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Steven Segal dichiara il suo profondo amore per la Russia

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L’attore di Hollywood e maestro di Aikido, nonché tulku buddista reincarnato, Steven Seagal ha dichiarato il suo profondo amore per la patria dei suoi nonni, che furono emigranti ebrei russi, in un’intervista al sito di informazione russo RT.

 

Il Seagal racconta che da bambino, durante la Guerra Fredda, gli era stato insegnato a temere la Russia, tuttavia visitare la patria dei suoi nonni gli aveva fatto capire che era la patria di alcune delle «culture più profonde e belle della Terra».

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Nato nel Michigan all’alba della Guerra Fredda nel 1952, Seagal ha affermato di essere «cresciuto in una famiglia russa» – le cui origini potrebbero essere tracciate in Siberia, tra buriati e iacuti, e forse dalla città di Vladivostok – ma che i suoi genitori hanno presto istruito i suoi nonni a non parlare russo in sua presenza.

 

«Da bambino ho capito subito che c’era della politica in corso», ha detto la star dei film d’azione anni Novanta a RT. «I miei genitori dicevano ai miei nonni: “non vogliamo che parli russo perché siamo nel mezzo di una guerra fredda”»

 

La rappresentazione della Russia sovietica come il «cattivo» nei media americani «era spesso piuttosto terribile e piuttosto dura per qualcuno come me, perché amavo la Russia», ha detto. «E a volte sentivi bugie e propaganda assurde… “se vai in Russia tua moglie verrà violentata, tua madre verrà violentata, e se vuoi prendere un taxi c’è un cavallo e un calesse che scenderanno per strada”, roba davvero pazzesca».

 

Segal ha stretto un’amicizia con il presidente russo Vladimiro Putin più di dieci anni fa, con la coppia che apparentemente si legava al loro comune amore per le arti marziali: è nota la passione di Putin per il Judo, mentre il Seagal è un riconosciuto maestro di Aikido, una disciplina che, secondo quanto raccontato, lo stesso fondatore del Judo, il leggendario Jigoro Kano (1860-1938) avrebbe riconosciuto come una sorta di sua continuazione.

 

Il Seagal ha ricevuto la cittadinanza russa nel 2016, con passaporto consegnatogli dalle stesse mani di Putin. Diversi media all’epoca scrissero dell’amicizia tra Seagal e il presidente Vladimir Putin (non c’era solo Silvio Berlusconi, quindi…) con lo stesso Seagal dichiarato che «vorrebbe considerare Putin come un fratello». Il presidente russo ha conferito al Seagal la medaglia russa dell’Ordine dell’Amicizia nel 2023. Il portavoce del Cremlino Demetrio Peskov ha detto che Putin «ha decisamente visto alcuni dei suoi film».

 

Attualmente ricopre il ruolo di inviato speciale del Ministero degli Esteri russo per le relazioni umanitarie tra Mosca e Washington.

 

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«Una delle cose che sono successe di recente è stata la Coppa del Mondo FIFA del 2018, e penso che Putin sia stato un genio perché ha invitato il mondo qui e all’improvviso il mondo è venuto qui e ha visto che la Russia è un posto bellissimo, Mosca è una città meravigliosa… la cultura è una delle culture più profonde e belle della Terra».

 

«Avete una letteratura straordinaria, una storia straordinaria, poeti… musicisti straordinari, una scienza straordinaria, alcuni di questi sono davvero tra i migliori al mondo», ha continuato. «Non voglio dire che la Russia sia il più grande paese del mondo, ma per me lo è».

 

L’amore di Seagal la cultura russa e il suo sostegno all’operazione militare russa in Ucraina gli hanno fatto guadagnare notorietà in Occidente. L’anno scorso, un gruppo di legislatori statunitensi, europei e ucraini ha invitato Washington e Bruxelles a sanzionare l’eroe di action movie sbanca-botteghino come Trappola in alto mare (1992).

 

Il divo marzialista sostiene che al pubblico occidentale viene detto molto poco del conflitto e delle sue origini. Nel 2022 ha visitato la regione del Donbass per girare le riprese di un documentario, che a quanto pare è ancora in produzione.

