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Il prestigioso destino di un testo fondatore

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La celebre Dichiarazione di Mons. Lefebvre del 21 novembre 1974 compie 50 anni. Si moltiplicano gli articoli di stampa per onorare questo anniversario, celebrando l’accuratezza e la profondità di un testo davvero storico. Non ci sarebbe però, in questo tentativo di evidenziarlo, una forma di enfasi anacronistica o addirittura di «ripresa politica»? Questo testo ha davvero l’importanza che vogliamo dargli? Lo stesso monsignor Lefebvre si rendeva conto del significato della sua Dichiarazione? La domanda merita di essere posta, poiché le circostanze in cui è stata scritta sembrano umili e discrete.

 

Un «moto di indignazione», non una «Dichiarazione di guerra».

 

Dopo l’improvvisa visita apostolica avvenuta dall’11 al 13 novembre 1974, Mons. Lefebvre recò a Roma, presso le tre Congregazioni romane coinvolte in questa visita. Il 2 dicembre, appena tornato dal suo viaggio, mons. Lefebvre si rivolse ai seminaristi riuniti attorno a lui:

 

«Cari amici, mi è stato chiesto di chiarirvi un po’ qual è la posizione della Fraternità e del Seminario dopo la visita dei due visitatori apostolici avvenuta, e ho pensato che forse sarebbe stato il caso di leggervi una piccola Dichiarazione, che ho scritto per affermare con chiarezza i principi che ci guidano, e per non avere tentennamenti».

 

Infatti, il 21 novembre, ritornando a casa di Albano dopo alcuni colloqui con le Congregazioni, comprendendo che non c’era molto altro da aspettarsi per il momento e «in un moto di indignazione», come disse, aveva scritto di getto a sintesi della sua posizione.

 

Non fraintendete, tuttavia. Questo «moto» non è un impulso. «Evidentemente – prosegue – sono cose gravi, ma la situazione è grave. Pertanto, quando gli eventi sono gravi, dobbiamo anche prendere le decisioni corrispondenti e un atteggiamento fermo, chiaro».

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Monsignor Lefebvre non sapeva come si sarebbero evolute le cose. Ma ritenendo inutile perdersi in vane congetture sul futuro, precisò: «Io non sono più informato di voi su ciò che potrà accadere, su ciò che potrebbe non accadere. […] Lasciamo che gli eventi si svolgano come permette la Provvidenza, e preghiamo (…)».

 

«Ma ho voluto comunque assumere una posizione di principio che non ha bisogno di essere condizionata dagli eventi. Questa posizione di principio, mi sembra, è sempre stata quella del Seminario e della Fraternità. I termini forse sono più fermi, più chiari, più definitivi, perché la gravità della crisi è sempre in aumento…»

 

Poi con voce calma, pacata e forte allo stesso tempo, legge pacificamente il suo testo e conclude: «questa Dichiarazione può sembrarvi molto forte, ma credo che sia necessaria».

 

Ciò che motiva dunque questa posizione netta, che trascende con la sua chiarezza le circostanze particolari, è la consapevolezza della gravità della situazione: «un disastro che colpisce le anime. Perché è questo che dobbiamo vedere: le anime che si perdono! Quante anime andranno all’inferno a causa di questa riforma! E tutti questi conventi deserti, queste suore disperse, questi seminari vuoti! (…) Di fronte a quest’ondata di neoprotestantesimo e neomodernismo bisogna dire no!».

 

Soffermandosi poi sulla santità del sacrificio della Messa, tesoro della Chiesa e fonte di tutte le virtù sacerdotali e cristiane, conclude: «sono cose così preziose che mi sembra che non si possa parlare con sufficiente energia per cercare di preservarle e conservarle per la Chiesa e per le anime».

 

«Avrei preferito morire piuttosto che dover affrontare il papa a Roma!», confidò a padre Aulagnier l’11 novembre, mentre attendeva i visitatori inviati da Paolo VI.

 

La sua posizione non ha quindi nulla a che vedere con una fredda dichiarazione di guerra a Roma, né con una reazione troppo forte o poco controllata. Si tratta di un grave «non possumus», pienamente consapevole delle proprie responsabilità, pronunciato per fornire ai propri seminaristi, nella confusione crescente, una linea di condotta chiara e ferma. È una santa indignazione piena di fede; una professione umile e forte, ispirata unicamente dal suo profondo amore alla Chiesa e alle anime.

 

Un «casus belli» comunque…

I seminaristi non si erano sbagliati e accolsero con vibranti applausi la lettura di questo testo storico. Sebbene non fosse destinato al pubblico, viene comunque conosciuto e frammenti di esso vengono divulgati all’insaputa dell’autore, in condizioni diverse e talvolta deplorevoli. Monsignor Lefebvre decise allora di pubblicarne una versione autentica e completa, appena ritoccata, nel numero di gennaio 1975 di Itinéraires.

 

Ma nessuna preoccupazione lo turba: «quali che siano le sanzioni prese contro di noi, in queste condizioni non è più una questione di obbedienza, ma di conservare la fede. Se se ne vanno dieci, venti, quaranta, io resto!»

 

Alla fine di gennaio monsignor Lefebvre venne convocato a Roma dove, il 13 febbraio, incontrò tre cardinali. Uno di loro mostrò Itinéraires: «la vostra Dichiarazione, pubblicata su Itinéraires! Allora siete contro il Papa e contro il Concilio! Questo è inaccettabile!»

 

Dopo averlo lasciato a un monologo di venticinque minuti, monsignor Lefebvre chiarì con calma l’atteggiamento e il pensiero del seminario e della Fraternità. No, non è vero, non era contro il Papa. Si astenne sempre dal dire qualcosa di dispregiativo e rifiutò di permettere a chiunque di dire parole dispregiative nei confronti del Santo Padre in seminario.

