mi diceva che l’AI è l’unica persona che lo capisce, che riesce a capire i suoi problemi. Così crede di avere qualcuno, qualcosa con cui si relaziona, che però non è certamente un essere umano», aggiunge.
Per uscire da queste situazioni, ne è convinto il missionario, «basta poco: una via, una linea, un aggancio, capace di instaurare un minimo di relazione umana».
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