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Scuola

Dal ricatto del vaccino genico alla scuola digitalizzata: intervento di Elisabetta Frezza al convegno su Guareschi

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Renovatio 21 pubblica un brano dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Guareschi l’attualità di un genio multiforme» tenutasi sabato 6 aprile presso Palazzo Gambacorti a Pisa.

 

Mille cose si potrebbero dire sull’argomento. Ma conviene partire dalle quattro paginette intitolate «La rivoluzione d’ottobre» inserite del Corrierino delle Famiglie.

 

Da padre di famiglia, Guareschi si era fatto una idea ben precisa della scuola di Stato. E se vogliamo fare un tuffo nell’attualità – intendo proprio nel qui e ora – dobbiamo rileggere quel racconto. 

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La Pasionaria era già pronta per uscire: si sedette con molta serietà sull’angolo del divano.

 

– Me aspetto – disse.

 

Mi alzai e, agguantata la giacchetta, me la infilai.

 

– Sono pronto anche io – risposi avviandomi verso la porta. Ma la Pasionaria non si alzò e, quando fui sul pianerottolo e non la vidi arrivare, tornai sui miei passi e trovai la Pasionaria ancora seduta dignitosamente sull’angolo del divano.

– E allora? – domandai.

 

– La barba – rispose la Pasionaria senza scomporsi.

 

Ora bisogna considerare che io, nato nel cuore dell’Emilia, terra di grandi passioni, sono un impulsivo e così, spesso mi accorgo di aver detto cose che non ho avuto il tempo di pensare. Davanti a quella assurda pretesa, mi ribellai con irruenza. 

 

– Tua madre mi ha conosciuto che avevo la barba lunga, mi ha sposato che avevo la barba lunga e non si è mai sognata neppure che io, per uscire con lei, dovessi farmi la barba. Chi sei tu che avanzi simili pretese?

 

– Io sono me – rispose calma, quasi gelida, la Pasionaria.

 

Andai a farmi la barba. Poi dovetti cambiarmi anche la giacca e i calzoni e spolverarmi le scarpe: ma feci tutto ciò con tale aria di superiorità e di disgusto che, se non ha la pelle di rinoceronte, la Pasionaria deve averlo capito perfettamente.

 

Camminammo in silenzio per le strade del dolce autunno milanese e ben presto arrivammo dove dovevamo arrivare. Nel piazzale davanti alla scuola c’era gente: mamme, babbi, bambini, bambine e bidelli come nelle prime pagine di Cuore: e io ripensai all’altra volta, quando avevo portato nello stesso piazzale Albertino e poi lo avevo abbandonato ed egli era scomparso nella mandria, come un mattone nel muro. 

 

Io sentivo nella mia mano la piccola mano tiepida della Pasionaria e vedevo le mamme ed i bimbi ed i babbi, ma non respiravo l’aria di Cuore e non pensavo alle paroline zuccherate di Edmondo De Amicis. 


Avevo la bocca piena di parole amare e le masticavo a bocca chiusa e le mandavo giù, una per una, e molte mi si fermavano in gola. Ancora una volta dunque sta per avvenire il sopruso e io dovrò lasciare la tua mano, Pasionaria, e tu andrai ad incunearti nel buchino rimasto aperto nel muro. 
Dunque addio anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita dello Stato. 


Ti insegneranno l’ipocrisia statale e i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero
Adios, Pasionaria.

 

Anche questa volta, come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro dello Stato.

 

Adios, Pasionaria!

 

Io, un tempo, quando sfogliavo le vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la spiegazione de Le nostre pagine a colori, e mi facevano pena le donnette dei lontani paesi del mezzogiorno che si mettevano in rivoluzione per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i medici governativi emissari di chi sa mai quale paurosa centrale di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano dal sopruso dello Stato.

 

È un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge, inocula il benefico vaccino nel braccino di vostro figlio, è una zanna del gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima.

 

Adios, Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti sacrificherò al dio crudele creato dalla gente che non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue Eterne Leggi.

 

Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci avvince nella matassa ormai inestricabile delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria

 

E io che mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì governativo.

 

Quale tempesta nel tenero cranio di un povero borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso ha contribuito a creare e che egli stesso alimenta, togliendosi il pane di bocca.

 

Adios, Pasionaria.

 

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Ormai le squadre si erano composte e le mamme e i padri si erano ritirati in mezzo al piazzale e i bambini erano rimasti tutti soli, addossati al muro della scuola.

 

Mancava soltanto la Pasionaria ed io allentai le dita. 

 

In quel momento le porte si aprirono ed i bambini cominciarono ad entrare.

 

Un tassì era fermo all’angolo: lo raggiunsi di corsa e, spalancato lo sportello, mi buttai dentro come un sacco di patate. 

 

La macchina partì di gran carriera e navigò per le strade di Milano e puntò verso la periferia. E, quando fu davanti all’acqua azzurra dell’Idroscalo, la macchina si fermò e noi scendemmo.

 

Dico “scendemmo” perché la Pasionaria era con me.

 

La Pasionaria era col ribelle. I viali attorno al laghetto erano pieni di sole e deserti e ci divertimmo parecchio. 

 

Ma io pensavo che a casa ci aspettava lo Stato: Margherita. 

 

E questo mi amareggiò il divertimento. E quando a mezzogiorno tornammo, Margherita domandò alla Pasionaria com’era andata e la Pasionaria rispose che era andato tutto bene, che la signora maestra era buona, eccetera eccetera.

 

Poi mi guardò strizzandomi l’occhio perché si era stabilito che lei avrebbe dovuto dire questo e quest’altro, e così, con una strizzatina d’occhio, finì la mia rivoluzione d’ottobre.

 

La scuola è il luogo in cui chi, pro tempore, pilota l’imbarcazione (il kybernètes, il timoniere) e pensa per questo di essere onnipotente, può mettere le mani sul futuro, materialmente. Può plasmare un materiale umano sterminato e metterlo in forma secondo le proprie esigenze e secondo la propria idea di come debba girare il mondo.

 

E così può sfornare, pronta per l’uso, manovalanza uguale e obbediente riducendo all’osso gli errori di sistema (cioè, i «ribelli» dell’idroscalo che si ostinano a pensare propri pensieri). «Ti insegneranno l’ipocrisia statale e anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero…sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria». 

 

Materialmente, dicevamo. Abbiamo fresco il ricordo del biennio pandemico in cui la scuola è stata un laboratorio nel laboratorio (l’UNESCO lo ha definito «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»). Sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità e di morbosa creatività rimasto ineguagliato nel panorama internazionale.

 

Ricordiamo i rituali delle abluzioni col disinfettante; i sensi unici alternati nei corridoi; le misurazioni col metro tra le rime buccali; la quarantena dei fogli e la disinfestazione del materiale scolastico; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; ricordiamo le stanze di isolamento se uno starnutiva.

 

Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario, tra l’altro in fase di sperimentazione, puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, puoi frequentare l’università e la biblioteca. 

 

Tutto questo ha consentito, sempre non a caso, di raggiungere in tempi compressi, in unica soluzione, traguardi insperati. 

 

Quell’esperimento ha sortito cioè, come da programma, un effetto catapulta: certamente sulla strada della digitalizzazione secondo i desiderata di Big Tech («se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas»), ma anche sulla strada della medicalizzazione e psichiatrizzazione pervasive. 

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Ora, questa è la scuola del mondo grande, quello, per dire, in scala 1 a 1. Qualitativamente, non è cambiata di una virgola. 

 

Conversando di giovani e vecchi, con Gio’ (al secolo Gioconda Cicòn, la domestica di casa, «che ragiona a modo suo e non si sa mai dove può arrivare») Margherita dice: «Giovannino, non mi pare una novità: È la lotta che dura da quando è nato il mondo. È la dura legge umana: i giovani sentono come loro primo dovere quello di seppellire i vecchi». «Sì Margherita» risponde Giovannino «Ma ora la faccenda è degenerata perché i giovani cercano di seppellirci mentre siamo ancora vivi». «Giovannino, la colpa non è dei giovaniQuesta è l’era della forza nucleare, dei cervelli elettronici, della missilistica e del cosmo. Il tempo, adesso, lo si misura a millesimi di secondo e c’è in tutto una fretta maledetta». Interviene Gio’: «Senza contareche la forza atomica, i missili, l’elettronica e via discorrendo li avete inventati voi vecchi. Mi fanno ridere, questi vecchi che danno a noi giovani uno schioppo carico e poi pretenderebbero che noi si andasse a caccia con la fionda. Che inventano la Tv e poi si lamentano se ci divertiamo a guardarla…». 