 

D’altra parte, sottolineò che le conseguenze del Concilio che si erano manifestate nelle riforme erano molto gravi, e che non potevano accettarle: dovevano rimanere legati alla Tradizione. Ma i cardinali si fanno fecero duri: «se mantenete la vostra Dichiarazione, allora non potremo riconoscere la Fraternità, non potremo riconoscere il vostro seminario…». Detto questo, monsignor Lefebvre concluse: «io non vedo come posso cambiare la mia opinione».

 

Dopo un secondo incontro il 3 marzo, in cui gli fu stato detto: «il vostro manifesto è inaccettabile», mons. Lefebvre commentò per i suoi seminaristi: «Vediamo il degrado sempre più evidente della morale, della fede, della liturgia: non possiamo restare indifferenti a questa distruzione, non è possibile!»

 

«Ecco perché dobbiamo mantenere assolutamente la nostra fermezza, e non dubitare nemmeno per un momento della legittimità della nostra posizione. Non siamo noi che giudichiamo, non sono io che mi faccio giudicare. Io non sono che l’eco di un magistero limpido, professato da 2000 anni. È il magistero della Chiesa, è la Tradizione della Chiesa che condanna (…)».

 

«Diranno: “Vi separate da Roma!”. Al contrario, ad essa siamo legati più di ogni altro! Siamo legati a questa Roma che ha sempre professato la verità, professato il magistero della Chiesa. Questa Roma è nostra e noi la facciamo nostra. Ecco perché non dobbiamo preoccuparci».

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…E un motivo di condanna

La sentenza cadde il 6 maggio 1975. In tre parole: soppressione della Fraternità, chiusura del seminario e nessun sostegno a mons. Lefebvre finché avrebbe mantenuto le idee espresse nel suo manifesto.

 

«È attorno alla tua dichiarazione pubblica, nella rivista Itinéraires, che il nostro scambio è iniziato e principalmente continua. Non potrebbe essere altrimenti. (…) Tuttavia, tale Dichiarazione ci è sembrata inaccettabile sotto ogni punto di vista. È impossibile conciliare la maggior parte delle affermazioni contenute in questo documento con l’autentica fedeltà alla Chiesa, a coloro che ne sono responsabili e al Concilio dove si sono espressi il pensiero e la volontà della Chiesa».

 

Jean Madiran commentò laconicamente: «inaccettabile sotto ogni aspetto. In una sentenza ufficiale non è possibile supporre che si tratti di un lapsus o di un’imprecisione redazionale». L’unico argomento della sentenza del cardinale è il seguente: mons. Lefebvre è accusato di invitare tutti «a subordinare le direttive che provengono dal papa al proprio giudizio».

 

Non solo, continua Madiran, «è una falsificazione»; ma «quando, in nome del papa, le congregazioni romane favoriscono o impongono l’autodemolizione della Chiesa e l’apostasia immanente, non è per suo giudizio, è per il Credo, è per la virtù teologale della fede, è a motivo della Tradizione cattolica che ogni battezzato è chiamato a rifiutare e a resistere».

 

Nel mese di giugno, presentando un appello contro la soppressione della Fraternità e del Seminario, mons. Lefebvre indirizzava a Paolo VI il seguente rapporto, in cui si afferma chiaramente il ruolo assolutamente centrale svolto dalla sua Dichiarazione: «constatando che i visitatori sono venuti con il desiderio di allinearci sui cambiamenti avvenuti nella Chiesa dopo il Concilio, ho deciso di chiarire il mio pensiero davanti al seminario».

 

«Non potevo aderire a questa Roma rappresentata dai visitatori apostolici, che si permettevano di trovare normale e fatale l’ordinazione delle persone sposate, che non ammettevano una verità immutabile, che esprimevano dubbi sul modo tradizionale di concepire la Risurrezione di Nostro Signore (…)».

 

«Il 13 febbraio, 3 marzo, è stata discussa solo la mia Dichiarazione del 21 novembre. Con veemenza, il cardinale Garrone mi ha rimproverato per questa Dichiarazione, arrivando a darmi del “pazzo”, dicendomi che “facevo la parte di Atanasio”, e questo per venticinque minuti. Si è aggiunto il cardinale Tabera, dicendomi che “quello che fate è peggio di quello che fanno tutti i progressisti”, che “io avevo rotto la comunione con la Chiesa (…)».

 

«Ho cercato invano di formulare argomentazioni, spiegazioni, che indicassero il significato esatto della mia Dichiarazione. Affermavo che rispettavo e rispetterò sempre il Papa e i vescovi, ma che non mi sembrava scontato che criticare alcuni testi del Concilio e le riforme che ne sono seguite equivalesse a una rottura con la Chiesa; che mi sforzavo di individuare le cause profonde della crisi che attraversava la Chiesa, e che tutta la mia azione dimostrava il mio desiderio di costruire la Chiesa e non di distruggerla. Ma nessun argomento è stato preso in considerazione (…)».

 

«Così, dopo questo processo farsa, mi è stata fatta questa cosiddetta visita favorevole con qualche leggera riserva e due interviste incentrate solo sulla mia Dichiarazione per condannarla completamente, senza riserve, senza sfumature, senza esame concreto e senza che mi fosse consegnato nemmeno un testo scritto, e ho ricevuto una dopo l’altra una lettera da Sua Eccellenza monsignor Mamie sopprime la Fraternità e il Seminario con l’approvazione della Commissione Cardinalizia, poi una lettera della Commissione che conferma la lettera di Mons. Mamie, senza che venga formulata un’accusa formale e precisa sulle proposte avanzate».

