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Politica

Gatekeeper vs Houserunner: il disastro dei partiti degli infiltrati e degli scappati di casa

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C’è un semplice calcolo che nessuno sembra aver fatto.

 

Lo scenario da tener presente è il seguente: la Repubblica Italiana, uno Stato democratico che in teoria aiuta la libera associazione dei cittadini (non ridete),  deve giocoforza controllare che queste non costituiscano un pericolo per lo Stato stesso.

 

Da sempre, lo Stato infiltra le associazioni di cittadini in odore di sovversione, e forse non solo quelle.

 

Lo Stato può piazzare segretamente  i suoi uomini in ogni forma organizzazione civile. È naturale che sia così, perché come ogni organismo, lo Stato vuole proteggere se stesso, o più prosaicamente, i controllori devono proteggere i loro stipendi.

 

Questo processo è definito con una parola semplice: infiltrazione. Se preferite, potete chiamarle «operazioni sotto copertura».

 

Possiamo immaginare che grandi quantità di insiemi di cittadini, dai Centri sociali ai circoli estremisti etc., siano infiltrati dallo Stato italiano per controllo ed eventuale repressione.

 

Bisogna comprendere che non c’è solo un ufficio che svolge questo lavoro. Ci sono plurimi dipartimenti nei plurimi enti atti all’ordine: immaginiamo che abbiano un ramo per le infiltrazioni i Carabinieri, la Polizia, la Guardia di Finanza, la Direzione Investigativa Antimafia, soprattutto i servizi segreti.

 

Parliamo quindi non di un ufficio, ma di tanti. Tanta, tanta gente, palazzine intere magari – che, ovviamente, non comunicano fra loro, o comunicano a enti esterni ed oscuri, come quando si parlava di «servizi segreti deviati» – dedite a infiltrare gruppi di cittadini.

 

Ora, senza parlare di sovversione, è chiaro che lo Stato che nel biennio pandemico ha negato la sua stessa base materiale – la Costituzione – non può che vedere nella protesta attuale (no-vax, no-green pass, chiamatela come volete), un oggetto di interesse.

 

Quindi, il lettore deve calcolare: quanti dei nuovi partiti che intendono raccogliere il voto della protesta sono infiltrati dallo Stato contro cui dovrebbero protestare in Parlamento?

 

Di più: ci sono per caso dei partiti, tra questi che scalpitano per il voto dei no-green pass, che potrebbero essere stati creati direttamente dallo Stato per inscatolare il dissenso e reprimere la protesta tramite la pratica dell’«opposizione sintetica»?

 

In pratica, lo Stato manovra i suoi stessi avversari, aiutando e innalzando leader e strutture partitiche fintamente contrarie, di modo che il popolo dissidente finisca a volare lì, nella carta moschicida, così da essere individuato, schedato e, infine, «normalizzato»: il partito della protesta cede, quei cittadini divenuti militanti seguono, altri invece sprofondano in un’amarezza paralizzante, e da lì riparte la giostra – si cerca un nuovo leader, un nuovo partito, mentre il dissenso è destinato ad un altro ciclo di impotenza, anni senza rappresentanza vera, l’agenda del potere portata avanti senza intoppi.

 

Abbiamo visto da vicino questo processo in forma macroscopica, potrebbe dire qualcuno, con il Movimento 5 Stelle. Chi scrive è stupito di come nessuno si rende conto che il disegno di Schwab, Draghi, Colao – la decrescita, la virtualizzazione informatica dell’esistenza, la trasformazione dello Stato in piattaforma di controllo elettronico dell’identità e del danaro, da cui si è perennemente dipendenti, pena l’emarginazione totale – fosse quello di cui discuteva Casaleggio.

 

Ora, riguardiamo il panorama dei partitini, che dovrebbero raccogliere centinaia di migliaia di firme e certificarle nel mese di agosto. Qualcuno ce la farà pure: ci sono in giro gabole alla Tabacci per cui, magari, le firme non dovranno nemmeno raccoglierle – fidatevi.

 

Tuttavia, ci chiediamo, davvero: è possibili che ci siano partiti di infiltrati, creati in laboratorio dal potere?

