Pensiero
La vita degli Ultras, una riflessione etica (con la Reggiana in serie B)

La storia che oggi vorrei raccontarvi è molto importante per me, ma non so quanto possa esserlo per voi.
In ogni caso proverò a renderla interessante perché credo lo meriti. A volte, dalle cose apparentemente effimere si possono raccogliere grandi elementi sopra i quali riflettere.
È una vicenda che mi porto dentro da un po’ e alla quale penso spesso, tuttavia ho sempre ritenuto non avesse gran senso raccontarla pubblicamente.
Oltre a raccontarvi del buon vecchio Rinna, però, voglio raccontarvi di ciò che c’era intorno al Rinna
Accade però che la Reggiana, squadra della mia città e oggi riconosciuta sotto il nome di «Reggio Audace FC» — anche se per noi teste quadre o granata rimarrà sempre «la Regia» —, vince i playoff contro il Bari e vola in serie B dopo più di vent’anni. La città si veste con il vestito della festa e il centro storico si tinge di colori granata ovunque: sembra di aver vinto una finale dei mondiali, ed è comprensibile perché nessuno se lo sarebbe mai aspettato.
Ecco, questo episodio, che sotto sotto ha reso felice anche me, ormai parecchio distante dal calcio, mi ha dato finalmente l’input per raccontarvi questa breve storia.
Nei miei sette anni di lavoro come operatore sanitario ho conosciuto davvero tante persone, raccolto tanti affetti, provate tante gioie e tanti dolori: difficile trasmettere ciò che si prova stando a contatto con il dolore, con la solitudine, ma anche con la fierezza e la voglia di vivere che tante persone anziane e non riescono a trasmettere nonostante tutto.
Tante persone e tanti vissuti mi sono rimasti in mente, nel cuore, e da lì giammai se ne andranno. Ve ne è però uno — vuoi perché anche molto recente — che mi è rimasto impresso come un disegno stampato in volto.
Sto parlandovi del vissuto di «Rinna»: così chiamavano uno dei grandi capi Ultras della Regia, colui che intonava e faceva tremare lo stadio al grido di «Ari Ari Ari Ohh!», coro che si ispira, in una versione sicuramente più rock, al pezzo «Minnie the Moocer» di Cab Colloway, noto anche per essere stato cantato, nel 1980, nel film «The Blues Brothers».
Ho avuto modo di conoscere il Rinna sul posto di lavoro, nell’ultimo periodo della sua vita come spesso può capitare a chi arriva nelle strutture in condizioni più o meno gravi.
Rinna, è indubbio, ebbe una vita certamente dissoluta. Un reietto, se volete, ma un reietto di una società troppo spesso giudicante e quasi sempre incurante degli altri.
Non potevo sposare nemmeno uno di quelli che erano gli ideali del Rinna: una vita dissoluta nei confronti di se stesso e degli altri, un linguaggio che te lo raccomando, un fideismo cieco verso il calcio, quasi fosse l’unica ragione di vita e quale culto domenicale dell’ateismo più abietto. Pur tuttavia voglio dirvi che in Rinna c’era del buono, tanto di buono.
Nelle sofferenze più atroci, anche quelle personali con la perdita di alcuni suoi cari, non ha maledetto nessuno, né tantomeno ha mai trattato male qualcuno
Lo dico senza avere nulla da guadagnarci né da perderci. Lo dico perché ho vissuto questa persona nei momenti più difficili, dove si rendeva conto che gran parte di quella sua situazione se l’era creata da solo, o comunque raccoglieva i frutti di una sua vita fin troppo sregolata e disordinata, di cui spesso mi raccontava senza nemmeno troppo imbarazzo. Eppure, nelle sofferenze più atroci, anche quelle personali con la perdita di alcuni suoi cari, non ha maledetto nessuno, né tantomeno ha mai trattato male qualcuno.
Oltre a raccontarvi del buon vecchio Rinna, però, voglio raccontarvi di ciò che c’era intorno al Rinna.
Orbene, posso dirvi che io non ho mai visto, in tanti anni, una «famiglia» così vicina e presente come è stata quella di Rinna. La sola grande, enorme differenza è che la famiglia di Rinna erano gli amici Ultras della curva, insieme alla tifoseria del Gruppo Vandelli che si appoggia sui distinti.
Io non ho mai visto, in tanti anni, una «famiglia» così vicina e presente come è stata quella di Rinna. La sola grande, enorme differenza è che la famiglia di Rinna erano gli amici Ultras della curva, insieme alla tifoseria del Gruppo Vandelli che si appoggia sui distinti
La presenza assidua, generosa, numerosa di queste persone è qualcosa che mi è rimasta nel cuore, perché è qualcosa di mai visto ed incredibilmente straordinario. Gli amici «granata» del Rinna venivano, alternandosi con un collaudato turnover, praticamente tutti i giorni. Facce da curva, quasi inquietanti di primo acchito ma che con il tempo ho imparato a conoscere scoprendone la bontà e l’affetto puro, scevro da secondi fini, nei confronti di un amico.