 

«Quando mi sono reso conto che il 99% delle notizie che venivano raccontate al mondo venivano raccontate da persone che non erano mai state nel Donbass, a Lugansk, in Ucraina, ho pensato che sarebbe stato importante poter andare lì, intervista gli ucraini, intervista i russi e lascia che le persone dicano la loro verità», ha detto a RT l’anno scorso.

 

Il Seagal è una cintura nero del 7° dan di Aikido. Fu il primo occidentale ad aprire un dojo della disciplina in Giappone. il termine Aikido è spesso tradotto come «la via dell’unificazione l’energia vitale» o come «la via dello spirito armonioso», un insegnamento di tecniche di difesa originariamente sviluppato da Morihei Ueshiba (1883-1969), come sintesi dei suoi studi marziali, filosofia e credenze religiose. L’Aikido è conosciuto per l’eleganza e la potenza della sua tecnica, con cui permette di neutralizzare assalitori anche armati.

 

Studiando l’arte marziale il Seagal conobbe a metà anni Settanta Miyako Fujitani, la figlia di un maestro di Aikido di Osaka, da cui ebbe in Giappone due figli, Kentaro e Ayako, quest’ultima attrice di successo con il nome di Ayako Fujitani, con alle spalle anche lavori di sceneggiatura per lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki assieme al creatore di Neon Genesis Evangelion Hideaki Anno.

 

Steven Seagal è diventato noto internazionalmente a fine anni Ottanta come stella dei film di azioni di Hollywood. Già bodyguard delle star, convinse i produttori a scritturarlo per un film scritto da lui stesso, Nico (1988), che racconta la storia di un poliziotto di origine siciliana (un’altra origine famigliare talvolta attribuita al Seagal) che scopre una trama di narcotraffico gestita dalla CIA – un argomento che, come noto, trova riscontro nella realtà.

 

Negli anni, l’attore ha rivelato di aver «aiutato» la CIA quando era in Giappone. Nico inizia con una scena in cui Seagal dà prova delle sue capacità di maestro di Aikido nonché il suo giapponese assai fluente, mentre la voce fuori campo racconta di come il personaggio era stato reclutato dalla CIA.

 

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Le grandi capacità cinetiche e cinematografiche di Seagal sono chiaramente visibili nel film di Robert Rodriguez Machete (2010), dove interpreta, a sorpresa, il ruolo del cattivo, un colonnello messicano che combatte usando le lame tra insulti in lingua spagnuola.

 

 

Seagal è di fede buddista tibetana e nel febbraio 1997, Lama Penor Rinpoche del monastero di Palyul annunciò che Seagal è un tulku, cioè la reincarnazione di un lama, e in particolare la reincarnazione di Chungdrag Dorje, un terton (cioè un «rivelatore di tesori») del XVII secolo dei Nyingma, la più antica setta del buddismo tibetano. Il Seagal è un grande sostenitore del Dalai Lama, e si mormora come agli eventi pubblici pro-Tibet, grazie al suo status di reincarnato, può sedere diverse file davanti al più blasonato collega Richard Gere.

 

Di recente lo Steven, la cui ultima moglie è una signora mongola, è visibile in vari canali YouTube dedicati alle arti marziali. Notevole l’intervista, con sessione annessa, che lo youtuber karateka svedese Jesse Enkamp detto «Karate Nerd» ha fatto con il Seagal a Dubai, portando con sé anche il fratello lottatore di arti marziali miste Oliver Enkamp, che gareggia nella divisione pesi welter del Bellator MMA.

 

 

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Il rapporto tra Seagal e l’MMA è vasto: il campione marzialista brasiliano Lyoto Machida ha attribuito a Seagal il merito di averlo aiutato a perfezionare il calcio frontale che ha usato per eliminare Randy Couture all’UFC 129 nel maggio 2011; i media russi nel 2019 hanno riportato che avrebbe fatto lezione al peso massimo dell’MMA russo Aleksandr Emmelianenko.

 

Nel 2021, Seagal è stato tesserato dal partito Russia Giusta – Patrioti – Per la Verità, una formazione di ispirazione socialdemocratica risultata dalla fusione di tre partiti (i socialisti populisti di Rodina, i liberalnazionalisti del Partito Russo della Vita e il Partito dei Pensionati Russi) entrata a far parte dell’Internazionale Socialista. Russia Giusta è stata radiata dalla Duma e che fa quindi parte della cosiddetta «opposizione sistemica», anche se in Occidente è percepito come pro-Cremlino.