 

Mica lo sappiamo, noi. Abbiamo visto però come, all’apparire di certe figure durante gli episodi di protesta più delicati, il dissenso si sgonfiava…

 

Ecco che salta fuori l’espressione gergale americana, usatissima negli anni del complottismo duro e puro: gatekeeper. Il gatekeeper (in inglese, guardiano del cancello) è colui che controlla l’accesso al sistema: setaccia, filtra, ferma le informazioni, decide chi può entrare davvero nel processo politico.

 

Secondo la vulgata, il potere costituito crea gatekeeper – camuffandoli da giornalisti, attivisti, politici vicini ai temi della protesta – per controllare e contenere il processo sociale.

 

Gatekeeper è la parola che sentiamo in questi giorni spessissimo nelle accuse contro i partitini, i quali stanno dando uno spettacolo grottesco fino all’improbabile.

 

Esiste un antico adagio Internet chiamato «legge di Godwin». Esso afferma che «a mano a mano che una discussione online si allunga, la probabilità di un paragone riguardante i nazisti o Hitler tende ad 1». Cioè, i dibattiti online di qualsiasi tipo, alla lunga, prima o poi generano un riferimento da parte di qualcuno a Hitler e ai nazisti, come paragone, altro. (La cosa deve valere anche per i robot: come noto, l’Intelligenza Artificiale di Microsoft, messa su Twitter dopo pochi minuti inneggiava a Trump e a Hitler).

 

Ora, nel dissenso del XXI secolo, introduciamo la «legge di Giorgio». Essa afferma che «a mano a mano che una discussione online sul gatekeeping si allunga, la probabilità di veder citato Giorgio Soros tende a 1».

 

Ecco che fioccano le accuse: leaderini della protesta (magari anche solo a livello virtuale, magari wannabe leaderini) al servizio del miliardario magliaro magiaro?

 

Il bello è che potrebbe pure essere. Non è sbagliato pensare che i servizi interni dei Paesi europei siano allineati a Soros: la cosa è evidente riguardo al tema dell’immigrazione, che invece che essere combattuta dai servizi di sicurezza, è lasciata andare liberamente, come da volontà delle ONG sorosiane che «aiutano» la grande migrazione. Mica dimentichiamo quando il Soros incontrò, out of the blue, il premier Gentiloni (come Draghi che ha incontrato Schwab). Pensare che lo Stato profondo non possa no essere allineato con i miliardi e le politiche delle Fondazioni dello squalo ungherese che distrusse lira e sterlina, non è un’eresia.

 

Tuttavia, non è questo il punto a cui volevamo arrivare.

 

Vogliamo dire qualcosa di nuovo: certo, ci sono i gatekeeper. Che sono infidi, e pericolosi, e personalmente ci fanno ribrezzo – il lettore lo sa, perché magari pure capisce telepaticamente di chi parliamo.

 

Ci sono però anche gli houserunner. Non cercate il termine su Google, questa è una parola inventata da noi: houserunner sta per «scappati di casa».

 

Ebbene sì: una quantità di partitelli del dissenso sono creati e riempiti da houserunner, da scappati di casa. Lo «scappato di casa»  è espressione di origine incerta (qualcuno dice Genova, qualche decennio fa) che si riferisce a qualcuno incompetente, inaffidabile, impresentabile, inaffrontabile, inguardabile, tendenzialmente cretino.

 

Ora, gli houserunner dominano completamente il discorso politico del dissenso che vuol farsi parlamentare, e con probabilità superano di numero i gatekeeper.

 

Anzi, si potrebbe qui consumare il paradosso per cui anche i partiti dei gatekeeper sono in realtà gestiti da houserunner. Cioè, anche i guardiani messi lì dallo Stato profondo sono in realtà degli scappati di casa. La cosa potrebbe avere un suo senso strategico piuttosto acuto.

 

Molte delle cose che stiamo vedendo a destra e a manca – scissioni, candidature improbabili, marchi ridondanti, insulti, discorsi osceni, sindromi di Munchausen elettorali – ce lo stanno a dimostrare: il domofugismo, il fenomeno degli scappati di casa, vince in ogni dove.