 

«Ho dovuto quindi mandare via immediatamente centoquattro seminaristi, tredici insegnanti e personale del seminario, due mesi prima della fine dell’anno scolastico! Basta scrivere queste cose per indovinare cosa potrebbero pensare le persone che hanno ancora un po’ di buon senso e di onestà».

 

Un «segno di contraddizione»

Presente al centro delle condanne che colpirono mons. Lefebvre nel 1975, la sua Dichiarazione fu allora oggetto di discussioni tra i docenti del seminario di Econe. Alcuni avrebbero voluto correggerlo e scrivere una «dichiarazione moderata»: «Monsignore, ritirate il vostro primo testo e firmate questo!» Ma mons. Lefebvre non poteva cedere. Ai cardinali disse: «Potrei scriverlo diversamente, ma non potrei scrivere altro».

 

Poi quattro o cinque professori si ritirarono: il testo del 21 novembre divenne segno di contraddizione. Mons. Lefebvre lo ricorderà due anni dopo: «i professori avrebbero voluto che accettassi il Concilio! Avrei dovuto dimostrare la mia totale accettazione del Concilio e oppormi solo alle infelici interpretazioni del Concilio».

 

«Non potevo accettare una formula come questa. Perché, in coscienza e in verità, non credo che possiamo accettarlo. Dire che non c’è niente nel Concilio, che il Concilio è perfetto, che è un concilio come gli altri, che dobbiamo accettarlo come gli altri, e che ci sono solo interpretazioni e abusi del Concilio…»

 

Questo atto d’accusa al Vaticano II gli sembrava inevitabile: «perché nella famosa Dichiarazione faccio allusioni al Concilio? Questo Consiglio è pericoloso. Ci sono tendenze liberali, tendenze moderniste, che sono molto pericolose perché hanno poi ispirato le riforme che sono seguite e che hanno messo a terra la Chiesa. Giudichiamo l’albero dai suoi frutti, dobbiamo solo vedere».

 

I fatti stessi gli diedero ragione. Ai seminaristi, nel settembre 1975, spiegava: «il Santo Padre, i cardinali, in definitiva condannano il nostro seminario a causa della sua Tradizione! Per il fatto che manteniamo le tradizioni, ci troviamo, per loro, in opposizione al Concilio e quindi in disobbedienza alla Chiesa! (…)»

 

«Logicamente è quindi il Concilio che rompe con la Tradizione! Impossibile immaginarlo diversamente…! Poiché manteniamo gli orientamenti tradizionali, siamo condannabili in nome del Concilio: è quindi dal Concilio che è uscito qualcosa di nuovo, qualcosa che si oppone alla Tradizione…»

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Sulla cima di una montagna

Tuttavia, se la Dichiarazione appare chiaramente come una vera e propria posizione anticonciliare, non può essere ridotta a questa contraddizione. Sorge più in alto, su un’alta vetta da dove trascende ogni dialettica, in un clima di freschezza autenticamente cattolica.

 

«”Allora sei contro il papa, sei contro la Chiesa”, ci diranno. Non siamo affatto contro il Papa! Siamo i migliori difensori del Papa! (…) Siamo attaccati come la pupilla dei nostri occhi a ciò che il papa ha di più caro: difendere il deposito della fede, trasmettere il deposito della fede, le rivelazioni degli Apostoli, che furono date agli Apostoli da Nostro Signore».

 

«Quindi non siamo affatto contro il papa, anzi!». E in una lettera al Santo Padre, il 24 settembre 1975, «ribadiva quanto aveva affermato nella prima parte della sua Dichiarazione»: il suo «attaccamento senza riserve alla Santa Sede e al Vicario di Cristo», dicendosi devoto «con tutto il cuore al successore di Pietro, “maestro della verità”».

 

Ma la stessa Dichiarazione che lo preserva dalla separazione dal Papa, lo preserva anche dalla sottomissione servile a quest’ultimo. È ancora questo testo che citerà a Mons. Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, in un incontro del 19 marzo 1976: «nessuna autorità, anche la più alta nella gerarchia, può obbligarci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica chiaramente espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli».

 

E commenterà: «”nessuna autorità, anche la più alta”: quindi il Papa, anche il Papa?» Monsignor Lefebvre non vede come si possa discutere una frase del genere, gli sembra ovvia… «Ma, insiste Mons. Benelli, è il Papa il giudice della verità, è il Papa il criterio della verità, è il Papa che decide della verità».

 

– «Penso che il Papa debba trasmettere la verità, ma non è lui che fa la verità. Lui non è la verità, deve trasmettere la verità».
– «In ogni caso non siete voi a fare la verità!»
– «Non sono io. Ma un bambino che conosce il catechismo conosce la verità, e il Papa non può opporsi alla verità che è nel catechismo e che i papi insegnano da venti secoli».

 

Magnifica risposta di saggezza e semplicità!

 

Monsignor Benelli supplica «Lei deve, monsignore, fare atto di sottomissione. Dobbiamo fare un atto di sottomissione! Direte che avevate torto; in secondo luogo, che accettate il ​​Concilio, accettate le riforme post-conciliari, accettate gli orientamenti post-conciliari dati da Roma».

 

«Accettate la Messa di Paolo VI nella vostra casa e in tutte le case che dipendono da voi; e vi impegnate a far sì che anche tutti coloro che vi hanno seguito finora vi seguano nel cambiamento che dovete operare e nella disciplina che dovete imporre loro per ritornare alla disciplina della Chiesa! (…) Vi assicuro: se firmate questo atto, per il vostro seminario non c’è più nessun problema, non c’è più nessun problema, nemmeno materiale!»

