Geopolitica
Da Ustica al Niger: l’impero francese, l’Africa e l’Italia
C’è un unico filo che collega la strage di Ustica, riemersa improvvisamente in queste ore, ai colpi di Stato e alle ulteriori ondate di sangue che si preparando in Africa occidentale: Niger, Gabon, Mali, Burkina Faso…
Ora, quando ho letto che Giuliano Amato avrebbe detto «la verità» su Ustica, sono ovviamente scoppiato a ridere.
Come questo eterno personaggio dello Stato profondo italiano, questo strano, storico intoccabile della Repubblica possa dire il vero su uno qualsiasi dei misteri italici – quelli sui quali sono stati concessi decenni di «complottismo socialmente accettabile» stile Purgatori – è qualcosa che di per sé ritengo, letteralmente, incredibile.
Parliamo di Amato, e speriamo che il lettore si ricordi cosa la sua presidenza della Corte Costituzionale abbia rappresentato nel caso dei vaccini genici sperimentali.
Per chi ha qualche anno sul groppone, sblocchiamo qualche ricordo dei primi anni Novanta: primo ministro dal 1992 al 1993, eseguì l’11 luglio 1992, con mezzo Paese in vacanza, il prelievo forzoso del sei per mille su tutti i conti correnti italiani per «interesse di straordinario rilievo» dovuto a «una situazione di drammatica emergenza della finanza pubblica». Quello che accade dopo fu ancora più significativo: in settembre lo speculatore Soros attaccò la lira italiana e la sterlina britannica, con il risultato di svalutarle – la moneta italiana perse il 7% sul dollaro – e farle uscire dal sistema monetario europeo.
Nonostante la catastrofe, tutti i funzionari dello Stato responsabili della fallita difesa della valuta nazionale fecero carriera. Ciampi, che era governatore alla Banca d’Italia, fu fatto primo ministro e poi Presidente della Repubblica. Draghi era allora direttore generale del tesoro: divenne più tardi Governatore della Banca d’Italia, poi 3° presidente della Banca Centrale Europea, poi Primo Ministro italiano; va ricordato pochi mesi prima il suo discorso sul panfilo Britannia assieme agli «Invisibili Britannici» (sic). Da lì a poco, con l’inaspettata interruzione di Berlusconi, poi sistemata, divenne premier, e poi presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, che assegnerà a Soros una laurea honoris causa all’Università di Bologna nel 1997.
La svalutazione della lira nel 1992 – Bettino Craxi su George Soros
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— Enki d.C (@enkidC) July 17, 2021
Amato, socialista stranamente sopravvissuto all’ecatombe giudiziaria di Mani Pulite, mentre Soros si portava via 30 mila miliardi dagli italiani, era premier: venne eletto di nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri nel 2000, e poi altri incarichi altissimi, con ruoli da ministro e il vertice della Corte Costituzionale. Non dimentichiamo che fu più volte considerato papabile come Presidente della Repubblica.
Le cronache del 2006 ricordano che ad un certo punto, mentre il palazzo romano trattava per l’elezione del Capo dello Stato da cui sarebbe uscito fuori Napolitano (personaggio con una sua rilevanza per la storia euro-africana che stiamo per raccontare), Amato era stato avvistato in un cinema intento a gustarsi Mission Impossible 3. Il pubblico, si narra, accortosi che Amato era in sala, iniziò ad applaudire ed acclamarlo, il suo nome di presidenziabile, in quei giorni di interregno, campeggiava sui giornali. Amato ringraziò, ma tentò di contenere gli entusiasmi. «Sono qui solo per vedere Mission Impossible 3», disse.
Che si trattasse di un messaggio sottile – come il dottor sottile – per dire che la missione di quirinalizzarsi era impossibile, o forse possibile, o forse dura, non sappiamo: forse il tizio che Forattini rappresenta sempre come un topolone è davvero solo un fan di Tom Cruise.
Del resto, ha rammentato Stefania Craxi in questi giorni, Bettino Craxi, che del collega di partito Amato fu mentore e capo, finì per chiamarlo «l’extraterrestre»: parlava della Prima Repubblica, che aveva conosciuto da dentro come alto funzionario e ministro, inserito nel cuore del partito considerato dal giustizialismo tangentopolitano come il più corrotto e quindi distrutto dalla magistratura, come non vi avesse partecipato, come se l’avesse osservata dallo spazio.