La domenica pomeriggio pareva di essere allo stadio: tutti i daspati, ovvero coloro che hanno il daspo e quindi non possono accedere in alcun modo allo stadio, venivano a far visita al Rinna seguendo la partita per radio o in TV e facendo partecipare anche l’amico infermo.
Chiedevano continuamente informazioni sulle condizioni di salute, non mancavano mai di rendersi disponibili per imboccarlo od accudirlo in qualsiasi forma che potesse aiutare non solo lui, ma anche il personale — ovviamente nella limitatezza delle mansioni concesse a parenti o amici.
Lo hanno accompagnato, con amicizia ed affetto sincero, fino all’ultimo suo giorno quando poi fu trasferito per l’ennesima volta in ospedale, nel momento in cui le condizioni erano precipitate
Lo hanno accompagnato, con amicizia ed affetto sincero, fino all’ultimo suo giorno quando poi fu trasferito per l’ennesima volta in ospedale, nel momento in cui le condizioni erano precipitate. Hanno portato la sua bara, lo hanno ricordato e continuano a ricordarlo in curva.
Tutto questo per dirvi che in tanti anni di lavoro non ho mai visto una famiglia così presente.
Perché mai degli apparenti ceffi da curva sud si comportavano così, con una premura quasi commovente? Era una cosa che non riuscivo a capire, perché appartenente ad un mondo che non conoscevo e mai avrei pensato fosse tale. Una bontà ed una generosità, unita ad un senso di unione e di appartenenza da far venire la pelle d’oca.
Ripeto che con quel mondo non ho niente da spartire, ma una lezione l’ho imparata: nei bassi fondi dell’umanità, nelle periferie esistenziali, quelle vere, c’è tanto potenziale e tanto buono.
Dio stesso a volte si rivela nelle situazioni più improbabili per ricordarci che sono i malati ad aver bisogno del dottore.
Il problema è che oggi, gran parte del clero e dell’episcopato, in mezzo ai malati non vuole starci. Non vogliono proselitismo, non vogliono evangelizzare, non vogliono portare Luce e Speranza, quella evangelica. Lo avete visto durante l’emergenza COVID: hanno chiuso le chiese, hanno lasciato i moribondi senza i sacramenti, non hanno fatto i funerali ai morti lasciando che si compiesse, indisturbatamente, il massonico culto della cremazione.
Non scorderò mai quando gli hooligans inglesi, dopo l’omicidio per mano dello Stato del piccolo Alfie Evans tuonarono contro l’ospedale con striscioni e cori: «Alder Hey Hospital Killers… Alfie Evans Little Warrior», recitava uno striscione presente nella curva dell’Everton. Altri in cui era scritto «God bless Alfie Evans»
Se qualcuno facesse almeno lo sforzo di provare a trasformare il fideismo moderno — anche e soprattutto quello calcistico — in Fede, forse qualche risultato si potrebbe ottenere. Certo, non è una guerra facile e la Fede è certamente un dono, una virtù, ma se non ci si prova non lo si può sapere.
Non scorderò mai quando gli hooligans inglesi, dopo l’omicidio per mano dello Stato del piccolo Alfie Evans tuonarono contro l’ospedale con striscioni e cori: «Alder Hey Hospital Killers… Alfie Evans Little Warrior», recitava uno striscione presente nella curva dell’Everton. Altri in cui era scritto «God bless Alfie Evans». Così accadde, seppur con toni più pacati e incentrati semplicemente sul cordoglio, anche nelle curve di alcune squadre italiane come Lazio, Roma, Benevento ed altre.
Come potete capire, gli Ultras sanno anche distinguere il Bene dal Male, il Vero dal Falso. E lo sanno fare meglio di tanti sofisti, intellettuali e falsi moralisti moderni.
Quello che posso dirvi è che nel Rinna e «nei ragazzi della curva» — come li chiamava lui — ho visto anche tanto buono.
Gli Ultras sanno anche distinguere il Bene dal Male, il Vero dal Falso. E lo sanno fare meglio di tanti sofisti, intellettuali e falsi moralisti moderni
«I pubblicani e le prostituite vi precederanno nel Regno dei Cieli» (Mt. 21, 31).
Voglio sperare e pregare che ciò avvenga anche per qualche Ultras, in particolare per il Rinna, del quale porterò sempre un ricordo vivo nel cuore.
Cristiano Lugli
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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