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Geopolitica

Libano, scenari da guerra civile abortita: rivolte, incendi, uccisioni

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews.

 

 

Gruppi violenti, anti-Hezbollah, hanno manifestato in piazza dei Cannoni e poi hanno occupato e vandalizzato il ministero degli Esteri. Bruciati documenti importanti e delicati. Distrutti documenti anche al ministero dell’Ambiente e dell’Economia. Ucciso un soldato della sicurezza. Il premier Hassan Diab propone elezioni parlamentari anticipate. Il patriarca maronita chiede elezioni anticipate e un’inchiesta internazionale.

I «manifestanti» non rappresentavano tutte le confessioni, il popolo, i poveri, bensì la metà ideologica, quella anti-sciita, anti-Hezbollah, anti-Iran, anti-Cina e anti-Russia

Beirut non ha tregua. Ieri, sebbene la saggezza popolare e la maggior parte dei giovani voglia la calma, gestendo i soccorsi, inviando messaggi a chat di whatsapp, mani oscure che lavorano nell’ombra sono riusciti a riempire piazza dei Cannoni non con gruppi pacifici e allegri, ma con persone violente e distruttrici.

 

Questa volta i «manifestanti» non rappresentavano tutte le confessioni, il popolo, i poveri, bensì la metà ideologica, quella anti-sciita, anti-Hezbollah, anti-Iran, anti-Cina e anti-Russia.

 

Hanno messo corde sulla piazza dei Cannoni a vi hanno appeso due manichini che rappresentavano – ed è la prima volta, rompendo un tabù –  Hassan Nasrallah, segretario degli Hezbollah, e Nabih Berry, presidente da tre decenni della Camera dei deputati libanesi, vero intoccabile padrone del Paese.

 

Hanno messo corde sulla piazza dei Cannoni a vi hanno appeso due manichini che rappresentavano – ed è la prima volta, rompendo un tabù –  Hassan Nasrallah, segretario degli Hezbollah, e Nabih Berry, presidente da tre decenni della Camera dei deputati libanesi, vero intoccabile padrone del Paese

Sebbene da poco ci sia un nuovo governo – sorto in seguito alle proteste dei mesi scorsi, che non ha ancora avuto il tempo di agire, e che ha agito in modo egregio nella lotta contro il Covid- 19 – gli slogan cantavano: «Dimissioni del governo»; «Vogliamo Beirut disarmata»; «No alle armi di Hezbollah». Di fatto, tutte queste richieste sono rivendicazioni politiche di parte, ben definite, non più slogan contro la corruzione, la fame e per la giustizia sociale.

 

Nello scontro con le Forze dell’ordine, i rivoltosi, hanno ucciso un soldato delle forze di sicurezza, incastrandolo nell’ascensore di un albergo al centro di Beirut.

 

La folla violenta, composta soprattutto di giovani, ha preso di mira anche tre camion di privati messi a disposizione della Protezione civile per i lavori di sgombro dei detriti e macerie, dandoli alle fiamme.

 

I rivoltosi – radunati attorno al generale in pensione Sami Rammah – hanno poi occupato e bruciato gli uffici del ministero degli Esteri, dove si pensa esistono alcune prove che fanno risalire ai responsabili delle esplosioni.

Nello scontro con le Forze dell’ordine, i rivoltosi, hanno ucciso un soldato delle forze di sicurezza, incastrandolo nell’ascensore di un albergo al centro di Beirut.

 

Nell’incendio al ministero degli Esteri sono stati distrutti e inceneriti ingente quantità di altri delicati documenti.

 

I ministeri dell’Economia e dell’Ambiente sono stati occupati, non dati alle fiamme, ma tutti i documenti sono stati gettati in aria e per le strade. Tali documenti potrebbero contenere appalti dubbiosi avvenuti in odore di corruzione dal 1992 ad oggi, e che il governo del Premier Hassan Diab, vuole punire.

 

Molti pensano che dietro questi rivoltosi ci siano proprio i corrotti, con lo scopo di far sparire in mezzo al caos documenti e prove di colpevolezza e garantirsi l’impunità.