 

Dunque, c’erano già persino i cervelli elettronici, e non occorre aggiungere nulla. Nemmeno sulla drammatica irresponsabilità degli adulti, sempre più infantilizzati, di fronte allo scempio che si consuma davanti ai loro occhi a una velocità supersonica. La fretta, «la fretta maledetta», è una componente decisiva del disegno.

 

Bene, in quella scuola, in questa scuola, bisogna andarci ben attrezzati (e l’attrezzatura, evidentemente, va messa a punto altrove) per poter affrontare il Leviatano che vuole trasformarti in una macchinetta assemblata con componenti di serie, con tutti i pezzettini al posto giusto, come vuole l’impresario. 

 

La complicità che nel racconto corre tra padre e figlia, quel germe di disobbedienza interiore, va sì innaffiato, ma va allo stesso tempo anche domato, perché sennò si rischia davvero la rivoluzione e non si sa dove si va a finire. Non è facile bilanciare i due stimoli, è un sottile lavoro di precisione che spetta a chi sta a casa. 

 

Anche perché l’opera indefessa di questo mostro, che semina nella scuola secondo i suoi bisogni per raccogliere la sua messe, si incrocia con quello della grande macchina mediatica, un altro tentacolo della stessa piovra, anch’essa descritta da Guareschi con la consueta efficacia. «Si sa: la gente ha fretta e non vuole complicazioni. Ogni giorno di più si disabitua a pensare, a ragionare, a leggere. Vuole che tutto sia semplificato, ridotto in pillole. Chiede cose già pensate, ridotte a slogan, facili da fissare nella memoria. Vuole soprattutto cose ridotte a immagini». 

 

E ancora: «La TV è il mezzo ideale per soddisfare le esigenze di questa gente frettolosa e superficiale e qui si annida il tremendo pericolo…può diventare un vero flagello…falsando la storia e la realtà, crea dei falsi eroi, dei falsi modelli di vita e determina nella massa sprovveduta quella confusione di valori e di idee che la trasformano in una vera “fabbrica dei cretini”».

 

La fabbrica funziona a pieno regime e a ciclo continuo, genera senza tregua il copione della fiction, della menzogna che ci viene propinata come verità non discutibile; alla quale la scuola si allinea fornendo idee prepensate, pacchetti ideologici preconfezionati (invece della cassetta degli attrezzi per formarsi un pensiero autonomo), addirittura finte proteste preorganizzate, con il loro corredo di slogan e di messaggi pubblicitari e servite pronte per accarezzare il desiderio di trasgressione che fisiologicamente alberga nei più giovani. La protesta basta inscatolarla, infiocchettarla e, in questo modo, disinnescarla, renderla del tutto inoffensiva.

 

Anzi, funzionale al consolidamento del sistema che si fa forte del falso pluralismo inscenato per le giovani masse a trazione mediatica. Abbiamo visto addirittura gli scioperi promossi e persino premiati dal ministero con note di encomio (e di demerito a chi non aderisce), in un cortocircuito logico nel quale si sono messi tutti a girare, come i criceti nella ruota. Senza minimamente accorgersi di prestarsi come carne da cannone a favore di chi amministra il teatrino e si gode dall’alto l’obbedienza dei burattini. 

 

I «cervelli elettronici» di cui diceva Margherita oggi si sono paurosamente evoluti dal punto di vista tecnologico, e stanno conquistando un territorio sempre più esteso, con il correlativo ritiro delle funzioni cerebrali organiche, sempre più atrofiche. La scuola 4.0 in via di rapidissimo allestimento non è altro che una immensa sala giochi in cui la tempesta di immagini (di fantasmi), sostituisce lo studio delle leggi della realtà. E la scuola 4.0 sarà, come da programma, l’apoteosi della fabbrica dei cretini.

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Intanto i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini e vuoti di parole, e le poche parole, appunto, sono ridotte a slogan; ma senza la parola non c’è ragionamento e nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie, parziali, ideologiche, imposte dall’esterno, per imparare ad abbracciare il reale e a interpretarlo da sé. 

 

E a proposito di parole: le riforme scolastiche – e quindi gli atti amministrativi e, a pioggia, tutte le scartoffie che viaggiano nei labirinti della burocrazia scolastica – parlano inglese. Sono intrisi di formulette globish tratte dalla pedagogia anglosassone (infatti si ispirano a modelli pedagogici già sperimentati oltreoceano, e già lì rivelatisi fallimentari: un bizzarro paradosso), impastate insieme a uno pseudo italiano di rara bruttezza, fatto di stilemi stereotipati, tanto orecchiabili quanto tossici.

 

Il linguaggio, si sa, è uno strumento impareggiabile per fabbricare incantesimi e ricreare la realtà. Il mondo della scuola, sempre non a caso, batte una lingua parallela, una lingua barbara, coniata apposta per adulterare il senso stesso dell’istituzione. 

 

Questo la dice lunga sul degrado, prima ancora che culturale, estetico, che ha investito la scuola. E sulla colonizzazione culturale che, anche per questa via, ci stiamo gioiosamente autoinfliggendo. Diceva Elémire Zolla negli anni Sessanta del Novecento, con un adagio folgorante: «come macilenti gatti di periferia, gli italiani si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

Sull’aspetto della colonizzazione culturale, in quegli anni anche Guareschi ci aveva anticipato qualcosa. Egli parla del 1945 come della «seconda scoperta dell’America». E dice che «Prima della seconda scoperta dell’America era difficile vivere perché ci assillavano, in gran numero, dubbi e incertezze».

 

Adesso, tutto è diventato straordinariamente facile, avendo l’America posto generosamente a nostra disposizione, attraverso il famoso “piano Marshall”, una completa gamma di test che ci permette di trovare una risposta precisa a qualsiasi interrogativo. 

 

Ogni problema di qualche importanza è stato accuratamente studiato dagli americani. Tecnici di tutti i settori dell’industria, del commercio e della scienza, psichiatri, psicologi, psicanalisti, cardiologi, oculisti, otorinolaringoiatri, esperti di public relation e via discorrendo, hanno affrontato di petto i vari problemi, sezionandoli e analizzandone ogni possibile aspetto, sì da poter trasformare la massiccia questione in tante questioncelle parziali, di facile soluzione…Il concetto è chiaro: sezionando il problema in tanti piccoli, facili, elementari quesiti, per avere una risposta sicura a un qualsiasi] interrogativo, basterà rispondere alle varie domandine. 

 

In pratica la cosa è ancora più semplice perché l’interessato si limita a tracciare una crocetta a fianco della risposta già stampata nel test. Poi, tenendo presente che ogni risposta di serie A vale 1, ogni risposta di serie B vale 2 e ogni risposta di serie C vale 3, si passa a fare la somma…

 

Sono un guidatore d’automobile buono, mediocre o pessimo? Sono estroverso o introverso? Il mestiere che faccio è quello giusto? Ho fiducia in una giustizia superiore? Ecc. ecc.

 

Gli americani hanno pensato a tutto e, per ogni dubbio, per ogni incertezza, per ogni nobile desiderio d’approfondire la conoscenza di se stessi, c’è un test, risolto il quale non possono più sussistere dubbi e incertezze».

 

Oggi la docimologia della crocetta si è impadronita a pieno titolo della scuola e dell’università (che va a crocette) e così gli studenti vengono valutati, ma vengono anche schedati e incanalati sempre più precocemente nell’imbuto di una carriera decisa in base a ciò che stabiliscono i responsi degli oracoli algoritmici, quelli che leggono crocette e predicono futuri, e predicendoli li condizionano, li predeterminano: INVALSI è precisamente questa roba qua: è la nuova Pizia che, dal suo impenetrabile onfalòs, predice i destini e preimposta le vite, in modo incontrollabile e insindacabile da parte umana. E così ingabbia ciascuno, fin da piccolo, nella propria stia.

 

Eppure, in un mondo sensato, la scuola sarebbe una cosa così facile, persino banale, da realizzare, se solo ci fosse la volontà e non prevalessero interessi egemonici alieni. 

 

Alla scuola spetta l’esclusiva di un compito specifico e indispensabile in una compagine sociale, un compito che altrimenti nessun altro fa: quello di alfabetizzare (è infatti attraverso il segno che l’uomo lascia traccia, fissa il suo messaggio e lo tramanda), e di trasmettere la conoscenza (con particolare riguardo agli invarianti, alle conoscenze che hanno resistito alla prova del tempo); di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono strumenti di comprensione della realtà. 