 

Gli houserunner sono pericolosi tanto quanto i gatekeeper, se non di più. Sono, più o meno involontariamente, diabolici. Perché, come dice l’antico adagio medievale, «lo stupido è la cavalcatura del diavolo».

 

Avevamo pensato di iniziare a scrivere una sorta di bestiario elettorale, per dare cronaca delle cose che stiamo vedendo, che sono al livello delle celeberrime «cose che voi umani…», ma ci siamo accorti che è ancora troppo presto, perché la velleità tossica di capetti e gruppetti deve ancora dare il meglio (il peggio) di sé.

 

Il pudore, la coerenza, la decenza sembrano per sempre dimenticate nell’orgia di houserunning in corso. Non c’è vergogna alcuna, nemmeno quando il grottesco diventa parossistico, e le figure da cioccolataio titaniche.

 

Ora, avrete capito che questo pezzo di analisi è stato scritto con la volontà di ridere un po’, di fare un po’ di satira.

 

Purtroppo ritengo che ci sia poco da ridere. Parlo proprio di un pensiero personale, una valutazione, amarissima, fatta su più di un decennio di concrete osservazioni personali.

 

Chi scrive una decina di anni fa uscì con uno dei primi libri sul M5S, Incubo a 5 stelle. Grillo Casaleggio e la Cultura della Morte.

 

Il tomo, di circa 300 pagine, è ancora oggi citato nelle bibliografie di Wikipedia sul partito (un tempo era brevissima, ora sono arrivati tutti). Era stata un’analisi lunga e sentita, perché avevo cominciato ad osservare con inquietudine il movimento di Grillo anni prima – anzi posso dire la data, 7 settembre 2007, quando Grillo lanciò un raduno oceanico in Piazza Maggiore a Bologna – il «Vaffa Day» – e c’era talmente tanta gente invasata che il comico si lanciò sulla folla con un gommone, e questa lo sorreggeva mentre lui rideva felice.

 

Il libro, per questioni dell’editore, uscì con un po’ di ritardo. Il M5S era già in Parlamento, sia pur all’opposizione, con incredibili milionate di voti. Tuttavia, nel testo scrivevo di tante cose che potevano aiutare a capirne le dinamiche culturali, nonché l’identità profonda tra quella che sembrava la «cultura» profonda del partito e i diktat del globalismo.

 

Qualcuno, del mio libro, parlò: grazie a Camillo Langone, finii in prima pagina su Il Foglio, quando ancora c’era Ferrara, con una lunga e sentita intervista dove riuscii a dire cose che mi costarono attacchi da tutte le parti (ma davvero l’Italia è diventata più povera da quando c’è la rete? Qualcuno si è sconvolto…). Fui chiamato perfino a La Zanzara, per il consueto trappole di Cruciani, da cui mi difesi come potevo.

 

Un amico che aveva letto il libro e si era impaurito, con certe entrature dentro un grosso partito, mi chiese delle copie da mostrare ai papaveri partitici con i quali aveva relazioni. La cosa non ebbe alcun effetto.

 

Il libro perse quota, si inabissò. Il grande studio sulle origini culturali del Reich dei Meetup in fondo non interessava a nessuno – anche se questi avevano preso un mostruoso 25,5%, che sarebbe divenuto 35,6% nell’elezione successiva.

 

La verità è che, al di là di tutto, alla politica, e  all’establishment mediatico, la questione dell’ascesa del partito di grillo non interessava. Le spiegazioni che mi davo erano essenzialmente due:

 

1) Destra e sinistra interpretavano il M5S come un congelatore di voti, comodo assai perché concentrava il voto di protesta, per quanto gargantuesco, in un unico punto, pronto ad essere scongelato per tornare all’ovile dei grandi partiti storici. Il succo era «sappiamo che facciamo schifo, sappiamo che quegli elettori adesso non ci voteranno mai, perché effettivamente facciamo schifo, ma non abbiamo voglia di riconquistarli, per cui mettiamoli nel frigo a cinque stelle»

 

2) Più oscuro: in fondo, da qualche parte qualcuno sapeva che i 5 stelle sarebbero stati digeriti dal potere, ci avrebbero fatto governi insieme, vuoi perché dei parlamentari ragazzini (anche qui) scappati di casa prima o poi cedono; vuoi perché forse l’origine dello stesso partito era, come dire, controllata.