I rivoltosi – radunati attorno al generale in pensione Sami Rammah – hanno poi occupato e bruciato gli uffici del ministero degli Esteri, dove si pensa esistono alcune prove che fanno risalire ai responsabili delle esplosioni

 

In mezzo a questi nuovi disordini, si parla sempre di più di frantumazione in cantoni etnico-religiosi, un vecchio progetto mai sepolto, dai tempi della guerra civile (1975-1990).

 

Oltre al soldato morto, il bilancio di ieri elenca anche centinaia di feriti. L’esercito è riuscito a sgombrare i ministeri dagli occupanti, ma ormai i danni fatti sono irrecuperabili.

 

Mentre i gruppi violenti si assiepavano nel centro di Beirut, il Premier Hassan Diab, teneva un discorso trasmesso in diretta televisiva: «Il momento non è per le polemiche politiche… siamo il governo uscito dalla volontà popolare in seguito alle proteste, datemi ancora due mesi…»

 

«Il Paese sta vivendo una tragedia più grande delle proprie capacità»; «ho promesso ai libanesi di scavare e punire i responsabili, chiunque essi siano, non saranno al di sopra della legge».

In mezzo a questi nuovi disordini, si parla sempre di più di frantumazione in cantoni etnico-religiosi, un vecchio progetto mai sepolto, dai tempi della guerra civile (1975-1990)

 

Diab ha detto che domani, al Consiglio dei ministri proporrà elezioni parlamentari anticipate.

 

Anche il Patriarca maronita Beshara Rai ha chiesto le dimissioni del governo, e le elezioni anticipate, insieme ad un’inchiesta internazionale sulle responsabilità delle esplosioni del 4 agosto. Ma quest’ultima richiesta viene considerata dagli sciiti come un gesto di neo colonialismo, una volontà di mettere il Paese sotto tutela internazionale.

 

 

Pierre Balanian

 

 

A sostegno della popolazione di Beirut e del Libano, in appoggio alla Caritas Libano, AsiaNews ha deciso di lanciare la campagna “In aiuto a Beirut devastata”. Coloro che vogliono contribuire possono inviare donazioni a:

– Fondazione PIME – IBAN: IT78C0306909606100000169898 – Codice identificativo istituto (BIC): BCITITMM –

   Causale: “AN04 – IN AIUTO A BEIRUT DEVASTATA”

–  attraverso il sito di AsiaNews alla voce “DONA ORA”

 

 

 

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Geopolitica

Fico: l’UE «si spara sulle ginocchia»

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Il primo ministro slovacco Robert Fico ha dichiarato martedì, durante il Forum europeo sull’energia nucleare (ENEF) a Bratislava, che il tentativo dell’Unione Europea di eliminare le fonti energetiche russe dal suo mercato rappresenta una politica autodistruttiva e rischiosa.

 

Nel suo discorso di apertura, Fico ha duramente criticato il piano REPowerEU, volto a eliminare completamente le fonti energetiche russe, definendolo «una totale assurdità».

 

«Ci stiamo sparando in ginocchio», ha affermato. «E sono pronto a discutere con la Commissione Europea 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per convincerli che si tratta di un passo ideologico insensato».

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Fico ha evidenziato che la Slovacchia non può interrompere l’importazione di barre di combustibile nucleare dalla Russia per i suoi reattori di progettazione sovietica.

 

«Non metteresti mai un motore Mercedes in una Skoda. Non funziona così», ha commentato, sottolineando le preoccupazioni legate alla sicurezza.

 

La Slovacchia gestisce cinque reattori nucleari e sta costruendo un sesto presso la centrale di Mochovce. L’energia nucleare copre circa il 60% del fabbisogno elettrico del Paese ed è cruciale per i suoi obiettivi industriali, come lo sviluppo di grandi data center, ha osservato Fico.

 

Il primo ministro ha anche annunciato l’intenzione di costruire un ulteriore reattore presso la centrale nucleare di Bohunice, un progetto che coinvolgerà un appaltatore statunitense e potrebbe includere la partecipazione di altre nazioni attraverso un consorzio. Ha notato che gli Stati Uniti continuano a importare uranio russo.

 

Fico, spesso critico verso Bruxelles, ha sostenuto che i piani economici dell’UE, come la strategia di Lisbona del 2000, hanno ripetutamente fallito nel mantenere le promesse.