 

E lo dovrebbe fare stando al riparo dai venti delle mode, dal magma della attualità e delle suggestioni mediatiche, dai flussi emotivi e dagli slogan corrivi della propaganda; ripartendo dalle radici del linguaggio e della scrittura (dal segno), ineludibili chiavi di accesso all’imponente deposito di scienza, arte, letteratura, che – attenzione! – non va ascritto alla categoria del passato sic et simpliciter, ma a quella del durevole, dell’eterno.

 

Il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare è appunto quello di coltivare il linguaggio affinché tutti siano in grado di esprimersi, di ascoltare e di comprendere gli altri e così uscire dal proprio guscio autoreferenziale, superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente attraverso la conoscenza delle leggi che la regolano.

 

È solo così che la scuola può essere davvero vivaio e palestra di libertà, e restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prenderne le misure – vale a dire l’altezza, la profondità, la distanza: dimensioni dimenticate, insieme alla memoria – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. 

 

In una scuola che tornasse a essere scuola, l’opera di Guareschi sarebbe una straordinaria antologia, perché vi si ritrova l’uso magistrale della parola vera, mai adulterata o corrotta: della parola nel suo nitore sorgivo. Che è il contrario esatto della barbarie degli slogan. 

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Giorgio Agamben, rara avis in una accademia agonizzante e gregaria, fin dalle primissime battute del fenomeno pandemico ha saputo leggere gli accadimenti in controluce con grande lucidità e rigore giuridico (e infatti è stato subito isolato come fosse un appestato). Ha scritto una serie di brevi commenti di rara bellezza. Tra gli altri, Virgole e fiamme (giugno 2023).

 

«A un amico che gli parlava del bombardamento di Shangay da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: “So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangay non sarebbe bruciata”. Come sempre, lo scherzo nasconde qui una verità che vale la pena di ricordare. Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, tutti i popoli, come Scholem diceva per Israele, camminano oggi ciechi e sordi sull’abisso della loro lingua ed è possibile che questa lingua tradita si stia in qualche modo vendicando e che la vendetta sia tanto più spietata quanto più gli uomini l’hanno guastata e negletta. Ci rendiamo tutti più o meno lucidamente conto che la nostra lingua, [impoverita e devastata] si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà, fino al punto di non rendersi più conto di star mentendo. La verità di cui qui parliamo non è solo la corrispondenza tra discorso e fatti, ma, ancor prima di questa, la memoria dell’apostrofe che il linguaggio rivolge al bambino che proferisce commosso le sue prime parole. Uomini che hanno smarrito ogni ricordo di questo sommesso, esigente, amoroso richiamo sono letteralmente capaci, come abbiamo visto in questi ultimi anni, di qualsiasi scelleratezza. Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo tra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci».

 

Mondopiccolo – inteso qui in senso lato, cioè non solo «quella fettaccia di terra che sta tra il fiume e il monte», ma un po’ tutto il mondo creato dalla penna di Guareschi, quel mondo nel quale le storie zampillano così, in natura (non sono altro – ci dice l’autore – che «fatti di cronaca inventati che alla fine riescono molto più verosimili di quelli veri» o, altrove, «gesta che sanno di omerico e di fanciullesco insieme»), è un piccolo mondo a misura di bambino, che però contiene in sé, e custodisce, il respiro dell’universale. Dove ogni cosa è messa al suo posto e, se non lo era, alla fine ci torna. 

 

Questo mondo è costruito con persone vere, animali veri, cose vere che un bambino è in grado di vedere coi suoi occhi fin dentro la loro anima: perché anche i cani (Amleto, Gringo, Ful), anche i fiumi e le campane in quel mondo hanno un’anima; ed è raccontato con parole che un bambino è in grado di capire al volo, senza bisogno di un traduttore.

 

Questo mondo un bambino, un ragazzino, lo manda giù dritto. E lo trattiene inciso nella sua memoria immunitaria. Anche quando commuove – e succede molto spesso proprio perché tocca le corde più profonde – mai induce alla tristezza, men che meno alla disperazione. Semmai, fa sentire più vicino il cielo, lo fa scendere alla nostra altezza. Persino la drammatica esperienza concentrazionaria, su cui tanti hanno scritto tante pagine cupe, viene resa in una chiave nuova perché piena di speranza.

 

In Diario Clandestino, dedicato «ai miei compagni che non tornarono», Guareschi racconta come, rimasto solo «con le cose che avevo dentro», ha scavato e scavato fino a che è riuscito a «ritrovare un prezioso amico: me stesso». Il traguardo di una vita.

 

Le opere di Guareschi hanno gli ingredienti giusti per essere un buon cibo per tutte le età, capace di rilasciare per ogni età i nutrienti più adatti. Ma se si ha la fortuna di entrare in contatto con lui da bambini, gli si diventa amici e poi vi si ritrova una casa per il resto della vita, quando si ha voglia o bisogno di respirare profumo di pulito. 

 

Rilascia ricordi, rilascia archetipi. Le battute penetrano nel lessico famigliare. Ma soprattutto, lì dentro si respira la fede, quella che cova dentro il cuore, per un Dio creatore e padre che governa le cose e alla fine in qualche modo le mette tutto al loro posto. Al tempo stesso, alla scuola di Guareschi, uno non può venire su bigotto o clericale, il che è una garanzia oggettivamente impagabile.

 

Il messaggio straordinario lasciato ai posteri da Guareschi sta infatti condensato in quel passo di «Don Camillo e don Chichì» in cui don Camillo, angustiato per il mondo che corre rapido verso la propria autodistruzione e per l’uomo che sta dissipando il patrimonio spirituale che in migliaia di anni aveva accumulato, chiede al Cristo cosa noi possiamo fare. E il Cristo, sorridendo (e anche quel sorriso ha il suo perché, perché conforta, e ci fa capire che non ha proprio senso agitarsi tanto, ma bisogna concentrarsi sull’essenziale e affidarsi a chi può buttare tutto all’aria muovendo «l’ultima falange del mignolo della mano sinistra»), gli spiega che ciò che dobbiamo fare è una cosa soltanto, ovvero «ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme».

 

Perché «quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza…». (…)

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Scuola

Scuola: puerocentrismo, tecnocentrismo verso la «società senza contatto». Intervento di Elisabetta Frezza al convegno di Asimmetrie.

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Euro Mercati Democrazia di Asimmetrie   Da questa stessa postazione parlavo di Scuola qualche anno fa, in particolare nel 2020 (quando il tema del convegno era «Il conformismo») e nel decennale del Goofy del 2021, allorché si dibatteva de «Lo stato delle cose».   Aggiungerei oggi qualche nota a margine (ci sarebbe davvero tanto tanto da dire!), e credo che questa postilla si possa a buon diritto intitolare: Quod Erat Demonstrandum. Perché?   Perché i pezzi che sono saltati fuori dalla pregressa disamina – cioè vivisezionando il pachiderma pedoburocratico così come uscito, geneticamente modificato, da trent’anni e più di riforme affastellate l’una sull’altra (ogni ministro ha aggiunto il proprio ingrediente alla mappazza cucinata dai predecessori) – si sono rivelati ex post delle formidabili «ventose» sulle quali far aderire la coltre digitale. Concepita per essere impermeabile: per soffocare definitivamente conoscenza, cultura e umanità. E per tarpare tutte le ali di chi, appunto, dovrebbe imparare a volare.    Il riformatore seriale (il singolare è voluto, perché, a prescindere dal colore politico dei governi che le hanno varate, tutte le riforme hanno corrisposto a un’unica mens), ci ha fatto familiarizzare con un mucchio di trovate in apparenza neutre, innocue – anzi, in apparenza pure buone, semplicemente perché nuove – tipo (cito alla rinfusa): orientamento (in entrata, in uscita, in tutte le salse), cittadinanza digitale, nuova educazione civica, registro elettronico, curriculum dello studente, e-portfolio; INVALSI e la galassia di sigle infestanti tra cui CLIL; PCTO; STEM; e poi BES, DSA, DAA; PDP, PEI, PFI; UDA. Una fonetica grottesca che chi vive la scuola è costretto a lallare ogni giorno.    Questo armamentario lussureggiante risponde a una metafisica distillata in un repertorio di dogmi «gentili» che suonano bene e infatti piacciono tanto – cosa che peraltro li rende difficilmente contestabili. Degli assoluti che stanno lassù, nell’iperuranio scolastico, e sono: «inclusione», «benessere dello studente», «personalizzazione didattica», «successo formativo». Riposano tutti su un’idea di fondo suggestiva e attraente, ovvero che la scuola vada ritagliata, come un abito su misura, addosso a ogni singolo alunno, il quale è sovrano e protagonista della propria formazione.   Tutto deve ruotare intorno a lui, sul presupposto che egli sia capace da solo di dare forma a se stesso assecondando le proprie pulsioni e i propri ritmi, e abbia bisogno soltanto di un ambiente attrezzato, possibilmente ludico, e di un badante-animatore al suo fianco posto al servizio del suo «stare bene»: l’insegnante viene così derubricato a satellite dello scolaro, a facilitatore, e il suo ruolo centrale, fondamentalissimo, di promotore del sapere, è marginalizzato, ridotto alla dimensione protocollare e burocratizzato. Pronto, a quel punto, per la sostituzione con l’assistente virtuale