 

Ma monsignor Lefebvre, incrollabilmente fedele alla linea chiara della sua posizione di principio, resta inaccessibile a queste intimidazioni. Vuole soltanto sottomettersi alla verità della Tradizione della Chiesa, anche se per farlo deve affrontare l’opposizione più dolorosa.

 

Nessuna pressione lo separerà dalla Roma eterna; nessuna contraddizione indebolirà il vigore del suo attaccamento a Pietro; nessuna paura lo distrarrà dalla sua fondamentale opposizione a tutti gli orientamenti liberali che demoliscono la Chiesa, anche se provengono da un concilio o dal Papa stesso.

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Una professione di fede

Nel 1982, mons. Lefebvre legge ai suoi seminaristi un breve testo scritto alla fine del 1974, che suona come un’eco della sua dichiarazione del 21 novembre, e ne ricorda lo spirito, intriso di fede:

 

«Invece di comprendere le ragioni che ci obbligano a mantenere la dottrina tradizionale, la liturgia tradizionale, e ad autorizzarci a continuare, anche solo in via sperimentale, ciò che stiamo facendo per dare alla Chiesa dei veri sacerdoti come li ha sempre avuti, l’attuale Curia Romana utilizza tutti i mezzi di pressione morale per farci accettare l’orientamento liberale della Chiesa».

 

«Cioè, una nuova espressione della fede, della catechesi, più vicina al modernismo che alla Tradizione e al Magistero; la nuova liturgia, con la nuova concezione del sacerdote, più vicina al protestantesimo che alla dottrina ortodossa».

 

«Questo orientamento liberale, che ha trionfato al Concilio Vaticano II, è proprio quello dei liberali e dei cattolici liberali che sono stati più volte condannati dai romani pontefici. Pio IX li designa come i peggiori nemici della Chiesa, come traditori; Leone XIII condanna definitivamente le loro teorie, che sono false, basate sui principi della Rivoluzione francese; San Pio X condanna l’applicazione di questo liberalismo nel modernismo e nel Sillon».

 

«Siamo quindi posti, senza che lo abbiamo voluto né desiderato, di fronte a una scelta da fare: ovvero, con il pretesto dell’obbedienza, entrare in questo orientamento liberale, distruttivo della fede e di ogni valore cristiano, orientamento forzato da parte di coloro che detengono potere nella Curia Romana».

 

«Oppure mantenere le fonti e i bastioni della fede, seguendo tutti i papi del XVIII e XIX secolo, e del XX secolo fino a Giovanni XXIII, fino a prima del Concilio, e vivere in un clima generalizzato di sfiducia, di critica da Roma e dai vescovi».

 

«Ovviamente la nostra scelta è fatta. Essa è più che mai per l’ortodossia della fede e per la Tradizione custode della fede. Vogliamo credere e vivere in comunione con la Chiesa cattolica di sempre, di tutti i santi, di tutti i papi che hanno propagato e trasmesso la vera fede cattolica».

 

«Siamo in comunione con la Chiesa di oggi in quanto essa continua la Chiesa di ieri. Ma non lo riconosciamo in questo atteggiamento e in queste convinzioni liberali, protestanti e moderniste».

 

«Non possiamo quindi accettare tutto ciò che, nella recente riforma, si ispira a questi principi, come i nuovi catechismi, la nuova catechesi, le meditazioni che sostituiscono i ritiri spirituali, la riforma liturgica ispirata ad un falso ecumenismo, la riforma del diritto pubblico della Chiesa ispirata ad una falsa libertà religiosa».

 

«Il tradimento della Chiesa da parte dei suoi chierici e dei suoi cattolici liberali porta frutti amari di cui il mondo intero è testimone, di cui alcuni si rallegrano e altri soffrono crudelmente».

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La «carta» della Fraternità

Nel 1985, mons. Lefebvre, che aveva appena festeggiato il suo ottantesimo compleanno, ripercorreva i vent’anni trascorsi. Rispondendo a certe insinuazioni, confida semplicemente: «non credo, in verità, di aver cambiato in alcun modo il mio atteggiamento verso tutto ciò che è accaduto nella Chiesa».

 

Rileggendo ai suoi seminaristi, tra gli altri testi, quello del 21 novembre 1974, dice: «continuiamo a dirlo! Questa è la verità».

 

Ma è proprio il 9 giugno 1988, alla vigilia delle consacrazioni episcopali che farà tre settimane dopo, che questa Dichiarazione risplende soprattutto con la sua luce e la sua forza silenziosa.

 

«Forse saremo condannati, questo non è sicuro… Forse taceranno, forse ci condanneranno… Ci ritroveremo come eravamo nel 1976, al tempo della sospensione».

 

«Potrebbero esserci alcuni che ci lasceranno. Per paura di Roma! È assurdo! Sempre questa paura di essere in difficoltà con Roma, come se Roma fosse ancora la Roma normale!»

 

«Ma, alla fine, da chi siamo condannati? E perché siamo condannati? Questo è quello che dovete vedere! Siamo condannati da persone che non hanno più la fede cattolica… Assisi è la negazione della fede cattolica, in pubblico! È stato fatto di nuovo a Santa Maria in Trastevere! Questo non è possibile, è inimmaginabile! Non è più Roma! Questa non è la vera Roma!»

 

Poi, con commovente serenità in un’ora così grave, il prelato prosegue:

 

«Dobbiamo sempre tornare alla Dichiarazione del 21 novembre 1974. È veramente la nostra carta».

 

«La rileggevo per leggervela di nuovo… credo che avrei potuto firmarla in tutti questi anni, e la firmerei ancora adesso: è la stessa cosa. Siamo esattamente nello stesso stato d’animo! Non siamo cambiati di una virgola! Questo è ciò che difendiamo e ciò che vogliamo assolutamente difendere! Contro questa Roma modernista».