 

Anche qui, la legge di Giorgio non perdonò, e il nome di Soros saltò fuori: «Sarà pure un caso, ma l’unico studio scientifico di decine di pagine fatto finora sul Movimento 5 Stelle nel febbraio 2013 è stato commissionato al think tank inglese Demos. Il supporto è stato dato proprio dalla Open Society di Soros» scrisse in un suo libro dell’epoca il mitico faccendiere Luigi Bisignani.

 

A questo punto devo dirvi che, a differenza, di un tempo non mi interessa in alcun modo l’origine del M5S e la sua matrice culturale.

 

Quello che mi sta a cuore è vedere che sono passati dieci anni. Mi fermo. Guardo. Vedo un film sconcertante. Guardate anche voi.

 

Un decennio completamente perso, dove la protesta contro l’establishment è stata surrogata e disintegrata senza problemi. Ricordate? Votavano Grillo, in massa, perché lì era l’unico posto, ad esempio, dove si parlava, sia pur confusamente, di vaccini, di uscita dall’euro, di politica corrotta.

 

Una decade perduta. Questo è l’effetto congiunto di gatekeeper e houserunner, qualora lasciati liberi di raggiungere il Parlamento.

 

Noi adesso un altro decennio da buttare non ce lo abbiamo. Se dal 2013 abbiamo visto la distruzione delle banche popolari, l’mRNA obbligatorio, l’annullamento dei diritti costituzionali, cosa vedremo con altri dieci anni di opposizione sintetica?

 

Non ce lo possiamo permettere, per nessun motivo.

 

Quindi, chiediamo al lettore, dal cuore: attenti agli infiltrati venduti, e ai cretini scappati di casa.

 

Perché in gioco c’è più di un’elezione. Ci sono le ore fondamentali per la sopravvivenza della libertà umana, della dignità umana, della vita umana stessa.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine di Ivw115 via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)

 

 

 

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Orban dice che l’UE potrebbe andare al «collasso» e chiede accordi con Mosca

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L’UE è sull’orlo del collasso e non sopravvivrà oltre il prossimo decennio senza una «revisione strutturale fondamentale» e un distacco dal conflitto ucraino, ha avvertito il primo ministro ungherese Viktor Orban.

 

Intervenendo domenica al picnic civico annuale a Kotcse, Orban ha affermato che l’UE non è riuscita a realizzare la sua ambizione fondante di diventare una potenza globale e non è in grado di gestire le sfide attuali a causa dell’assenza di una politica fiscale comune. Ha descritto l’Unione come entrata in una fase di «disintegrazione caotica e costosa» e ha avvertito che il bilancio UE 2028-2035 «potrebbe essere l’ultimo se non cambia nulla».

 

«L’UE è attualmente sull’orlo del collasso ed è entrata in uno stato di frammentazione. E se continua così… passerà alla storia come il deprimente risultato finale di un esperimento un tempo nobile», ha dichiarato Orban, proponendo di trasformare l’UE in «cerchi concentrici».

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L’anello esterno includerebbe i paesi che cooperano in materia di sicurezza militare ed energetica, il secondo cerchio comprenderebbe i membri del mercato comune, il terzo quelli che condividono una moneta, mentre il più interno includerebbe i membri che cercano un allineamento politico più profondo. Secondo Orbán, questo amplierebbe la cooperazione senza limitare lo sviluppo.

 

«Ciò significa che siamo sulla stessa macchina, abbiamo un cambio, ma vogliamo muoverci a ritmi diversi… Se riusciamo a passare a questo sistema, la grande idea della cooperazione europea… potrebbe sopravvivere», ha affermato.

 

Orban ha accusato Brusselle di fare eccessivo affidamento sul debito comune e di usare il conflitto in Ucraina come pretesto per proseguire con questa politica. Finché durerà il conflitto, l’UE rimarrà una «anatra zoppa», dipendente dagli Stati Uniti per la sicurezza e incapace di agire in modo indipendente in ambito economico, ha affermato.