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Si chiama «puerocentrismo» ed è il cuore di quella cosiddetta «pedagogia progressiva» – detta anche «didattica attiva» – che ha il suo nucleo teorico originario in J. J. Rousseau e nel suo Emilio (1762) e che poi, a partire dal secolo successivo, ha tratto nuova linfa facendo il giro largo per gli USA dove (con Dewey, Kilpatrick, etc.) si è guarnita di vari orpelli ma, soprattutto, è stata applicata in corpore vili su larga scala nel sistema scolastico preuniversitario (1)    Benché oltreoceano abbia provocato un innegabile – e infatti non negato (2) – disastro sul piano cognitivo e culturale, il pacchetto completo è stato infine entusiasticamente reimportato nelle colonie in groppa, oltre che alla metafisica di cui sopra, a tutt’un prontuario di stilemi angloaziendali che ne rappresenta il marchio di fabbrica e che ha attecchito in Italia fin dentro il lessico delle leggi e della burocrazia, sulla spinta da un lato della fascinazione per il nuovo (di nome ma non di fatto, visto che è roba vecchia di secoli e rimasticata), dall’altro della estero(anglo)-filia radicata al punto da indurci a masochisticamente cibarci dei rifiuti altrui, facendo finta che siano prelibatezze.   Il regime concorrenziale scatenato dalla «autonomia scolastica» (legge Bassanini 59/1997) ha fatto da volano allo strumentario d’importazione e lo ha amplificato fino al parossismo nella frenetica rincorsa dei singoli istituti ai finanziamenti, alle iscrizioni, al procacciamento di clientela mediante le attrazioni esibite nei PTOF.    Il modello pedagogico puerocentrico ha programmaticamente smantellato la didattica trasmissiva classica fondata – come dice il nome – sulla trasmissione delle conoscenze nelle diverse discipline di studio, ciascuna delle quali possiede un proprio statuto epistemologico.    Enfatizza il metodo a scapito dei contenuti, per cui la conoscenza accumulata, la cultura ereditata, tutto ciò che ci parla dal passato, è visto come una zavorra da cui emanciparsi; quanto richieda un minimo di esercizio intellettuale (e anche fisico: come tipicamente la scrittura a mano) e di sforzo attentivo/mnemonico/raziocinante è ascritto alla fattispecie della tortura e bandito, perché domina la fede che il puer vada intrattenuto, divertito, gratificato.    Come dicevamo, inoltre, si ipostatizza l’ambiente: si capisce allora come oggi questo ambiente, proprio per stare al passo con i tempi, debba essere integralmente ristrutturato in modalità digitale. Ed ecco spuntare l’ambiente on life (con un simpatico calco orwelliano della locuzione on line, che assume ufficialmente la preminenza sulla dimensione della realtà), detto anche «eduverso» o, ammiccando alla retorica green, «ecosistema di apprendimento».   La metamorfosi tecnoambientale cui stiamo assistendo non è altro, quindi, che il precipitato di quella pedagogia – di quella «religione» – predicata e liturgicamente celebrata da una casta di bramini – gli «esperti», i conoscitori delle leggi interiori ai quali tutti debbono inchinarsi – che ha fornito il supporto teorico, si può dire «mistico», al sovvertimento del senso stesso della scuola: non per nulla lo spostamento del baricentro dal docente al discente – dalle discipline all’ambiente, dalla cultura alla natura, dalle lezioni cosiddette frontali ai laboratori interattivi – è presentato come «rivoluzione copernicana» e vidimato col timbro della scientificità.

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Un timbro farlocco, ma pur sempre munito di una potente carica intimidatoria, tant’è che la più parte dei docenti ha sviluppato verso questa pseudo-scienza e verso i suoi sacerdoti un malcelato complesso di inferiorità, e accetta supinamente, in una postura di sudditanza quando non in modalità suicidaria, dei veri e propri rituali di auto-umiliazione.    Basti vedere come è strutturata oggi la formazione dei docenti e i corsi mortificanti che sono loro inflitti. Basti vedere come è concepito il loro stesso sistema di reclutamento: oggi non si seleziona più in base alla preparazione nelle rispettive materie di pertinenza, la selezione è completamente svincolata dalle discipline.   Come scrive Enrico Rebuffat, «nei concorsi pubblici per la scuola, la prova scritta è sempre stata disciplinare: concorrevi per matematica, il tuo scritto concerneva la matematica; partecipavi per filosofia, il tuo scritto era una prova di filosofia. Pareva logico, pareva naturale. Oggi, con i concorsi “PNRR” 2023 e 2024, non più. La prova scritta, adesso, non è disciplinare nel preciso senso che non ha nulla a che fare con la disciplina per cui il candidato concorre». Essa consiste in un quiz di 50 domande a risposta multipla, estratte da un database unico per tutte le classi di concorso, da sostenere al computer e così strutturato: 10 quesiti di ambito pedagogico; 15 quesiti di ambito psicopedagogico; 15 quesiti di ambito metodologico-didattico; 5 quesiti sulla conoscenza della lingua inglese al livello B2; 5 quesiti sulle competenze digitali» (3).    Ne discende che può benissimo spuntarla l’ignorante chi si è ricordato, o ha azzeccato a caso, il nome di un software, o il cognome di un pedagogista, o il numero di una circolare sull’inclusione, e rimanere al palo il candidato preparatissimo nella sua materia che ha piazzato la croce nella casella sbagliata. «Il che – conclude Rebuffat – sarà forse moderno e innovativo, ma di sicuro è semplicemente assurdo».    Assurdo sì, ma per nulla casuale: questa procedura stravagante non può che garantire, come effetto solo apparentemente collaterale, il tracollo di qualità di un corpo insegnante già in buona parte squalificatosi da sé o perché incapace, o perché rassegnato e obbediente a un sistema in cui tutto deve essere intermediato, proceduralizzato, de-teorizzato e despiritualizzato, svuotato dell’essenza: il grosso del lavoro è già stato fatto e proprio per questo ora bisogna eliminare capillarmente e con ogni mezzo, se necessario anche attraverso la repressione, qualsiasi residua velleità di insegnare davvero e di instaurare con gli allievi un rapporto fecondo finalizzato alla tradizione della conoscenza.    Del resto, era l’estate del 2022 quando l’allora ministro Bianchi, al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia, usò un verbo eloquente che sollevò pure qualche polemica: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro a un insegnamento adeguato al futuro digitale».   Dunque, attraverso tante vie convergenti, tutte sempre lastricate di belle parole, la scuola ha potuto trasformarsi nel luogo elettivo di propagazione dell’ignoranza e, insieme, in un succulento terreno di conquista per piazzisti, imbonitori e predatori di ogni risma. Perché, se la si svuota della sostanza culturale durevole, solida, cementata nel tempo – a partire dal primo elemento costitutivo, «atomico», di questa sostanza, ovvero il linguaggio (che è simbolo: anche la matematica è un linguaggio) – allora lo spazio che si crea può essere riempito con ciarpame assortito: progetti, attività, effetti speciali; millemila «educazioni» (sessuale, affettiva, alimentare, sanitaria, stradale…).    Ma cosa sono queste educazioni? Sono variopinte catechesi su contenuti pre-pensati e prescrittivi (vedi Agenda 2030) con la funzione di introiettare, nel vuoto pneumatico, pseudo-valori moraleggianti, schemi comportamentali conformi, automatismi mentali senza pensiero trasportati da slogan che riproducono i codici linguistici e i suoni ritmati della grancassa mediatica.    In modo che il rumore sia sempre lo stesso dappertutto, fuori e dentro la scuola. Scrive Giovanni Carosotti: «Un tempo la scuola faceva argine agli atteggiamenti anti-culturali, impediva ad essi e al linguaggio in cui si manifestavano di essere legittimati nella sfera “alta” del sapere. Oggi, invece, paradossalmente, è chiesto agli stessi docenti di adeguarsi a quelle forme espressive» (4).   Il colpo da maestro è che a rottamare la conoscenza sono chiamati proprio coloro che, per mandato professionale se non proprio per vocazione, dovrebbero insegnarla – e il dramma è che i più questo compito se lo intestano felici.   Ma, oltre all’imbarbarimento ubiquo, oltre all’istituzionalizzazione dell’abbruttimento, questa sostituzione di contenuti (un aliud pro alio) provoca un’altra conseguenza di non poco conto: che chi, eventualmente, canti fuori da quello spartito unico – magari perché pensa – può essere ufficialmente ritenuto un deviato. La scuola presentata al pubblico come regno dell’«inclusione», in realtà è esclusiva nel senso deteriore del termine. Perché quando l’alfabetizzazione, l’istruzione, il contegno teoretico sono messi da parte, quando i saperi si dissolvono lasciando il posto a frammenti comportamentali che ossessivamente rincorrono la propaganda, allora si genera un inquietante fenomeno di clonazione cerebrale collettiva e si imbocca una preoccupante deriva autoritaria.    Gli effetti concreti della diffusione nelle scuole italiane di questa ricetta esotica sono notevoli.   Sempre più scolari approdano alle superiori senza saper impugnare una penna, senza saper scrivere in corsivo, senza essere in grado di articolare una frase minima grammaticalmente corretta e munita di senso compiuto; di comprendere il significato di parole eccedenti un corredo sempre più misero, e sempre più squallido. Non sanno afferrare periodi complessi; usare modi verbali diversi dall’indicativo e tempi diversi da presente o passato prossimo; distinguere un soggetto da un predicato, un aggettivo da un pronome; virgole e punti sparsi a sentimento, i due punti e i punti e virgola caduti in desuetudine.    Non sanno dare una struttura ai propri discorsi, e prima ancora ai propri i pensieri. Sono di fatto condannati al mutismo e alla sordità, con tutta la frustrazione che questo comporta, perché la comunicazione con i propri simili resta anchilosata nella brachilogia e nella iconografia dei social.   L’italiano letterario è diventato una lingua straniera, la geografia e la storia sono ufficialmente abolite, la matematica non va oltre i test a crocette. Prova ne sia che solo una piccola percentuale di matricole all’università, in una prova propedeutica all’esame di analisi matematica, si è dimostrata in grado di risolvere problemi di aritmetica tratti dai libri di quarta elementare del secolo scorso. Prova ne sia che comporre un testo scritto organico e coerente, senza svarioni di ortografia o di sintassi e con una punteggiatura sensata, è sovente un’impresa ardua per un laureato in lettere o in giurisprudenza.   Non che certe carenze – sarebbe più appropriato definirle voragini – inibiscano il taglio di traguardi formalmente ambiziosi, no. Un diploma non si nega a nessuno, in nome di quel dogma, del «successo formativo», che per essere rispettato si è dovuto tramutare in diritto: il degrado della scuola intesa come luogo di formazione culturale e umana va a braccetto, in una dinamica solo in apparenza paradossale, con un tripudio di titoli appariscenti. Il diritto all’istruzione, oggi, ha il significato di diritto a un diploma (e il diploma è una patacca), non certo a un percorso di studi serio e qualificante. 