 

Il premier di Bratislava ha avvertito che, se l’UE non abbandonerà il suo approccio ideologico alla politica energetica ed economica, le nazioni europee perderanno competitività a livello globale.

 

Come riportato da Renovatio 21, Fico tre mesi fa aveva dichiarato che la Slovacchia è «pronta a combattere» per il diritto ad importare il gas russo.

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Negli ultimi mesi il primo ministro slovacco ha ribadito il suo sostegno ai valori della famiglia cristiana e ha esternato il suo pensiero riguardo la fine del veto dei singoli Stati nella UE, ventilata da Bruxelles per mettere a tacera Slovacchia e Ungheria e chiunque altro si metta di traverso alle politiche belliciste e antirusse della stanza degli eurobottoni: per Fico, qualora il veto sparisse, si tratterebbe della fine della UE.

 

Fico – unico europeo con il presidente serbo Aleksandr Vucic a partecipare alla parata del 9 maggio a Mosca – ha altresì detto apertis verbis che vari Stati occidentali desiderano la continuazione del conflitto ucraino.

 

Il primo ministro slovacco è inoltre, risaputamente, avversario della vaccinazione COVID, di cui ha denunciato i «gravi risultati».

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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic

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Il colonnello Macgregor: gli USA «di nuovo in rotta di collisione con l’Iran»

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«Il potenziale di degenerazione incontrollata dei conflitti in Ucraina e con l’Iran è enorme. Sembra che siamo di nuovo in rotta di collisione con l’Iran». Lo sostiene il colonnello Douglas Macgregor, uno dei più noti esperti americani di questioni militari e di sicurezza globale, nonché ex consigliere del presidente Donald Trump durante il suo primo mandato, rispondendo a LifeSiteNews che chiedeva se  «gli Stati Uniti si stanno preparando per una guerra più grande?»   Secondo l’ex ufficiale, uno dei principali fattori di rischio per l’escalation sarebbe la svolta di Donald Trump sulla questione ucraina. L’ex presidente, infatti, avrebbe abbandonato la sua iniziale posizione di non intervento, adottando una linea più vicina a quella dell’amministrazione Biden.   Come riporta il New York Post, «Trump ha accettato di fornire a Kiev informazioni di Intelligence statunitensi per sostenere attacchi alle infrastrutture energetiche nel profondo della Russia, aiutando l’Ucraina a portare la guerra fino alle porte del presidente Vladimir Putin».   Un ulteriore elemento di rischio, secondo Macgregor, è rappresentato dall’aumento delle critiche internazionali contro la politica israeliana a Gaza. Le crescenti denunce di genocidio e le pressioni internazionali potrebbero, secondo il colonnello, spingere Israele a una reazione drastica: il primo ministro Benjamin Netanyahu, afferma Macgregor, «deve agire al più presto o rischia di perdere il sostegno incondizionato al progetto del Grande Israele».   Durante un incontro svoltosi il 30 settembre a Quantico, in Virginia, il presidente Trump e il Segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno riunito centinaia di alti funzionari militari provenienti da tutto il mondo. Il messaggio, scrive LifeSiteNews, è stato chiaro: il «dipartimento woke» è finito e il Pentagono sarà trasformato in un «Dipartimento della Guerra», con l’invito a dimettersi rivolto a chi non condivide la nuova linea.