 

Il premier magiaro ha anche suggerito che, invece di «fare lobbying a Washington», l’UE dovrebbe «andare a Mosca» per perseguire un accordo di sicurezza con la Russia, seguito da un accordo economico.

 

Il primo ministro di Budapest non è il solo a nutrire queste preoccupazioni. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni hanno lanciato l’allarme: l’UE rischia la stagnazione e persino il collasso a causa di sfide strutturali, crescita debole, scarsi investimenti, elevati costi energetici e tensioni geopolitiche.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

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Il passo indietro di Ishiba: nuovo capitolo nella lunga crisi del centro-destra giapponese

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro giapponese ha annunciato ieri le dimissioni dopo settimane di tensioni con i membri del Partito Liberaldemocratico, in difficoltà di fronte alla perdita di consenso tra gli elettori conservatori. Diversi candidati si sono già fatti avanti segnalando la volontà di succedere a Ishiba nella presidenza del partito, ma resta il nodo della guida del governo senza la maggioranza in parlamento.   A meno di un anno dal suo insediamento, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha annunciato ieri le dimissioni, aprendo una nuova fase di incertezza politica. La decisione è una conseguenza delle crescenti pressioni all’interno del suo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico (LDP), che alle ultime elezioni ha subito significative sconfitte, arrivando a perdere la maggioranza in entrambe le Camere.

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Ishiba si è assunto la responsabilità per i pessimi risultati dell’LDP alle elezioni della Camera dei Consiglieri a luglio e ha sottolineato che le sue dimissioni servono a prevenire un’ulteriore spaccatura all’interno del partito. Già a luglio, il quotidiano giapponese Mainichi aveva per primo riportato che Ishiba si sarebbe dimesso, basandosi su informazioni raccolte tra il premier e i suoi più stretti collaboratori.   Le prime indiscrezioni indicavano che i preparativi per la corsa alla presidenza dell’LDP sarebbero iniziati entro agosto. Ishiba, tuttavia, aveva pubblicamente smentito queste notizie e nelle sue affermazioni aveva sottolineato l’importanza di portare a termine le trattative sui dazi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva imposto il primo agosto come scadenza ultima.   Nel suo discorso di ieri, Ishiba ha spiegato che l’annuncio delle dimissioni a luglio avrebbe indebolito la posizione del Giappone: «chi negozierebbe seriamente con un governo che dice “ci dimettiamo”?», ha detto.   Ishiba ha poi cercato di placare le pressioni interne all’LDP minacciando di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire elezioni anticipate, una mossa che ha esacerbato le divisioni e spinto il principale partner di coalizione, il partito Komeito, a ritenere inaccettabile la decisione. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo, l’ex primo ministro Yoshihide Suga e il ministro dell’Agricoltura Shinjiro Koizumi entrambi tenuto colloqui con il premier sabato, evitando una scissione all’interno del partito e aprendo la strada all’annuncio delle dimissioni di ieri.   Ora l’attenzione si sposta sulla scelta del prossimo leader dell’LDP, che potrebbe assumere anche la carica di primo ministro se ci fosse una qualche forma di sostegno o di accordo anche con le opposizioni. Tra i principali contendenti ci sono membri del partito che avevano già sfidato Ishiba in passato, tra cui Sanae Takaichi, ex ministra per la sicurezza economica, che ha ricevuto il 23% dei consensi in un recente sondaggio di Nikkei. Takaichi fa parte dell’ala conservatrice e ha una forte base di sostegno tra i fedelissimi dell’ex primo ministro Shinzo Abe, di cui è considerata l’erede, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, che potrebbero favorire una ripresa dei mercati azionari. Takaichi ha inoltre la reputazione di andare d’accordo con il presidente Donald Trump.   Anche Shinjiro Koizumi, attuale ministro dell’Agricoltura e figlio dell’ex leader Junichiro Koizumi, è un altro papabile candidato, dopo essere riuscito ad abbassare i prezzi del riso appena entrato in carica. Il sondaggio di Nikkei ha registrato un 22% dei consensi nei suoi confronti.   Altri membri del partito hanno segnalato la volontà di candidarsi, tra cui Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo del Gabinetto e portavoce principale del governo Ishiba, che si è classificato quarto nella corsa per la leadership del partito del 2024. Tra gli altri contendenti figurano Takayuki Kobayashi, un altro ex ministro per la sicurezza economica che gode di un maggiore sostegno all’interno dell’ala centrista, e Toshimitsu Motegi, ex segretario generale dell’LDP e il più anziano tra i candidati con i suoi 69 anni.   L’LDP oggi si trova in una posizione di forte debolezza. Molti elettori conservatori alle ultime elezioni hanno preferito il partito di estrema destra Sanseito anche a causa dell’allontanamento di Ishiba dall’ala conservatrice.