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E qui si annida un altro paradosso: mentre si cavalcano pretese esigenze di svecchiamento, di inclusività e di egualitarismo avverso una tradizione educativa etichettata come elitaria, discriminatoria, obsoleta, si oscura un’evidenza che tanto bene esprimeva Gramsci quando nei suoi Quaderni definiva il progressismo pedagogico un mezzo di conservazione dello status quo funzionale alla divisione della società in caste. Il perché è chiaro: esso rompe l’ascensore sociale che dovrebbe essere compito primario, essenziale, della scuola pubblica far funzionare.    Elemento chiave di questa inarrestabile agonia della scuola è il mito della «personalizzazione», il cui potenziale distruttivo si disvela oggi pienamente – come vedremo – a contatto con la cosiddetta transizione digitale.   A proposito di personalizzazione, è opportuno aprire una breve parentesi sui bisogni educativi speciali (BES in acronimo), che stanno alla base dei piani didattici personalizzati. Quello dei BES è un universo molto frastagliato. A parte le disabilità vere e proprie, disciplinate dalla legge 104/92, lo spettro dei BES va dai DSA (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia), alle sindromi d’ansia, all’iperattività, al deficit di attenzione, agli svantaggi linguistici, sociali o economici, eccetera: fatto sta che tutte queste situazioni, tra loro molto eterogenee, sono suscettibili di essere certificate e, sulla base della certificazione, di dare luogo a percorsi scolastici personalizzati.   La legge 170/2010 con i DSA ha creato un concetto equivoco: dice che essi si manifestano «in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali», epperò sono denominati «disturbi» e devono essere «diagnosticati» (o dal SSN o, eventualmente, da strutture o specialisti accreditati, a pagamento).   La diagnosi dà diritto a due ordini di misure: quelle cosiddette «dispensative», con cui si semplificano i programmi per alleggerire un carico giudicato nel caso specifico troppo gravoso; e quelle «compensative», che consistono nel fornire dei supporti per compensare le prestazioni carenti (per lo più supporti tecnologici: ad esempio calcolatrice per i discalculici, tablet per i disgrafici, smartpen per i dislessici, e poi app per sintesi vocali, software per costruire mappe concettuali, schemi, formulari).    Ciò che qui interessa rilevare è come il fenomeno delle certificazioni (e dei piani personalizzati che ne scaturiscono) sia andato via via gonfiandosi fino a esplodere, addirittura ribaltando il rapporto da regola a eccezione: sono sempre di più le classi in cui gli alunni certificati e muniti di un programma individuale sono diventati la maggioranza, alcune volte la totalità. Insomma, è nata una moda e, con essa, un floridissimo commercio di certificazioni ormai in buona parte standardizzate – perché una diagnosi non si nega a nessuno – che non di rado pasce piccoli despoti alle cui spalle stanno famiglie disposte a tutto pur di facilitarsi la vita assicurando al figlio un carico di lavoro alleggerito, interrogazioni pianificate, promozioni in scioltezza.    È strano? No, non è strano. È conseguente al (dis)ordine delle cose.   Il dettato della legge 170, con la sua ambiguità, lascia ampio margine alla fantasia e quindi all’arbitrio. E l’arbitrio galoppa proprio perché si è incistata nella mente del genitore collettivo e del docente collettivo l’idea che, siccome la scuola va personalizzata addosso allo studente, è necessario e giusto metterlo sotto la lente di ingrandimento dell’esperto per scovare i suoi (presunti) limiti, che vanno fotografati in una certa fase (a caso) della sua crescita, e congelati, tipizzati, medicalizzati; sul presupposto (che è un presupposto apodittico: tra le righe lo ammette lo stesso ISS) che qualsiasi peculiarità (o «divergenza», come piace chiamarla) abbia una eziologia organica, una base genetica, e quindi un che di connaturato.   Ciò spesso porta sia a trascurare la ricerca di possibili altre cause o concause dello svantaggio, che magari è risolvibile altrimenti, sia a oscurare un fatto notorio: che il cervello è un organo plastico capace, attraverso stimoli appropriati, di modellarsi e ristrutturarsi, anche se anziano. Figuriamoci in giovane età.    Epperò se un ostacolo, invece che qualcosa da superare mettendo in campo tutte le proprie migliori risorse, diventa per principio qualcosa da rimuovere onde evitare sforzi e frustrazioni, il rischio in agguato è che i punti deboli di quel soggetto in crescita si cristallizzino, si cronicizzino (ora per giunta restino fissati nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non adeguatamente stimolate, si deprimano; che resti inchiodato ai suoi (supposti) limiti, mentre magari si sta solo accarezzando la sua incostanza, pigrizia, malavoglia (del tutto fisiologiche a quell’età!).    Non solo. Il trattamento su misura, o spacciato come tale, esaspera la frammentazione della classe – che invece è un micromondo integrato e dinamico, in cui nel tempo si prende e si dà, le velocità mutano e gli equilibri si riaggiustano – e così sgretola l’essenza stessa della scuola.   Provocatoriamente, Giorgio Israel aveva riformulato l’acronimo DSA in DSI, Disturbi Specifici di Insegnamento: se non si insegna più a tempo debito a scrivere, a leggere, a fare i conti, e non si raggiungono quelle abilità di base che, per svilupparsi, richiedono tecnica ed esercizio, parecchio e anche un po’ noioso (e c’è una precisa finestra temporale predisposta dalla natura per acquisirle), è abbastanza logico che si incrementino le fila dei disgrafici, disortografici, dislessici, discalculici.    Come si accennava, la personalizzazione, con la svolta terapeutica che le è collegata, è il gancio perfetto per le nuove tecnologie. Esse, come si è visto, sono copiosamente impiegate come supporti compensativi. Ma non solo. A supervedere e gestire il percorso dello studente – quello ipo-normo-iper-dotato (o suppostamente tale) – sarà ora l’intelligenza artificiale.    Ciò implica che tutta la messe di dati, metadati e anche psico-dati (perché, nel delirio tecnofideistico, si dà per assunto che pure i tratti caratteriali siano misurabili, matematizzabili, e quindi malleabili), tutto questo «bottino» venga dato in pasto alla megamacchina affinché essa segua algoritmicamente la biografia socio-cognitiva di ogni studente restituendogli il suo identikit digitale, e anche la sua proiezione futura: ogni fase del percorso, scolastico ed extrascolastico, viene scansionata e il file che ne esce alimenta un avatar destinato a seguirlo come un’ombra e a sostituire la sua identità: non sarai più tu ma il flusso di dati che produci a diventare rilevante, per esempio, in una domanda di accesso a un’università o di lavoro.    L’operazione è venduta come una occasione per poter «cucire addosso» a ciascuno interventi mirati che prevengano insuccessi o esaltino eccellenze. Come sempre, il veleno viene incartato dentro la caramella, in modo che il genitore si convinca che la radiografia precoce e continuata del figlio serva a farlo crescere meglio, in modo, appunto, personalizzato. E consegna felice le chiavi della propria casa, della propria vita e della propria intimità.   Agitare dentro lo stesso barattolo i due mantra, della personalizzazione e della digitalizzazione, sta generando mostri che non siamo più capaci di domare e che si materializzano ovunque intorno a noi, specie da quando l’agenda digitale – che pure affonda le sue radici lontano – ha subìto un’accelerazione furibonda col Piano scuola 4.0 apparecchiato grazie al laboratorio della pandemia.