 

«Quando tutto sarà cambiato, quando quelli se ne saranno andati e ci saranno persone che sono per la Tradizione della Chiesa, allora non ci saranno più problemi, ovviamente!»

 

Nell’ottobre 1988 vi tornerà un’ultima volta: «dovevamo scegliere! Non c’è niente da fare. Dovevamo scegliere tra la vecchia fede e queste cose nuove. Per questo considero ancora attuale la Dichiarazione che ho fatto il 21 novembre, dopo la visita dei prelati venuti l’11 novembre 1974, dicendo: Scegliamo la Roma di sempre! Non vogliamo la nuova Roma modernista».

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Conclusione

Monsignor Lefebvre è stato fedele a questa carta fino alla fine. Avendo assicurato, attraverso le consacrazioni episcopali, la sopravvivenza della Tradizione della Chiesa, poté cantare il suo Nunc dimittis e restituire la sua anima a Dio nella pace. Aveva combattuto la buona battaglia fino alla fine.

 

Nella cripta della chiesa del seminario di Econe, sulla tomba dove riposano le sue spoglie mortali, leggiamo incise queste parole: «Tradidi quod et accepi. Ciò che ho ricevuto, te lo ho trasmesso».

 

Cosa ha ricevuto? Una fede profonda nella persona eterna di Gesù Cristo, un attaccamento incrollabile ai tesori della Chiesa che sono il sacrificio della Messa e del sacerdozio, una speranza incrollabile nel trionfo della Regalità di Cristo e, a coronamento di tutto, una carità che ha consumato la sua anima al servizio della Chiesa, eco vibrante della carità di Dio stesso.

 

Sono queste ardenti disposizioni che furono espresse in modo così eloquente nella sua dichiarazione del 21 novembre 1974, e che ne spiegano la profondità e la saggezza.

 

Sotto il coperchio di pietra, con gli occhi chiusi, riposa in pace il valoroso prelato. Ma la sua Dichiarazione resta: brilla come un faro, continuando a illuminare i passi dei suoi figli.

 

«La Tradizione appartiene alla Chiesa; è in essa e per essa che la custodiamo in tutta la sua integrità, “in attesa che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano il cielo della Roma eterna”» (Messaggio del Superiore generale e dei suoi Assistenti in occasione del cinquantesimo anniversario della dichiarazione del 21 novembre 1974).

 

Somma di articoli previamente apparsi su FSSPX.News

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Immagine da FSSPX.News.

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Corredentrice e Mediatrice: cosa chiedevano i vescovi alla vigilia del Vaticano II

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Il numero di novembre 2025 del Courrier de Rome assume un significato particolare alla luce della Nota Mater populi fidelis del cardinale Fernández, che rifiuta i titoli di Corredentrice e Mediatrice di tutte le Grazie. Per cogliere la portata di questa rottura, i due studi storici di padre Jean-Michel Gleize costituiscono il cuore di questo numero e ne costituiscono l’interesse principale.   Questi articoli richiamano alla mente un fatto significativo, spesso dimenticato: alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’episcopato cattolico chiese quasi all’unanimità una definizione di Corredenzione e Mediazione Universale. Le citazioni che l’autore estrae dagli Atti conciliari sono sorprendenti. Il vescovo di Malta, l’arcivescovo Galea, vedeva in questa definizione «un grandissimo aiuto» per riunire i cristiani separati, affermando che questa verità sarebbe stata accolta «come la voce della Madre Celeste che vuole riportare tutti i suoi figli all’unità».   I vescovi spagnoli, da parte loro, hanno affermato inequivocabilmente che Maria «merita di essere Mediatrice presso il Mediatore» e che, secondo San Pio X, è «la prima dei ministri a distribuire le grazie».   La Polonia, fedele alla sua tradizione mariana, ha espresso con forza il sentimento del popolo cristiano. Il vescovo Blecharczyk ha osservato che tutti – «ignoranti o dotti» – credono che Maria, suscitata da Dio, sia «la collaboratrice dell’opera della Redenzione” e “la Mediatrice di tutte le grazie che scaturiscono dalla Redenzione come dalla loro fonte».

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Quanto al vescovo Czerniak, egli ha affermato che questa dottrina è ormai così chiara, così profondamente radicata nella Tradizione e nell’insegnamento dei papi, che deve essere resa professione di fede: «La Beata Vergine Maria deve essere dichiarata Mediatrice di tutte le grazie […] perché la volontà di Dio l’ha creata come Mediatrice universale».   Questi testi dimostrano che la dottrina di Maria, Corredentrice e Mediatrice, non si basava sulle opinioni di teologi isolati, ma sulla voce unificata della Chiesa docente, che vedeva in questa definizione un bene spirituale importante per i fedeli e persino un mezzo per convertire i non cattolici. Le poche obiezioni registrate – solo due autentiche – non riguardavano mai la dottrina in sé, ma piuttosto considerazioni di opportunità pastorale.   Rivelando questa unanimità episcopale, padre Gleize dimostra che la Nota del Dicastero, riducendo la cooperazione di Maria a un mero esempio, «non riflette accuratamente la dottrina del Magistero della Chiesa».   Questo numero offre quindi uno spunto cruciale per comprendere l’attuale dibattito mariano: lungi dall’essere spunti devozionali, Corredenzione e Mediazione Universale sono al centro della fede cattolica trasmessa dai pastori. Leggere questo dossier significa riscoprire questa profonda armonia, oggi oscurata, tra la Tradizione viva della Chiesa e la verità sulla Madre di Dio.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Immagine: Chiesa cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso (Grove City, Ohio) – Statua della Beata Vergine Maria Immagine di Nheyob via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
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La Vergine Corredentrice contro il Serpente Maledetto: omelia dell’Immacolata di mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò nell’Immacolata Concezione della Santa Vergine Maria

 

 

 

 

Tu Reparatrix

Omelia nell’Immacolata Concezione della Beatissima Semprevergine Maria

 

Tuti sumus te tutante,
Virgo potestatis tantæ,
Dei ligans omnipotentiam.