È ben strano che, distrutto per via giudiziaria (certo, magari con una spintarella dalla manina yankee, ancora insolentita per Sigonella ed altro) il sovranismo PSI craxiano, arrivino il Britannia e Soros, con al potere… proprio un socialista, Amato.
Questo passaggio è necessario per capire che peso possiamo dare alle rivelazioni di Amato sul fatto che quella notte il DC9 di Ustica fu tirato giù da un missile aria-aria sparato da un caccia francese. E va detto che in queste ore Amato sta facendo retromarcia. Dice di aver solo ripetuto una pista già conosciuta, ed è vero. Dice di non essere responsabile rispetto ai titoli che decide di fare La Repubblica.
E allora, che cosa c’è dietro questa improvvisa fiammata? Non è che la valanga si può fermare facilmente. Rispuntano giudici ed ex militari che furono testimoni. Riemergono, allucinanti, le storie delle enigmatiche morti di chi poteva sapere qualcosa di quella notte maledetta, come il pilota di caccia Ivo Nutarelli, morto nella collisione aerea delle Frecce Tricolori a Ramstein nel 1988 (70 morti, 450 feriti).
Amato ritrova la memoria adesso, saltando a piè pari una condanna riguardo al «muro di gomma», come lo chiamava il film di Andrea Purgatori?
Non abbiamo idea, confessiamo, del perché lo faccia. Sappiamo, tuttavia, che la pista dell’abbattimento non solo è credibile, ma si inserisce perfettamente nel gioco che stava avvenendo tra Africa, Francia e Italia, e che a quanto sembra non è ancora finito.
La Francia è un Paese con cui l’Italia vive una relazione fortemente conflittuale, ma ciò non appare: una quantità di membri del partito dell’establishment sono stati tripudiati con la Legion d’Onore Francese, mentre il capitalismo francese in questi anni ha scorrazzato tra telecomunicazioni, supermercati, industria alimentare, banche e assicurazioni, in pratica ogni settore strategico del nostro Paese.
La frizione con Parigi – parentesi: capitale intellettuale dove vivevano tranquilli i terroristi rossi che avevano insanguinato l’Italia con gli anni di piombo – raggiunse forse il suo apice geopolitico proprio con il maestro di Amato Bettino Craxi.
Nel 1984 il premier Craxi atterra a Roma dopo un viaggio in Algeria e chiede di vedere subito l’ammiraglio del SISMI Fulvio Martini. Chadli Benjedid, il presidente algerino, aveva rivelato a Craxi che per mettere al sicuro il tratto finale del gasdotto che porta il metano in Italia aveva programmato nientemeno che un’invasione della Tunisia. Craxi lo pregò di non far nulla, e si mosse con una grande manovra segreta internazionale
Bourghiba, il presidente pazzo di Tunisi che era l’uomo dei francesi, fu sostituito dal «nostro» Ben Alì. Martini lo racconta nel libro, oggi difficilmente trovabile, Nome in codice Ulisse: «non fu un brutale colpo di stato: fu un’operazione di politica estera, messa in piedi con Intelligenza, prudenza ma anche decisione dagli uomini che guidavano l’Italia in quegli anni. Sì, è vero, l’Italia sostituì Bourghiba con Ben Alì».
Martini, il vertice dei servizi militari italiani, incontra il suo omologo del DGSE francese: «era il generale Réné Imbot, ex capo di stato maggiore dell’Armée. Andai da lui, gli spiegai la situazione, gli dissi che l’Italia voleva risolvere le cose nella maniera più cauta possibile, ma che comunque non voleva aspettare che la Tunisia saltasse per aria. Lui fece un errore imperdonabile: mi trattò con arroganza, mi disse che noi italiani non dovevamo neppure avvicinarci alla Tunisia, che quello era impero francese». (Corsivo nostro»)
«Io ancora oggi penso che per difendere un impero bisognava avere i mezzi, la capacità ma anche la solidarietà di chi non è proprio l’ultimo carrettiere del Mediterraneo» scrive il generale dei servizi segreti italiani. «Imbot era stato nella Legione straniera per vent’anni, aveva guidato i paracadutisti che parteciparono alla repressione nella casbah durante la battaglia di Algeri. Era un soldato, non capiva la politica, ebbe qualche problema con il suo primo ministro Jacques Chirac».