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È stata l’emergenza sanitaria a rendere possibile un effetto catapulta, realizzando in unica soluzione un salto nella distopia che altrimenti avrebbe richiesto tempi ben più dilatati e, forse, avrebbe conosciuto qualche salutare intoppo. Perché la fretta ha il potere di azzerare il tempo della riflessione e nel paradigma dell’emergenzialismo per definizione non c’è spazio per la democrazia e le sue procedure.    Duccio Chiapello scrive: «Ci spacciano per destino un disegno di “transizione” della scuola, i cui veicoli ben conosciamo: il PNRR, la scuola 4.0 e tutti gli annessi e connessi digitali. Questi veicoli sono tutti presentati come “ultimi treni”: presto, salite a bordo, i fondi vanno spesi entro dicembre, i progetti vanno attivati entro marzo, gli esperti esterni devono intervenire entro maggio. Ci viene chiesto, in sostanza, di fare quello che normalmente non faremmo mai: saltare su un treno in partenza per il solo fatto che sta partendo, senza che la destinazione sia resa nota; dopodiché, nel corso del viaggio, ci viene continuamente intimato di gettare dal finestrino una parte sempre maggiore dei nostri bagagli – i contenuti disciplinari, le conoscenze, la cultura classica, il pensiero astratto – così da consentire al treno di procedere alla massima velocità» (5).   La pandemia è stata il movente di un esperimento psicosociale dalla durata indefinita – in quanto rimessa a decisioni sempre modificabili, e infatti di giorno in giorno modificatee quindi psicologicamente vissuta come permanente. Abbiamo assistito, a danno dei nostri figli, a un esercizio continuato di bullismo istituzionale che si è espresso in vessazioni variamente demenziali, ma ha avuto il suo cuore nell’isolamento sine die, pretesto per organizzare la transumanza di massa nella cosiddetta «società senza contatto».   Questo esperimento è stato devastante per i più giovani, sia sul piano psicofisico sia sul piano cognitivo. Ne sono usciti grandemente sofferenti, schiavi dei dispositivi informatici, arrugginiti e inselvaggiti, contenitori ambulanti di ordigni inesplosi: un corposo report dell’UNESCO (dell’UNESCO, non dei complottisti) pubblicato nel novembre 2023 (di 650 pagine) si intitola significativamente An ed tech tragedy   Ma lo si sapeva bene. Nel 2019, quindi ancora in era pre-COVID, la VII Commissione del Senato della Repubblica aveva congedato un documento – che lo stesso ministro Valditara allegò a una nota (prot. 107190) inviata a tutte le scuole italiane il 19 dicembre 2022 – dal titolo Sull’impatto del digitale negli studenti, con particolare riguardo ai processi di apprendimento, sintesi di letteratura ed esperienza consolidate. Dove si parlava dei danni fisici. Dei danni psicologici. Della perdita di facoltà mentali essenziali. Dove si affermava testualmente che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni. Perché inibisce sul nascere, o atrofizza, funzionalità biologiche radicate, esternalizzandole in un prolungamento artificiale del corpo, che funziona come una vera e propria protesi, tanto che privarsene è come subire l’amputazione di un arto; del resto, gli algoritmi sono programmati per adescare l’utente, catturarlo e tenerlo avvinto in ostaggio il più a lungo possibile – a conferma del fatto che questi aggeggi non sono «strumenti» e bisognerebbe smetterla di chiamarli così: perché allo strumento è coessenziale la nota della neutralità.   Infatti, nella relazione della Commissione si legge anche che essi hanno «le stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche della cocaina». Tant’è che nel mercato statunitense gira questa tavoletta inerte con le fattezze dell’iPad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico». Non è uno scherzo.    La scuola digitale in sfolgorante carriera non fa che fomentare questa dipendenza morbosa, la istituzionalizza, istigando i più giovani alla connessione perpetua e offrendo loro un alibi fisso per giustificarla. Che i dispositivi funzionino da idrovore di dati personali, da profilatori permanenti, da braccialetti elettronici per genitori elicottero e altri elicotteri non genitori, da spacciatori di spazzatura che fluttua sul web, pazienza: ciò che importa, evidentemente, è fare della scuola pubblica una sterminata mangiatoia per nutrire la più importante industria al mondo di estrazione di dati, EdTech: «se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas».    Una pletora di aziende private (che fanno capo a una manciata di colossi militar-industriali) si è assicurata la disponibilità di una immensa distesa di materiale umano da scrutare, da dare in pasto alle banche dati, da assoggettare agli automatismi degli algoritmi. E, grazie alla capillare attività di spionaggio, esse schedano gli spiati e ora predicono anche il loro destino, e lo fanno in modo del tutto opaco, non controllabile, non riproducibile – ovviamente, a proprio uso e consumo.    Si punta a influenzare il futuro dei soggetti in crescita affidandolo ai vaticini della Pizia sintetica ben sapendo – è noto dalla notte dei tempi – che le profezie tendono ad autoavverarsi (oggi lo chiamano anche «effetto pigmalione»): di fronte a un’etichetta appiccicata o a un oracolo sputato fuori dalla macchina che ha fatto il suo frullato di dati, uno si convince davvero di essere il tipo umano riportato sull’etichetta, o di dover diventare quell’altro stabilito dall’oracolo.    I test standardizzati INVALSI, quelli che erano stati presentati al pubblico come strumento anonimo di monitoraggio del sistema scolastico, si sono palesati come un appuntito mezzo di sorveglianza e di schedatura individuale, fino ad assumere un valore «predittivo e diagnostico». Nell’ingranaggio INVALSI è stato introdotto, per esempio, l’indicatore di fragilità: un bollino che viene assegnato, algoritmicamente e insindacabilmente, agli allievi che nei test non raggiungono livelli ritenuti adeguati, col pretesto che ciò consentirebbe di prevedere precocemente il rischio di abbandono scolastico. E INVALSI ora indaga, sempre algoritmicamente, anche le cosiddette competenze non cognitive (le soft skills: tipo amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale) – gli psicodati, appunto – sempre al fine di poter intervenire tempestivamente a manipolarli.    Ancora. A decorrere dall’anno scolastico 2023/2024, il curriculum del singolo studente è integrato nell’e-portfolio: una specie di scatola nera che ognuno, volente o nolente, si ritrova confezionata addosso, d’ufficio, e gli resta incollata ad vitam æternam. E che contiene le specifiche di tutta la sua carriera: carriera scolastica (voti, esiti di prove a crocette e altre prestazioni estemporanee, certificazioni varie, sentenze di orientamento pronunciate da uno che passa di là e che, siccome ha vinto alla lotteria il patentino di orientatore dopo alcune ore di corso on line, ha il potere di decidere della tua vita) e anche carriera extrascolastica.   Cioè, l’occhio del grande fratello non si accontenta di sorvegliarti a scuola, vuole sapere cosa fai anche nel tuo tempo libero che non è più libero, perché il fatto che entri anch’esso nel tuo curricolo digitale indelebile fatalmente condizionerà le tue scelte quotidiane sottraendole al motore umano della spontaneità e dell’intuito. Non solo: chi avrà i mezzi per farlo, acquisterà punti per il portfolio rimpinzandolo di viaggi, corsi, vacanze-studio, certificazioni linguistiche. A proposito di divisione in caste.   Intanto più giovani si assuefanno a subire una sorveglianza diacronica e ubiquitaria, al punto da assumere inconsapevoli automatismi comportamentali (una riflessione a parte la meriterebbe il monstrum del registro elettronico, presenza occhiuta e invadente che deresponsabilizza e falsa i rapporti tra l’alunno e la scuola, tra lui e la famiglia, tra la scuola e la famiglia). Si abituano a cedere passivamente i propri dati personali come corrispettivo di qualsiasi servizio. Hanno insomma interiorizzato una concezione carceraria dell’esistenza, nell’illusione – magistralmente alimentata con tanti specchietti per allodole – di essere sommamente liberi. Vivono dentro un panopticon ma non se ne rendono conto, realizzando appieno l’idea rousseauiana secondo la quale «non c’è assoggettamento più perfetto di quello che conserva le apparenze della libertà». 