Fa’ che possiamo esser protetti da Te,
Vergine che hai avuto tanto potere da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.

Sequentia O mira claritas

Questo giorno benedetto, dedicato alla celebrazione dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, ci offre l’occasione di tessere una pubblica e solenne riparazione all’onore dell’Augustissima Madre di Dio, dopo che un odioso documento vaticano – la Nota Mater populi fidelis – ha osato dichiarare «sempre impropria» l’attribuzione del titolo di Mediatrice e Corredentrice a Colei che il Padre ha voluto come Figlia, il Figlio come Madre e lo Spirito Santo come Sposa.

 

Quel serpente maledetto, cui Ella schiaccerà il capo, continua ad insidiarLe il virgineo calcagno, sprizzando il veleno mortifero che già vomitarono gli eresiarchi di tutti i tempi. A riprova dell’inaudito affronto alla Santissima Madre, valga lo scandalo dei semplici, che La venerano come Addolorata Corredentrice e come Mediatrice di tutte le Grazie.

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Nel celebrare le glorie della nostra Signora e Regina, non possiamo non vedere nella Sua Concezione Immacolata la necessaria premessa e preparazione non solo dell’Incarnazione del Verbo Eterno del Padre, ma anche dell’immolazione della Madre del Verbo Incarnato, vittima pura, santa e immacolata per Grazia specialissima, prima creatura degna di unirSi al Figlio nell’oblazione al Padre.

 

Chi più di Lei, preservata da ogni macchia, sarebbe stato degno di tale privilegio? Chi più di Lei avrebbe avuto titolo di offrire la propria mistica co-Passione al Sacrificio perfetto di Nostro Signore? E come avrebbe Ella potuto rispondere con maggiore carità all’esempio del divin Figlio, se non lasciandoSi trafiggere, con altrettanta carità, dalle acuminate spade che fanno di Lei la Mater dolorosa e la Regina Crucis?

 

Nostra Signora è infatti Regina della Croce in virtù della co-Passione e della Corredenzione. Se Cristo regna dalla Croce – Regnavit a ligno Deus; se la Croce è il trono di gloria della divina e universale Signoria del Re dei Re; come avrebbe potuto l’Augustissima Regina meritare questo titolo, se non allargando misticamente le proprie braccia sulla Croce del Figlio?

 

Mediante la mistica partecipazione alla Passione del Salvatore, Ella è Reparatrix, Riparatrice dei peccati grazie ai meriti acquisiti ai piedi della Croce: Redentrice anch’Ella, soli secunda Numini, seconda solo a Dio, e dunque Corredentrice, Stella polare nella notte oscura che riverbera la sola luce del Sol Justitiæ. Infine, grazie ai quei meriti Ella è costituita Mediatrix, Mediatrice di tutte le Grazie: tanto quelle proprie, quanto quelle infinite del Figlio. Ella è amministratrice del Tesoro dei meriti infiniti di Cristo, al quale si aggiungono i meriti dei Santi e – vale ricordarlo – anche i meriti di quanti, nel corso della loro vita, hanno completato nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo, per il bene del Suo Corpo che è la Chiesa (Col 1, 24).

 

L’offerta della Vergine – la più perfetta delle creature, eletta a Tabernacolo dell’Altissimo ed Arca dell’Alleanza – non poteva non costituire il più prezioso ornamento del Sacrificio di Cristo, e il più fulgido esempio di carità per noi, membra vive di quel Corpo Mistico che tutti ci unisce sulla Croce, memori delle parole del Salvatore: Chi vuole venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua (Mt 16, 24).

 

Quale guida migliore, in questa via Crucis personale ed ecclesiale, se non Colei che accompagnò il Signore con le Pie Donne lungo il Calvario? Colei che il Signore agonizzante ci ha dato per Madre e alla Quale ci ha affidati come figli? Colei che Lo ha visto spirare pro peccatis suæ gentis, per i peccati del Suo popolo? Colei che ne accolse il Corpo esanime e Lo pose nel sepolcro? Lo ripetiamo, forse senza attenzione, quando cantiamo la sequenza Stabat MaterCrucifixi fige plagas cordi meo valide: imprimi a fondo nel mio cuore le piaghe del [Tuo Figlio] Crocifisso.

 

La Vergine Immacolata – Colei che mai avrebbe avuto bisogno di espiare colpe dalle quali era stata preservata – si fa Vittima con la Vittima divina, varca l’unica soglia che ammette al Cielo e da quella gloria eterna con il Figlio continua, come Madre e Avvocata, a riversare i fiumi di Grazie che la Provvidenza Le ha affidato come Tesoriera di Dio.

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Viviamo in un tempo di grandi sovvertimenti. La Vergine Santissima ci ha rassicurati: Alla fine, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Nella certezza del trionfo finale, cari fratelli, è contenuta anche la certezza della Croce, passaggio obbligato per una vera sequela Christi. La Regina Crucis ci dice: alla fine. Alla fine della salita verso il Calvario, perché è da quel trono che Ella ha misticamente conquistato unendoSi al Figlio nel Sacrificio al Padre che la Regina Crucis trionfa con il Suo divin Figlio. Dal trono della Croce, Ella regna come dispensatrice di tutte le Grazie che l’onnipotenza divina Le affida per amministrarle.