Il cambio di potere in Tunisia, dove ricordiamo Craxi si esiliò e poi morì, ebbe altre conseguenze che vale la pena di ricordare. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre del 1987, un attentato terroristico distrusse il radiofaro della Marina militare italiana dell’isola di San Domino, alle Tremiti. La bomba uccise uno dei due «terroristi», uno svizzero quarantatreenne di nome Jean Louis Nater, mentre quell’altro, Samuel Wampfler, un altro svizzero con tanti passaporti e trascorsi rocamboleschi, fu arrestato. Nel 1990 viene condannato a 10 anni, ma non sconta nulla, e sparisce. Si pensò che il colpevole fosse l’allora babau globale Gheddafi, che non aveva lesinato aiuti al terrorismo su ogni latitudine. Qualche giorno prima, il colonnello aveva rivendicato il possesso delle Tremiti, asserendo che lì vi erano i discendenti dei libici deportati dal governo Giolitti (1911), un’idea la cosa risultò totalmente priva di fondamento quando tutta la popolazione si sottopose ad un test del DNA nel 2008.
Tuttavia, nel 1996 Corriere della Sera scrive che non si trattava di Gheddafi, ma di una sorta di vendetta, di Parigi. Un avvertimento – diretto contro le nostre forze armate. Terrorismo… dello Stato francese? In Italia?
Ben Alì, come noto, fu scacciato solo decenni dopo, nel 2011, all’insorgere della maledetta «Primavera Araba», che iniziò guarda caso proprio da casa sua, con le proteste tunisine scaturite in seguito al suicidio incendiario di un commerciante – con ogni probabilità, un grande piano di Washington e dei suoi satelliti per mettere al potere ovunque, dall’Egitto alla Siria, i Fratelli Musulmani, il primo vero grande prototipo di movimento islamico estremista, ma che nel profondo, come tutto l’islamismo radicale, poteva essere controllato…
Pochi mesi dopo, sappiamo cosa accadde a poca distanza dalla Tunisia, in quella Libia che aveva ritrovato l’armonia con l’Italia, con tanto di immagine di Berlusconi e Gheddafi che si danno la mano finita stampata sui passaporti libici.
Il regime fu spodestato dalla combinazione di USA (non dimenticate, mai, le sataniche risa di Hillary Clinton informata della morte del rais tripolino), Gran Bretagna e, soprattutto, Francia, dove ancora circola la voce che il presidente dell’epoca, Sarkozy, avesse ricevuto fondi da Gheddafi. L’Italia, controsenso solo per chi non capisce come vanno davvero le cose, gettò all’aria decenni di lavoro di normalizzazione dei rapporti con la nostra ex colonia, dove l’ENI tira fuori tanto petrolio e gas: ecco che Napolitano, lui, sembra appoggiare l’intervento per detronizzare Muhammar.
Gheddafi finì trucidato per linciaggio. Voci dei vari siti complottisti, anche ben informati, dicono che in alcuni video si può sentire che tra la folla del massacro qualcuno parla in francese – non siamo in grado di verificare questa voce.
Il colonello libico è centrale in questa storia, non solo perché, secondo la pista più nota, il missile francese contro il DC9 in realtà avrebbe voluto colpire un aeromobile su cui viaggiava l’allora uomo nero della comunità internazionale, lo sponsor del terrorismo internazionale, dalle bombe di Lockerbie a quelle di Mandela.
Gheddafi, dice una teoria che circolava già all’epoca, sarebbe stato eliminato perché, risolte le sue pendenze con il mondo occidentale (e accettando, stupidamente, la denuclearizzazione totale dello Stato libico) avrebbe avuto in cuore di lanciare una nuova valuta panafricana, in grado di sostituire il franco CFA, la moneta che Parigi distribuisce tra le ex colonie dell’Africa francofona – cioè quello che l’arrogante generale dei servizi parigini chiamava «l’impero francese».
La questione del franco CFA tenne banco nel 2018, durante le prime effervescenze «sovraniste» del governo Lega-M5S, il Conte-1. Giorgia Meloni, che pure era all’opposizione, poco tempo dopo ci saltò sopra, e fece show pubblici sulla storia del franco africano di Macron, sventolato a dovere nei talk show televisivi.
