Cina
App obbligatoria sul cellulare: così Pechino usa l’Intelligenza Artificiale contro i tibetani

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
La denuncia di Turquoise Roof: costretti ai check-point a installare un sistema «antifrodi» che in realtà comunica tutti i dati personali alla polizia. Mentre un database su un’infrastruttura del gigante informatico americano Oracle analizza milioni di messaggi per bloccare di ogni forma di affermazione dell’identità locale.
«Durante le vacanze scolastiche, per tornare a casa dobbiamo passare attraverso numerosi posti di blocco. I nostri bagagli e zaini, altri accessori e persino i telefoni cellulari vengono scansionati e perquisiti. L’ultima volta ci è stato chiesto di scaricare e installare un’applicazione di sicurezza che, se trovata cancellata al controllo successivo, saremo costretti a scaricare e installare di nuovo».
Prende le mosse da questa testimonianza – raccolta nel settembre scorso da un giovane di Golog, nel Tibet orientale, che oggi vive in esilio – un nuovo rapporto di Turquoise Roof, una rete di ricercatori, analisti e studiosi del Tibet promossa da Kate Saunders e Greg Walton. Intitolato «i Big Data come arma: decodificare la sorveglianza digitale cinese in Tibet» esamina nel dettaglio il funzionamento di alcuni strumenti utilizzati da Pechino per il controllo e la repressione dell’identità locale nella provincia tibetana.
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L’app di cui si parla nella testimonianza è quella del Centro nazionale antifrode. Sebbene il suo scopo sia descritto come lotta alle «frodi», la sua installazione forzata sugli smartphone nel contesto tibetano diventa una prova della complessa e capillare architettura di sorveglianza messa in atto da Pechino.
In collaborazione con l’ONG Tibet Watch, Turquoise Roof ha effettuato un’analisi dinamica della versione Android e Windows Desktop dell’app in questione. Ed è puntualmente emerso che – come era facilmente immaginabile – il programma va a indagare tutti i dati presenti sul dispositivo e oltre a quelli legati alle indagini sulle frodi è in grado di trasmetterne anche molti altri a sistemi ben più ampi gestiti dalla polizia criminale cinese.
Parallelamente Turquoise Roof ha scoperto dall’analisi dei bandi di gara governativi l’esistenza di un’altra piattaforma di big data nota come «Tibet Underworld Criminal Integrated Intelligence Application» che, attraverso un sistema centralizzato alimentato da un database Oracle (multinazionale informatica con sede ad Austin, in Texas) monitora ogni forma di espressione culturale, religiosa o di impegno sociale. In un contesto in cui anche la difesa pacifica dei diritti linguistici o i gruppi sociali che lavorano per i senzatetto o per il benessere degli animali in Tibet sono criminalizzati dalle autorità cinesi.
Quest’indagine fa luce sulla portata dei meccanismi di intrusione del Partito Comunista Cinese nella sfera personale. Un fatto di cui i tibetani sono ormai ampiamente consapevoli e per questo sono costretti a tenerne conto nel modo in cui si relazionano gli uni con gli altri, in taluni casi – sostiene Turqoise Roof – portando persino a una completa rottura dei contatti.
Vi sono state infatti anche detenzioni per semplici messaggi scambiati su WeChat – la popolare applicazione di messaggistica di proprietà dello Stato cinese – che fino a un decennio fa era ampiamente utilizzata anche dai tibetani dentro e fuori dal Tibet. Oggi hanno imparato ad autocensurare alcune parole chiave sia nella lingua scritta sia in quella parlata e a utilizzare invece parole in codice durante le loro comunicazioni online.
Sullo sfondo resta ovviamente il corrispettivo «fisico» di questa campagna digitale, con gli arresti di prigionieri politici, le torture, la crescente predominanza della lingua cinese nelle scuole tibetane, la sorveglianza nei monasteri e il rapido declino della comunità nomade tibetana attraverso i divieti di pascolo, la recinzione dei pascoli e lo sfollamento dalle loro terre, documentati da Tibet Watch.
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Cina
Cina, Bambini presi di mira da politiche antireligiose

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Cina
COVID, blogger cristiana cinese condannata ad altri quattro anni di carcere

Una blogger cristiana cinese già condannata a quattro anni di carcere per aver documentato le prime fasi della pandemia di COVID da Wuhan è stata condannata ad altri quattro anni di carcere.
Zhang Zhan, 42 anni, è stata condannata in Cina con l’accusa di «aver attaccato briga e provocato disordini», la stessa accusa che ha portato alla sua prima incarcerazione nel dicembre 2020. L’accusa viene spesso utilizzata per perseguire i giornalisti che si esprimono contro il governo cinese o rivelano verità imbarazzanti.
Zhang ha pubblicato i resoconti di testimoni oculari di Wuhan sulla diffusione iniziale del COVID-19, compresi video, di strade vuote e ospedali affollati che dimostravano che la situazione a Wuhan era molto peggiore di quanto affermassero le autorità cinesi. I filmati della Zhanga sono stati visualizzati centinaia di migliaia di volte.
Il suo avvocato dell’epoca, Ren Quanniu, aveva affermato che Zhan credeva di essere stata «perseguitata per aver violato la sua libertà di parola». Dopo la prigionia, aveva iniziato uno sciopero della fame e fu alimentata forzatamente tramite un sondino.
Come riportato da Renovatio 21, cinque anni fa erano emerse notizie della sua cattiva salute e di una sua possibile tortura in carcere.
Era stata rilasciata nel maggio 2024. Secondo Quanniu, è stata nuovamente arrestata perché aveva commentato su siti web stranieri, tra cui YouTube e X.
🚨🇨🇳CHINA TO RELEASE JOURNALIST JAILED OVER COVID REPORTING
After spending four years behind bars for her reporting of the Covid outbreak and lockdowns in Wuhan, Zhang Zhan is set to be released today after completing her sentence.
— Kacee Allen (@KaceeRAllen) May 14, 2024
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Un portavoce del governo cinese ha dichiarato: «il caso riguarda la sovranità giudiziaria della Cina e nessuna forza esterna ha il diritto di interferire. I suoi diritti legittimi saranno pienamente rispettati e tutelati».
«Questa è la seconda volta che Zhang Zhan viene processata con accuse infondate che non rappresentano altro che un palese atto di persecuzione per il suo lavoro giornalistico», ha affermato Beh Lih Yi, direttore per l’area Asia-Pacifico del Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a Nuova York.
«Le autorità cinesi devono porre fine alla detenzione arbitraria di Zhang, ritirare tutte le accuse e liberarla immediatamente». La Cina costituisce la prigione per giornalisti più grande del mondo. Si ritiene che attualmente vi siano detenuti oltre 100 giornalisti.
Come riportato da Renovatio 21, il nuovo processo era iniziato sei mesi fa.
Prima della pandemia di COVID, l’attivista e giornalista cristiana era già stata arrestata nel settembre 2019 per aver sfilato con un ombrello su Nanjing Road a Shanghai, in segno di solidarietà con le proteste di Hong Kong. Con le prime notizie della pandemia, si era recata a Wuhan per documentare gli eventi, pubblicando circa cento video in tre mesi e rispondendo alle domande di media internazionali. Arrestata nel maggio 2020, è stata la prima blogger a essere condannata per le informazioni diffuse sulla pandemia.
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Immagine screenshot da YouTube
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