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Alla domanda sul significato di questa mossa, Macgregor ha risposto: «Il POTUS [cioè il presidente USA, ndr]è tutto una questione di apparenza e glamour. Il messaggio riguardante la forma fisica e l’avanzamento basato sul merito era genuino, ma il resto era un flusso di coscienza poco chiaro. Non siamo pronti a combattere una guerra importante a questo punto. Farlo sarebbe sciocco e pericoloso».   Alla richiesta di confermare i segnali di una crescente attività militare, il colonnello ha aggiunto: «Le forze statunitensi si stanno concentrando in modi che ricordano l’ultimo scontro tra Israele e Iran. Sembra che siamo di nuovo in rotta di collisione con l’Iran».   Riguardo a un possibile scenario di guerra, Macgregor ha ribadito: «il potenziale di degenerazione incontrollata dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente con l’Iran è enorme. Il recente sequestro francese di una petroliera russa in mare è un atto di guerra. La NATO è senza leadership a seguito della decisione di Trump di adottare la politica di Biden nei confronti di Mosca. In Medio Oriente, siamo in balia delle azioni di Israele. Nei Caraibi siamo pronti a scatenare un nuovo conflitto con il Venezuela».   Le critiche alla politica israeliana nei confronti di Gaza stanno aumentando anche negli Stati Uniti. Persino la CNN ha pubblicato un articolo dal titolo: «Come le azioni israeliane hanno causato la carestia a Gaza». Diversi paesi europei hanno preso posizione contro Israele, mentre anche nel campo conservatore americano si registrano segnali di cambiamento.   Secondo Macgregor, «Israele sta perdendo il sostegno popolare negli Stati Uniti, ma controlla ancora Washington e la Casa Bianca. Il primo ministro Netanyahu deve agire al più presto o rischia di perdere il sostegno incondizionato al progetto del Grande Israele. Gli Stati Islamici in Medio Oriente e in Egitto si stanno allineando al sostegno della Cina e della Russia. Non c’è alcun incentivo per Israele a scendere a compromessi o a ritardare l’azione».  

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Immagine di Neil Hester via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
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Geopolitica

Gli USA hanno dato a Israele 21,7 miliardi di dollari in aiuti militari durante il conflitto di Gaza

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Un recente rapporto rivela che gli Stati Uniti hanno fornito a Israele 21,7 miliardi di dollari in aiuti militari durante i due anni di conflitto a Gaza.

 

Il rapporto, pubblicato martedì dal progetto Costs of War della Watson School of International and Public Affairs della Brown University, coincide con il secondo anniversario dell’attacco del 7 ottobre 2023, quando il gruppo armato palestinese Hamas ha compiuto un’incursione in Israele, uccidendo 1.200 persone e prendendo in ostaggio altre 250.

 

In risposta, i raid aerei e l’offensiva terrestre di Israele a Gaza hanno causato oltre 67.000 morti e circa 170.000 feriti, secondo le autorità sanitarie palestinesi. Il mese scorso, una commissione delle Nazioni Unite ha definito le azioni di Gerusalemme Ovest come «genocidio».

 

Considerando ulteriori spese del Pentagono, comprese tra 9,65 e 12,07 miliardi di dollari, per operazioni militari a sostegno di Israele nello Yemen e in altre aree del Medio Oriente, il totale dell’investimento statunitense nel conflitto di Gaza si attesta tra 31,35 e 33,77 miliardi di dollari, secondo il rapporto.

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Questa cifra, basata su dati open source, non include decine di miliardi di dollari in armamenti che saranno pagati e consegnati nei prossimi anni, in linea con accordi preesistenti tra Washington e lo Stato degli ebrei, precisa il rapporto.

 

Le armi fornite dagli Stati Uniti, come aerei da combattimento, elicotteri, missili e bombe, «sono state fondamentali per le operazioni delle Forze di difesa israeliane (IDF) e della polizia israeliana a Gaza, in Cisgiordania e oltre», si legge nel rapporto.

 

Con il loro impiego, Israele «ha inflitto un devastante tributo umanitario alla popolazione di Gaza», con oltre il 10% della popolazione dell’enclave palestinese uccisa o ferita e almeno 5,27 milioni di sfollati a Gaza e nella regione circostante, sottolinea il rapporto.

 

La settimana scorsa, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha continuato la politica di armamento di Israele avviata dal suo predecessore democratico Joe Biden, ha proposto un accordo per lo scambio di prigionieri tra Gerusalemme Ovest e Hamas, che secondo lui dovrebbe spianare la strada alla fine del conflitto.

 

Hamas ha accolto l’offerta accettando di rilasciare gli ostaggi rimanenti, ma ha finora rifiutato l’invito al disarmo. Nonostante la sospensione dell’avanzata su Gaza City, le Forze di difesa israeliane hanno ignorato la richiesta di Trump di interrompere immediatamente i raid aerei nell’enclave palestinese.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

 

 

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