La Meloni aveva l’obiettivo del PD – il partito zeppo di «legionari d’onore» gallici – era ancora forte l’eco del trattato di Caen dell’era del governo Gentiloni, nel quale, si disse, l’Italia avrebbe ceduto acque territoriali alla Francia.
E quindi, Amato e Repubblica voglio riaprire le ferite tra la Meloni e l’Eliseo?
Oppure si tratta degli effetti di un movimento tellurico più vasto?
Perché, lo abbiamo visto in Niger e ora anche in Gabon, e prima ancora in Mali e Burkina Faso, l’«impero francese» è davvero in putrefazione – e bisogna guardare, oltre al caos nelle ex colonie che ripudiano Parigi, anche alla guerriglia nelle banlieue francesi dello scorso luglio, dove il problema è, autenticamente, africano, o afro-islamico.
Come riportato della Renovatio 21, nostalgici articoli su giornali internazionali importanti, hanno fatto capire come, a godere della fine dell’impero, ci sia un altro impero finito, quello britannico, che con Parigi si era spartito un bel pezzo dell’Africa. Che chi ora punta il dito contro l’Ustica francese, lo faccia per affiliazione con un mondo che, nei secoli, in fondo non è riuscito a seppellire la rivalità, nemmeno nell’era della catastrofica illusione post-coloniale?
Tuttavia, la fine dell’Africa francese non è arrivata d’improvviso.
Da anni i francesi sono accusati dai Paesi africani di addestrare le bande di terroristi islamici che dicono di voler combattere con missioni militari come l’operazione Barkhane, a cui ha partecipato anche l’Italia. Lo spostamento verso la Russia, che sull’Africa sta investendo il futuro della geopolitica globale post-occidentale si è così sedimentato. Le accuse più infamanti sono volate, le ONG francesi sono state cacciate, i golpe anti-Parigi si sono moltiplicati.
Questo ci riporta al giorno di oggi.
La politica francese sta per essere espulsa del tutto dalle ex colonie africane, tuttavia, grazie al Trattato del Quirinale, non da quella italiana: grazie all’accordo siglato da Macron e Mattarella, ai Consigli dei Ministri italiani può presenziare un ministro francese.
Eh? Ma perché?
È solo un esempio del contenuto del Trattato, che doveva segnare un tentativo di far finire l’egemonia tedesca sull’Europa del dopo-Merkel, e in realtà indica solo l’incredibile meccanica di vassallaggio che l’élite al potere infligge all’Italia.
E allora, più che la verità su Ustica, vogliamo dire una verità ancora più grande: la Francia non è nostra amica.
Possono essere considerati alleati nella NATO, vicini di casa, cugini d’Oltralpe, «italiani di cattivo umore», quel che volete: ma i francesi delle élite parigine, imbevute da secoli di massoneria, mai faranno un piacere all’Italia. Mai.
Anzi, ci chiediamo: che siano magari anche capaci di ammazzarci Gheddafi, mettere una bomba alle Tremiti e sparare, forse per isbaglio, su un aereo civile carico di turisti?
Roberto Dal Bosco
Immagine di Fabio Di Francesco via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0); immagine modificata
Geopolitica
Ebrei VIP chiedono sanzioni contro Israele
Centinaia di eminenti figure ebraiche a livello globale hanno sollecitato le Nazioni Unite e i leader mondiali a imporre sanzioni a Israele per azioni definite «sconsiderate» a Gaza, che, secondo loro, equivalgono a un genocidio.
Una lettera aperta, che invita i governi a ritenere Israele responsabile per presunte violazioni del diritto internazionale a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ha raccolto oltre 450 firme VIP, tra cui ex funzionari, intellettuali e artisti israeliani. L’iniziativa coincide con notizie secondo cui i leader dell’UE potrebbero rinunciare a sanzioni contro Israele durante un vertice a Bruxelles giovedì.
«Non dimentichiamo che molte leggi, statuti e convenzioni per proteggere la vita umana sono nate in risposta all’Olocausto», hanno scritto i firmatari. «Israele ha ripetutamente violato queste garanzie».