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Dunque, per concludere. L’infrastruttura capillare (quella che appariva innocua) allestita lungo decenni di riforme mirate, serviva a due scopi concorrenti, e tra loro interdipendenti. Serviva: 1) a interrompere la catena di trasmissione del sapere togliendo di mezzo chi sappia e possa provvedere a mantenerla integra, e in tal modo a lasciar deteriorare, e morire, un tessuto culturale e spirituale più che due volte millenario, e 2) a fare incetta di informazioni di vita, di morte e di miracoli, su ciascun individuo, dall’asilo in poi, sulle sue prestazioni e le sue abitudini, i suoi profili caratteriali e le sue fragilità, in modo che tutto sia risucchiato e immortalato nel buco nero delle banche dati, a prescindere dalla volontà dei titolari. Quelli ai quali, peraltro, viene fatta una testa così sulla tutela della privacy.   Il puerocentrismo su cui emotivamente si fa perno, con straordinario successo di pubblico, si è rivelato la formula ideale per demolire ab imis il sistema della conoscenza; allo stesso tempo, a contatto con la tecnolatria, che è la superstizione del nostro tempo, si tramuta in un sinistro e fagocitante tecnocentrismo (6)   Già Mc Luhan, ne La luce e il mezzo ci diceva in tempi non sospetti, con stupefacente preveggenza, come l’uomo si stesse progressivamente autosostituendo con qualcosa di altro da sé. Oggi, il soggetto dell’apprendimento non è più l’uomo, è la macchina: il principio di utilità della tecnica si è ribaltato, in primis in scuola e università, in quello di utilità per la tecnica.   Le macchine aspirano tutto quello che trovano in giro, lo ruminano e lo risputano fuori, a caso, ottenendo in cambio dagli uomini cieca devozione. Gli uomini, dal canto loro, non più nutriti alle fonti della conoscenza, lasciati a rimbambire nelle sale giochi, crescono incolti e invertebrati. Privi delle risorse necessarie per padroneggiare le macchine, si autorelegano in una posizione di minorità, nella convinzione balorda, che è stata loro inculcata con metodo, che esse li surclassino per efficienza, oggettività di analisi, velocità di esecuzione. Fino a sottomettere se stessi e il proprio destino alle loro prestazioni e ai loro vaticini.   Ma se io uso l’algoritmo (cioè: consulto la Sibilla) per decretare se sarai un bravo studente e poi un lavoratore di successo, oppure un asino per sempre, e per segnare il tracciato in cui devi incanalarti nella vita, io ti impedisco di essere artefice del tuo futuro, ti tratto come una cosa. Consegno le tue sorti alla magia.    Eppure, chiunque abbia avuto a che fare con un soggetto in crescita sa bene come cambi taglia d’improvviso, come basti un niente per accendere una scintilla, per suscitare una passione o provocare una svolta. Come ogni scivolone sia una medaglia al valore, e possa aprire la strada a conquiste preziose. Come il tempo lungo della maturazione non sia mai lineare, mai prevedibile né replicabile, e in questo risieda la sua infinita ricchezza.    Sa bene come le vocazioni si disvelino a contatto con gli imprevisti della vita, intercettando eventi incrociatori che nessun orientatore per caso può immaginare e nessun algoritmo potrà mai calcolare.   Ed è folle – direi anche criminale – lasciare che una stupida macchina interferisca con questo flusso meraviglioso e gli imponga una traiettoria.   Ognuno ha diritto di fallire una batteria di test per scimmiette addestrate; ha diritto di cascare e di rimettersi in piedi; di costruire pian piano con pazienza la propria bussola interiore, alla faccia di orientatori che spuntano ovunque come funghi. Ha il diritto all’oblio dei propri errori, perché sono proprio quegli errori che servono a svegliarlo fuori e a farlo diventare grande. Ha diritto a che il mondo non scruti nelle pieghe del suo passato, che è rodaggio alla vita, perché il mestiere del giovane è proprio quello di imparare. Per questo, egli ha anche il sacrosanto diritto di potersi misurare con cose difficili, complesse, impegnative, perché la vera autostima si conquista così, superando sé stessi per raggiungere traguardi magari impensati. 

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Dappertutto si sente ripetere ad nuseam il ritornello che la tecnologia non si può fermare, è qui per rimanere, la sua cavalcata è inevitabile. E che, allora, occorre educare fin da bambini all’“uso consapevole”. Che – lo abbiamo visto – equivale a dire: drògati, ma fallo in modo consapevole.    E però, oltre ad essere fallimentare per l’apprendimento, abbiamo anche visto che l’uso precoce della tecnologia produce danni enormi e permanenti, e questi danni noi li abbiamo drammaticamente sotto i nostri occhi. Se è così – ed è così – allora la filastrocca della inevitabilità equivale ad ammettere che abbiamo creato un mostro che ghermisce i nostri figli ma ormai vive di vita propria, o – detta altrimenti – che abbiamo aperto il vaso di Pandora, abbiamo perso il coperchio, ma amen, lasciamolo aperto e restiamo a guardare l’effetto che fa. Avvitàti come siamo in una spirale di irresponsabilità e di infantilismo transgenerazionale che ci sta inabissando, senza freni, dentro una nuova primitività e una inedita forma di schiavitù.   Il seme della libertà è custodito dentro il ben di dio di cose umane – di esperienza, memoria, pensiero e arte – sul quale siamo seduti. Non per nulla lo vogliono far seccare – sia mai che più di qualcuno si accorga dell’impostura in atto. Ma per portare in salvo quel ben di dio, il patrimonio culturale e spirituale edificato in migliaia di anni, occorre poterlo consegnare nelle mani di chi abbia gli strumenti per riceverlo, farlo proprio e tramandarlo a sua volta.   Ecco perché la scuola pubblica – che è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere – va salvata dalle assurdità e dalla bruttezza che la stanno travolgendo e va restituita ai suoi abitatori legittimi, bonificata dall’artificio, protetta dai predatori. Affinché possa recuperare il suo statuto, il suo senso e la sua dignità.  Se questa sia una missione possibile o impossibile, non è facile dirlo, ma non è neppure dirimente saperlo: ci è toccata in sorte una responsabilità epocale di cui abbiamo semplicemente il dovere di farci carico, sia come singoli sia come collettività; sia nell’oikos, sia nella polis. Quella di salvare i saperi per salvare la scuola, o viceversa, perché l’espressione è palindroma.    Elisabetta Frezza   NOTE 1) In Salvare i saperi per salvare la scuola, a cura di Elisabetta Frezza, Il Cerchio, 2025; intervento di Fausto Di Biase. 2) E.D. Hirsch jr, Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, Petite Plaisance, 2024. 3) In Salvare i saperi per salvare la scuola, cit. 4) Ibid.; intervento di Giovanni Carosotti. 5) Ibid.; intervento di Duccio Chiapello. 6) Ibid.; intervento di Stefano Isola.