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Secondo un sondaggio di Kyodo, condotto prima che fossero riportate le dimissioni di Ishiba, l’83% degli intervistati ha dichiarato che un chiarimento pubblico del partito sulle ultime sconfitte non avrebbe comunque aumentato la fiducia degli elettori. È chiaro, quindi, che il compito del prossimo presidente di partito sarà quello di ripristinare la credibilità del centrodestra.   Chiunque verrà scelto si troverà davanti a un’importante decisione: se indire elezioni anticipate per cercare di riconquistare la maggioranza alla Camera bassa o rischiare di perdere il potere del tutto. Quest’ultima scelta rischierebbe di aprire una nuova fase di instabilità politica senza precedenti, che richiederebbe la ricerca di sostegno anche tra i partiti dell’opposizione per approvare le leggi e i bilanci.   Secondo diversi commentatori, il prossimo leader dovrà prima di tutto godere di una genuina popolarità sia all’interno che all’esterno del partito per affrontare sfide come l’invecchiamento della società, la forza lavoro in calo, l’inflazione e i timori che gli Stati Uniti possano abbandonare il loro ruolo di garanti della sicurezza nella regione asiatica.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Politica

Il governo francese collassa

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Il governo francese è collassato dopo che il Primo Ministro François Bayrou ha perso un cruciale voto di fiducia in Parlamento lunedì. Bayrou è il secondo primo ministro consecutivo sotto Emmanuel Macron a essere destituito, precipitando la Francia in una crisi politica ed economica.

 

Per approvare una mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale servono almeno 288 voti. Quella di lunedì ne ha ottenuti 364, con il Nuovo Fronte Popolare di sinistra e il Raggruppamento Nazionale di destra coalizzati per superare lo stallo sul bilancio di austerità di Bayrou.

 

Dopo aver resistito a otto mozioni di sfiducia, Bayrou ha convocato questo voto per ottenere supporto alle sue proposte, che prevedevano tagli per circa 44 miliardi di euro per ridurre il debito francese in vista del bilancio di ottobre.

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Bayrou, che aveva definito il debito pubblico un «pericolo mortale», sembra aver accettato la sconfitta. Domenica, ha criticato aspramente i partiti rivali, che, pur «odiandosi a vicenda», si sono uniti per far cadere il governo.

 

Bayrou è il secondo primo ministro deposto dopo Michel Barnier, rimosso a dicembre dopo soli tre mesi, e il sesto sotto Macron dal 2017.

 

La caduta di Bayrou lascia Macron di fronte a un dilemma: nominare un Primo Ministro socialista, cedendo il controllo della politica interna, o indire elezioni anticipate, che i sondaggi indicano favorirebbero il Rassemblement National di Marine Le Pen.

 

Con la popolarità di Macron al minimo storico, entrambe le opzioni potrebbero indebolire ulteriormente la sua presidenza. Gli analisti temono che una perdita di fiducia dei mercati nella gestione del deficit e del debito francese possa portare a una crisi simile a quella vissuta dal Regno Unito sotto Liz Truss, il cui governo durò meno della via di un cavolo prima della marcescenza.

 

Il malcontento verso Macron è in crescita: un recente sondaggio di Le Figaro rivela che quasi l’80% dei francesi non ha più fiducia in lui.

 

Come riportato da Renovatio 21, migliaia di persone hanno protestato a Parigi nel fine settimana, chiedendo le dimissioni di Macron con slogan come «Fermiamo Macron» e «Frexit».

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Immagine di © European Union, 1998 – 2025 via Wikimedia pubblicata secondo indicazioni

 

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