Tra i firmatari ci sono l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, il negoziatore di pace Daniel Levy, gli scrittori Michael Rosen e Naomi Klein, il regista premio Oscar Jonathan Glazer, gli attori Wallace Shawn e Ilana Glazer e il filosofo Omri Boehm. Il gruppo ha chiesto di far rispettare le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale, di interrompere le vendite di armi e di applicare sanzioni mirate a funzionari ed entità israeliane coinvolte in presunti crimini.
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La petizione riflette un’evoluzione dell’opinione pubblica tra gli ebrei americani e gli elettori in generale. Un recente sondaggio del Washington Post ha mostrato che il 61% degli ebrei americani ritiene che Israele abbia commesso crimini di guerra a Gaza, e il 39% lo accusa di genocidio. Un sondaggio Quinnipiac di agosto ha rilevato che la metà degli elettori statunitensi condivide questa visione.
La situazione è ben diversa per l’opinione pubblica israeliana.
Come riportato da Renovatio 21, un sondaggio pubblicato dall’Università Ebraica di Gerusalemme all’inizio di giugno rivela che circa il 75% degli ebrei israeliani concorda con l’affermazione secondo cui «non ci sono innocenti a Gaza».
Non si trattava del primo dato di questo tipo. Un sondaggio dell’Università di Tel Aviv di fine ottobre 2023 ha rilevato che il 58% degli ebrei israeliani ha affermato che l’esercito stava usando troppo poca potenza di fuoco nel suo assalto a Gaza e meno del 2 percento ha affermato che era troppa.
Un altro sondaggio condotto nel dicembre 2023 chiedeva: «In che misura Israele dovrebbe tenere in considerazione le sofferenze della popolazione civile a Gaza quando pianifica la continuazione dei combattimenti?». Oltre l’80% degli ebrei israeliani ha risposto «in misura molto limitata» o «in misura piuttosto limitata» (rispettivamente il 40% e il 41%).
Nel gennaio 2024, un sondaggio del canale israeliano Channel 12 ha rilevato che il 72% degli israeliani ritiene che gli aiuti umanitari ai 2 milioni di civili di Gaza, tra cui 1 milione di bambini, «debbano essere interrotti finché i prigionieri israeliani non saranno rilasciati» da Hamas.
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Immagine di Jaber Jehad Badwan via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Geopolitica
Putin: la risposta della Russia agli attacchi Tomahawk sarebbe «schiacciante»
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Geopolitica
Trump annulla l’incontro a Budapest con Putin
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha cancellato il vertice previsto con il presidente russo Vladimir Putin a Budapest, dichiarando che i colloqui, in questa fase, non avrebbero probabilmente prodotto i risultati sperati. Mosca non ha ancora commentato la decisione.
L’annuncio è stato fatto mercoledì durante un incontro alla Casa Bianca con il Segretario generale della NATO Mark Rutte, dove Trump ha spiegato che il vertice in Ungheria «non sembrava appropriato».
«Non pareva che avremmo raggiunto gli obiettivi necessari, quindi ho deciso di annullare il viaggio», ha affermato.
Tuttavia, Trump ha lasciato aperta la possibilità di futuri colloqui con Mosca. «Lo faremo in futuro», ha aggiunto, senza precisare quando o dove potrebbe avvenire.
Le dichiarazioni di Trump giungono dopo che il dipartimento del Tesoro statunitense ha imposto nuove sanzioni alla Russia, motivate dalla sua presunta «mancanza di impegno serio verso un processo di pace». Le misure hanno colpito due grandi compagnie petrolifere russe, Rosneft e Lukoil, e le loro filiali.
Trump ha comunque ammesso di non essere certo che le sanzioni possano modificare la posizione della Russia sul conflitto ucraino. «Spero che lui [Putin] diventi ragionevole, e spero che lo sia anche [Volodymyr Zelens’kyj]», ha detto. «Ci vogliono due persone per ballare il tango» ha dichiarato, usando un noto proverbio anglofono.
I piani per un vertice tra Putin e Trump erano stati annunciati la settimana precedente, dopo una telefonata tra i due leader, sebbene non fosse stata fissata una data precisa.
Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov aveva dichiarato in precedenza che un incontro tra Russia e Stati Uniti richiede «preparativi seri», sottolineando che un vertice tra i due leader «non dovrebbe essere sprecato», poiché entrambi i presidenti «sono abituati a lavorare per ottenere risultati concreti».
Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
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