Economia
ENI e BP riprendono l’esplorazione in Libia dopo 10 anni di pausa

L’ENI e la compagnia britannica BP hanno ripreso le esplorazioni petrolifere in Libia, interrotte nel 2014, ha riferito la Libyan National Oil Corporation (NOC).
«ENI e BP hanno ripreso le loro attività di esplorazione in Libia dopo aver interrotto le operazioni di perforazione nella regione onshore dal 2014. Nel frattempo, Repsol si sta preparando a riavviare le perforazioni nel bacino di Murzuq e OMV è pronta a iniziare le operazioni nel bacino di Sirte nelle prossime settimane», ha affermato la società in una dichiarazione. La Repsol è una compagnia energetica spagnuola, mentre la OMV è austriaca.
All’inizio di ottobre, la causa di forza maggiore è stata revocata in tutti i giacimenti petroliferi e nei porti libici e la produzione e le esportazioni di petrolio sono riprese dopo che la Camera dei rappresentanti e il Consiglio supremo di Stato con sede a Tripoli hanno concordato la nomina di un nuovo capo della banca centrale del Paese.
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A fine agosto, il governo libico orientale, autorizzato dalla Camera dei rappresentanti, aveva dichiarato la forza maggiore in tutti i giacimenti petroliferi e ha annunciato la sospensione della produzione e delle esportazioni di petrolio.
Il governo ha affermato in una dichiarazione che le decisioni sono state prese in risposta agli attacchi e ai tentativi di effrazione alla sede centrale della Banca centrale della Libia con sede a Tripoli.
La NOC ha dichiarato che ENI ha avviato oggi le sue attività di esplorazione nell’Area B (96/3) nel bacino di Ghadames, dove è stato perforato il primo pozzo esplorativo A1-96/3 (Wildfire Hope), scrive il Libya Herald.
La NOC ha rilevato che il pozzo A1-96/3 è il primo obbligo contrattuale nell’Area B nel Bacino di Ghadames, in conformità con il Contratto di Tipo IV del 2007. ENI gestisce l’area in partnership con BP e la Libyan Investment Company. Il pozzo A1-96/3 si trova a circa 35 chilometri dal campo di Wafa e a circa 650 chilometri dalla capitale, Tripoli.
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Economia
Gli USA impongono dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare legate alla Cina

Washington ha imposto dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare dal Sud-Est asiatico, secondo le informazioni pubblicate lunedì dal dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Gli aumenti fanno seguito alle accuse secondo cui i produttori di proprietà cinese che operano nella regione avrebbero violato le norme commerciali. Lo riporta Bloomberg.
Secondo la testata economica neoeboracena, i dazi colpiscono le importazioni da Malesia, Cambogia, Thailandia e Vietnam, Paesi che complessivamente lo scorso anno hanno fornito agli Stati Uniti apparecchiature solari per un valore di oltre 12,9 miliardi di dollari.
Note come dazi antidumping e compensativi, le misure mirano a contrastare l’impatto di quelle che il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ritiene essere pratiche di sussidi e prezzi ingiusti.
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La decisione è stata presa a seguito di una petizione presentata dall’American Alliance for Solar Manufacturing Trade Committee, che rappresenta diversi produttori statunitensi. Le aziende nazionali hanno affermato che i produttori cinesi di pannelli solari con stabilimenti nei quattro paesi del Sud-Est asiatico esportavano pannelli a prezzi inferiori ai costi di produzione e beneficiavano di sussidi ingiusti che compromettevano la competitività dei prodotti americani.
Le sanzioni variano a seconda dell’azienda e del Paese: i prodotti Jinko Solar provenienti dalla Malesia sono soggetti a dazi antidumping e compensativi combinati del 41,56%, i prodotti Trina Solar realizzati in Thailandia sono soggetti a tariffe del 375,19% e i fornitori cambogiani, che non hanno collaborato all’indagine, rischiano tasse punitive fino al 3.521%.
I critici del provvedimento, come la Solar Energy Industries Association (SEIA), sostengono che i dazi danneggerebbero i produttori di energia solare statunitensi, aumentando il costo delle celle importate, che le fabbriche americane utilizzano per assemblare i pannelli, ha osservato Reuters.
La Commissione per il commercio internazionale, un’agenzia federale statunitense indipendente e imparziale che indaga su questioni legate al commercio, voterà a giugno per determinare se l’industria nazionale ha subito danni materiali a causa delle importazioni, un passaggio necessario affinché i dazi entrino in vigore pienamente.
Dopo che circa 12 anni fa erano stati imposti dazi simili sulle importazioni di energia solare dalla Cina, le aziende cinesi hanno reagito aprendo attività in altri Paesi che non erano state interessate dai dazi, ha osservato Bloomberg.
Le nuove imposte si aggiungeranno ai dazi doganali introdotti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che hanno scosso i mercati globali. Finora, Trump ha imposto dazi del 145% sulle importazioni cinesi e ha minacciato un ulteriore possibile aumento al 245%.
La Cina ha accusato gli Stati Uniti di «bullismo», ha reagito imponendo una tassa del 125% sui prodotti statunitensi e ha promesso di «combattere fino alla fine».
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Immagine di AgnosticPreachersKid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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