 

Affidiamo a Lei la Barca di Pietro, perché Ella la guidi e la accompagni nella passio Ecclesiæ come già accompagnò il Suo divin Figlio, Capo del Corpo Mistico, nella Sua dolorosa Passione, verso il trionfo della Pasqua eterna. Affidiamoci alla Vergine Immacolata con le parole della Sequenza O mira claritas:

 

Fa’ che possaiamo esser protetti da Te,
Vergine Immacolata,
che tanto potere hai avuto da Dio,
da farTi amministrare la Sua onnipotenza.

 

E così sia.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

8 Dicembre MMXXV
In Conceptione Immaculata B.M.V.

 

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Immagine: Federico Barocci (1535–1612), Immacolata Concezione (circa 1575), Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.

Immagine di Mongolo1984 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

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Spirito

Io difendo Ambrogio e Ambrogio difende me

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Come ogni anno Renovatio 21 pubblica questo articolo nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano. Facciamo gli auguri a tutti i nostri lettori milanesi, che sono tanti – per Renovatio 21 Milano è di gran lunga la città con più visitatori, e non poteva essere altrimenti, essendo città italiana di massima intelligenza. Rinnoviamo, ancora una volta, l’appello a pregare il Santo milanese, perché la necessità, infestata da eretici e corrotti, da violenti e da volgari, da invertiti e disperati, possa risalire dall’abisso in cui costoro la stanno spingendo. Costoro non conoscono Ambrogio, non sentono il suo calore, non sentono il bisogno della sua protezione. Il flagello di Ambrogio ci aiuti a cacciare da Mediolano parassiti e demòni. A tutti coloro che comprendo quanto stiamo scrivendo, diciamo: Bon Sant Ambrœus a tucc!   Fu Penelope, una ragazza greca, a mostrarmelo per la prima volta.   In realtà mi porse una cartolina. La foto di un mosaico: un uomo dell’antichità, con la barba i baffi e i capelli corti. Un volto semplice, immerso in paramenti che invece parevan importanti. Sopra questa figura c’era scritto solo «AMBROSIVS».   «È Ambrogio. È il protettore di Milano. Tenete questa foto con voi».   Ciò accadeva, a Milano, quasi una ventina di anni fa. Per me, più di un’era geologica. Un altro pianeta, un’altra vita.   Si era, appunto, nei giorni di Sant’Ambrogio. Vivevo a Milano da un anno ma io mai avevo sentito il bisogno di sapere chi fosse Ambrogio. Mai avevo avvertito la necessità di guardarlo in faccia. Del resto, una faccia non poteva averla. Sant’Ambrogio era una festa, non una persona.   Eppure, pure in quella passata incarnazione del mio essere in cui la Fede era remota, avevo compreso che il gesto di Penelope aveva un valore inusuale. Non mi aveva passato un disco (allora c’erano) e neppure un libro (di quelli che non leggi e non restituisci). Sentivo che voleva trasmettermi qualcosa di speciale. Quasi un oggetto magico, un talismano: all’epoca le mie categorie cerebrali erano quelle.   Penelope aveva studiato negli anni Novanta con quella che allora era la mia fidanzata, una ragazza tedesco-americana.   Avevano studiato quella cosa che si chiama «design», che allora era quasi una cosa seria. Lo avevano fatto a Londra, al tempo centro di rimescolamento della intraprendenza giovanile mondiale, quel tipo di frullatore dove gli ingredienti erano americani, giapponesi, libanesi, russi, austriaci, coreani, fiamminghi, croati, i cui schizzi ormai apolidi si riversavano ad ondate nelle case di moda o negli studi pubblicitari di Milano. Erano giorni corruschi e distratti.   Niente di quel mondo poteva portarmi a pensare a quella inspiegabile scintilla che vedevo negli occhi di Penelope, un qualcosa che allora non potevo sapere come chiamare, ma ora sì: devozione. Penelope aveva ritrovato la Fede proprio in quel bailamme di colore e nichilismo che immergeva la nostra giovinezza.   Era cristiana ortodossa, anche questo scuoteva la mia ignoranza. Ma come, una ortodossa che mi parla di un santo cattolico?   «I santi venuti prima dello scisma sono santi per tutti» mi edusse con quell’accento soave. Io mica lo sapevo.

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Devozione

Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio.   Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso.   C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini.   Ero entrato nella cripta.   Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi.   Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre.   Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro?   La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione.   La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica.   Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi.   A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa.   Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio.   Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli.   Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile.   Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città?   Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade?   Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi.   Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.

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Tales ambio defensores

Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano.   Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica.   Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo.   Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio.   La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona.   Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione.   Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri.   In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare.   Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso.   «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani).   Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».

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Nemici di Ambrogio

Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici.   Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui.   Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare.   Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943.   Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria.   Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita.   Vogliono colpire Ambrogio.   Vogliono colpire la sua devozione.   Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio.   Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini.   Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.