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Pensiero

Se la realtà esiste, fino ad un certo punto

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I genitori si accorgono improvvisamente che la biblioteca scolastica mette a disposizione degli alunni strani libri «a fumetti» dove si illustra amabilmente il bello della liaison omoerotica.

 

L’intento degli autori è inequivocabile, quello di presentare un modello antropologico indispensabile per una adeguata formazione dell’individuo in crescita… Meno chiaro appare nell’immediato se la scuola, nel senso dei suoi responsabili vicini o remoti, di questa trovata educativa abbiano coscienza e conoscenza.

 

Di istinto, i genitori dell’incolpevole alunno si chiedono se tutto ciò sia proprio indispensabile per uno sviluppo armonico della psicologia infantile, magari in sintonia con i suggerimenti più elementari della natura e della fisiologia.

 

Tuttavia, poiché anche lo zeitgeist ha una sua potenza suggestiva, a frenare un po’ il comprensibile sconcerto, in essi affiora anche qualche dubbio sulla adeguatezza culturale dei propri scrupoli educativi, tanto che sono indotti a porsi il dubbio circa una loro eventuale inadeguatezza culturale rispetto ai tempi, votati come è noto, a sicure sorti progressive.

 

Ma il caso riassume bene tutto il paradosso di un fenomeno che ha segnato questo quarto di secolo e soltanto incombenti tragedie planetarie, mettono un po’ in sordina, finché dagli inciampi della vita quotidiana esso non riemerge con tutta la sua inaspettata consistenza.

 

Infatti la domanda sensata che si dovrebbero porre questi genitori, è come e perché una anomalia privata abbia potuto meritare prima una tutela speciale nel recinto sacro dei valori repubblicani, per poi ottenere il crisma della normalità e quindi quello di un modello virtuoso di vita; il tutto dopo essersi insinuata tanto in profondità da avere disattivato anche quella reazione di rigetto con cui tutti gli organismi viventi si difendono una volta attaccati nei propri gangli vitali da corpi estranei capaci di distruggerli.

 

Eppure, per quanto giovani possano essere questi genitori allarmati, non possono non avere avvertito l’insistenza con cui questa merce sia stata immessa di prepotenza sul mercato delle idee, quale valore riconosciuto, dopo l’adeguata santificazione dei cultori della materia ottenuta col falso martirio per una supposta discriminazione. Quella che già il dettato costituzionale impediva ex lege.

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Ma tutta l’impalcatura messa in piedi intorno a questo teatro dell’assurdo in cui i maschi prendono marito, le femmine si ammogliano nelle sontuose regge sabaude come nelle case comunali di remote province sicule, non avrebbe retto comunque all’urto della ragione naturale e dell’evidenza senza la gioiosa macchina da guerra attivata nel retrobottega politico con il supporto della comunicazione pubblica e lasciata scorrazzare senza freni in un mortificato panorama culturale e partitico.

 

Nella sconfessione della politica come servizio prestato alla comunità, secondo il criterio antico del bene comune, mentre proprio lo spazio politico è in concreto affollato da grandi burattinai e innumerevoli piccoli burattini, particelle di un caos capace di tenere in scacco «il popolo sovrano». Una parte cospicua del quale si sente tuttavia compensato dalla abolizione dei pronomi indefiniti, per cui tutte e tutti possono toccare con mano tutta la persistenza dei valori democratici.

 

Non per nulla proprio in omaggio a questi valori è installato nella anticamera della presidenza del Consiglio, da anni funziona a pieno regime un governo ombra, quello terzogenderista dell’UNAR. Un ufficio che ha lavorato con impegno instancabile, e indubbia coerenza personale, alla attuazione del «Piano» (sic) elaborato già sotto i fasti renziani e boschiani, per la imposizione capillare nella società in generale e nella scuola in particolare, di tutto l’armamentario omosessista.

 

Il cavallo di battaglia di questa benemerita entità governativa è la difesa dei «diritti delle coppie dello stesso sesso», dove sia il «diritto», che la «coppia» hanno lo stesso senso dei famosi cavoli a merenda.

 

Ecco dunque un esempio significativo ed eccellente di quella desertificazione della politica per cui il governo ombra guidato da interessi particolari in collaborazione e in sintonia con centri di potere radicati in istituzioni sovranazionali, possa resistere ad ogni cambio di governo istituzionale senza che ne vengano disinnescati potere e funzioni.

 

I partiti, dismessi gli apparati ideologici, e omogeneizzati nella sostanza, sono ridotti a «parti», alla moda di quelle fiorentine che pure un qualche ideale di fondo ce l’avevano, anche se tutte si assestavano su un gioco di potere.

 

Qui prevale il gioco dei quattro cantoni, dove tutti sono guidati dall’utile di parte che coincide a seconda dei casi con l’utile politico personale o ritenuto tale. Un utile calcolato tra l’altro senza vera intelligenza politica ovvero senza intelligenza tout court. Anche chi si è abbigliato di principi non negoziabili, alla bisogna può negoziare tutto, perché secondo il noto Principio della Dinamica Politica, «Tutto vale fino ad un certo punto».

 

Tajani, insieme a Rossella O’Hara ci ha offerto il compendio di tutta la filosofia occidentale contemporanea. Quindi dobbiamo stare sereni. Ma i genitori attoniti devono comprendere che quei libretti e questa scuola non sono caduti dal cielo. Sono il frutto di una politica diventata capace di tutto perché incapace a tutto sotto ogni bandiera.

 

Patrizia Fermani

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Scuola

Mostri nei loro barattoli e nella loro formaldeide

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Lo splendore della fede professata nel pellegrinaggio giubilare nella Città Eterna, la bellezza luminosa dei dipinti di Georges de La Tour, i sontuosi ricami delle Orsoline di Amiens, l’importanza di una cultura che non trasgredisce la natura ma la trascende, sono questi i temi di Nouvelles de Chrétienté per il nuovo anno scolastico.   Sotto un’apparente diversità, questi temi sono profondamente uniti in un’intenzione comune espressa con «vigore e chiarezza» da Padre Calmel, quando chiede agli insegnanti cristiani di aprire «i loro studenti ai valori dell’arte nelle sue diverse forme», rendendoli al contempo «capaci di una fiera indipendenza e di un bel disprezzo per tutte le anomalie, infezioni, purulenze e mostruosità, che hanno l’audacia di esigere da loro un’ammirazione complice adornandosi della realtà dell’arte e più spesso della sua apparenza».   Il frate domenicano esprime un desiderio preciso: «I mostri torneranno ai loro barattoli e alla loro formaldeide, gli scorpioni artistici reintegrano i loro buchi artistici, il giorno in cui un certo numero di esseri giovani e determinati, non certo per barbarie ma per sovrano rispetto della cultura, tratteranno con disprezzo i prodotti immondi della cultura. La cultura non ha alcun diritto contro i diritti della decenza e dell’onore».   Aggiunge: «non deve essere lontano il tempo in cui l’insidioso sofisma “onestà significa stupidità” sarà privo di ogni credibilità, perché sarà diventata chiara la prova che ciò che è normale è bello e che, in una civiltà degna di questo nome, l’intelligenza, la sottigliezza, la leggerezza, la finezza e l’arte marciano di concerto con l’onestà, la santità, il rifiuto inflessibile dei veleni e delle ignominie. La scuola cristiana deve affrettare l’arrivo di questi tempi di libertà». (Ecole chrétienne renouvelée, cap. XXIX, tre sensible en chrétien aux valeurs d’art, pp. 188-189, ed. Téqui)   Padre Calmel scrisse queste potenti righe alla fine degli anni ’50, lontano dal wokismo, dalla cultura della cancellazione, dello sradicamento e dell’incoscienza… E si aspettava che le suore, autentiche insegnanti, avessero «idee non solo corrette, ma idee che cantano dentro [di loro] e che incantano [i loro] piccoli alunni», per «comunicare loro una verità canterina e germinante». (Ibid., pp. 129 e 131).   È una bella frase da scrivere in cima a un quaderno, in questi giorni di ritorno a scuola!   Abate Alain Lorans   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine da FSSPX.News
 
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