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Don Ricossa mi ricorda, con tanto di documentazione, «che Cardini è stato membro del comitato scientifico della rivista massonica Ars Regia; che Cardini ha ricevuto e accettato un’onorificenza dal Grand’Oriente d’Italia; che Cardini ha scritto la prefazione ad un libro sui Templari del figlio dell’allora Gran Maestro della Massoneria Raffi, con i proventi del libro che vanno all’opera massonica degli Asili notturni; che Cardini ha partecipato a un convegno della Gran Loggia d’Italia, obbedienza di piazza del Gesù; che Cardini si riconosce nella Leggenda medioevale dei tre anelli, ripresa dal massone Lessing, e nell’idea di cristiani, ebrei e musulmani “fratelli in Abramo”; che per Cardini ha ragione Gad Lerner nel dire che Gesù Cristo non è cristiano ma ebreo, essendo il Cristianesimo una invenzione di Saulo di Tarso; che per Cardini non è neppure storicamente certo che Gesù Cristo sia esistito; che per Cardini il film su Ipazia, martire pagana vittima dei cristiani, è storicamente ineccepibile, e che d’altronde il Cristianesimo si è imposto con la violenza ben più che l’Islam. Per cui non stupiamoci se le preferenze di Cardini vadano a preti come don Gallo: “posso attestare che pochi come lui nella storia del cristianesimo sono stati altrettanto fedeli al messaggio del Cristo e alla missione della Chiesa nel mondo”».   «Quando ero vice presidente del CNR — mi dice Roberto de Mattei — organizzai a Roma un seminario internazionale sulle Crociate, ma ritenni di non invitare il professor Cardini, perché il suo è un lavoro di decostruzione dell’idea di Crociata, incompatibile con i risultati della più recente e accreditata letteratura scientifica. Cardini mi telefonò furioso e lo giudicai una mancanza di stile».   Lo stesso lavoro demolitorio e desacralizzante il Cardini lo porta su Ambrogio.   L’episodio che dà l’avvio all’elezione di Ambrogio all’episcopato, e cioè il bambino che urla in Chiesa «Ambrogio Vescovo!» trascinando con sé tutta Milano, è per Cardini una «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un evento da spin doctor in cui la «spontaneità popolare è accuratamente pilotata».   Tuttavia è la sottomissione di Teodosio che infastidisce di più il professore, «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».   Il famoso episodio in cui il vescovo Ambrogio piega l’Imperatore inducendolo alla penitenza rappresenta per l’autore qualcosa di intollerabile, perché emblema perfetto di un «progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».   In breve, quel che il Cardini non può sopportare è il primato della Chiesa sul mondo. Teodosio costretto alla penitenza dal vescovo Ambrogio per la strage di Tessalonica (Salonicco, in Grecia…) è per il vecchio studioso la base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio» ha delineato quella Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di Papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».   Comprendete? Papa Francesco — in effetti, il Papa più sottomesso all’Impero, l’Impero del Male — come antidoto ai danni provocati da Ambrogio.   La Chiesa non deve demandare al potere la penitenza se questo commette ingiuste stragi: capite l’attualità di questa richiesta?   Una Chiesa assoggettata al potere (come quella che stiamo vedendo oggi) è per il toscano la condizione giusta per la sposa di Cristo: «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene», tuttavia «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto»   Insomma, «forse senza di lui non avremmo avuto un conflitto tra mondo cattolico e modernità».   Tradotto: senza Ambrogio il cattolicesimo sarebbe naturaliter modernista.   Prendo questi virgolettati, che in me sortiscono l’effetto di amar ancora di più il mio Santo, da un articolone celebrativo che al libercolo in questione dedicò il Paolo Mieli sul primo quotidiano nazionale.   Una di quelle doppie paginate, sempre dense ed interessantissime a dire il vero, che una volta alla settimana consentono al pluri-ex-direttore del Corrierone di recensire qualche testo più o meno revisionista.   Il Mieli, a dire il vero, potrebbe aver qualche cavallo coinvolto nella corsa. Egli è figlio dell’ex agente del Psychological Warfare Branch dei servizi segreti britannici Ralph Merrill (all’anagrafe egiziana Renato Mieli) poi direttore dell’ANSA e de L’Unità finito però, poco dopo, ad esaltare l’ultraliberismo di Hayek e Von Mises (e per questo i fondi di Confindustria non gli sono mancati); soprattutto, possiamo dire che il Mieli Paolo è, come il padre, di origine ebraica.   Mai vorrei che vi fosse, in questo petardino editoriale contro Ambrogio, l’antico pregiudizio che vede il Santo come antisemita. Perché Ambrogio affrontò a testa alta l’Imperatore Teodosio anche un’altra volta.

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Nel 388, a Callinicum (ora Raqqa, l’ex-capitale dell’ISIS), una sinagoga fu data alle fiamme. Il governatore romano locale, sostenuto da Teodosio, decise che a pagare la ricostruzione dovesse essere il vescovo locale, ritenuto sobillatore degli incendiari.   Ambrogio scrisse all’Imperatore il suo dissenso:   «Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? (…) Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani (…) Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi?»   Ambrogio aveva centrato già allora tutta la questione dell’incompatibilità tra Stato e Chiesa quando per lettera chiese a Teodosio: «che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [cioè, del mantenimento dell’ordine pubblico, ndr] o il motivo della religione?».   È la medesima domande che si pose Andreotti quando capì che se non votava la legge sul libero aborto in Italia il suo governo sarebbe caduto. Sappiamo come si rispose. Lo sanno anche i 6 milioni di bambini ammazzati da quella legge, più aggiungiamo magari qualche milionata di vittime della conseguente pratica genocida della fecondazione assistita, che per ogni bambino sintetico nato ne ammazza almeno una ventina — quindi, altri milioni, molti di più, seguiranno.   Ambrogio, a differenza dei democristiani e dei loro patti con le potenze infernali, non faceva compromessi.   «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga — scrisse in un’altra epistola all’Imperatore — sì, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Rileggete: «perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Anche a secoli di distanza, come pensate che lo possano perdonare ebrei, falsi cristiani, servi degli dèi della morte?

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Tradidi quod et accepi

Voglio concludere.   Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta.   Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente?   No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace».   Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere.   Una cosa però l’ho fatta.   Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio.   S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano.   Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime.   Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua.   Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile.   Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana.   Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io.   Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità.   Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me.   Roberto Dal Bosco

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Immagine: Anonimo lombardo (inizio XVII secolo), Statua di Sant’Ambrogio di Milano nel Museo del Duomo, Milano. Statua a guglia in marmo di Candoglia. Immagine di Vassia Atanassova via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International  
       
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