 

Il lettori di Renovatio 21 ricordano forse un articolo dell’anno scorso illustrato da una foto dove, in un grande schermo alle spalle di Seagal, era visibile l’arcivescovo Carlo Maria Viganò: si trattava del primo Convegno Mondiale dei Russofili, la cui seconda edizione è stata pochi giorni fa.

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

 

 

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Sport e Marzialistica

Monaci shaolini, dall’incontro con papa Francesco e la caduta in disgrazia del bonzo manager

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   I social network cinesi discutono sull’inchiesta per corruzione e scandali sessuali aperta contro l’abate Shi, l’uomo che ha trasformato in un impero economico il tempio famoso per il Kung Fu. Queste accuse erano emerse già in passato senza però scalfirne il potere. Per questo alcuni commentatori hanno osservato che i suoi guai sono cominciati una volta tornato in Cina dopo la visita in Vaticano, di cui Pechino non ha mai dato notizia. L’ipotesi che si sia spinto troppo oltre, con un’iniziativa non concordata con il Partito.   Shi Yongxin, l’abate del Tempio Shaolin famoso per il Kung Fu, è sotto indagine da parte delle autorità cinesi. Secondo un comunicato del tempio, è accusato di appropriazione indebita, relazioni improprie con donne e di aver avuto figli illegittimi. L’Associazione Buddista Cinese ufficiale ha dichiarato che l’ordinazione monastica di Shi Yongxin è stata revocata.   Secondo il sito cinese Caixin, Shi è stato prelevato a mezzanotte il 25 luglio. Lo stesso giornale ha riferito che, dopo una visita all’estero durante la Festa di Primavera (il capodanno lunare cinese, caduto quest’anno in febbraio, ndr), gli è stato proibito di lasciare la Cina. Dopo tale visita, è stato convocato dalle autorità, ma poteva ancora viaggiare all’interno del Paese.

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Il rapporto di Caixin non specifica né la destinazione né il contenuto della visita all’estero. Ma è noto che a febbraio, Shi ha guidato una delegazione del Tempio Shaolin in Vaticano che incontrò il 1 febbraio papa Francesco. Quella visita non venne menzionata dalle autorità cinesi e i media statali non ne diedero alcuna notizia.   La stessa Santa Sede mantenne un profilo basso sulla visita, data la natura non ufficiale dell’incontro. Ma sui social network cinesi alcuni analisti ipotizzano che questa sia la vera causa dei problemi per Shi.   Commenti online ricordano che non esistono relazioni diplomatiche formali tra la Cina e il Vaticano; per questo suggeriscono che Shi potrebbe aver aggirato l’autorizzazione delle autorità, giocando d’azzardo per accrescere il proprio prestigio come leader religioso, cosa non tollerata da Pechino. Altri commentatori ritengono che la visita sia stata un errore politico, dovuto a un errato calcolo del clima: in un contesto in cui le autorità cinesi spingono per la sinicizzazione e il controllo ideologico, ogni passo oltre i limiti è visto come una sfida al Partito Comunista, anche se non verrà mai menzionato ufficialmente.   Non stupisce comunque che la motivazione ufficiale di cui si parla sia l’appropriazione dei profitti generati dal Tempio Shaolin. Shi è diventato monaco qui nel 1981, all’età di 16 anni, ed è abate dal 1999. Sotto la sua guida, il tempio con 1500 anni di storia si è trasformato in un marchio globale che ogni anno attira migliaia di seguaci buddhisti e appassionati di Kung Fu da tutto il mondo. Shi ha costruito un impero economico, guadagnandosi il soprannome di «monaco CEO».   Ma oltre al successo commerciale, Shi ha alle spalle anche una carriera politica. È stato vicepresidente dell’Associazione Buddhista Cinese e membro della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese. Per oltre un decennio, è stato anche rappresentante al Congresso Nazionale del Popolo. Ha sostenuto le direttive delle autorità sulla sinicizzazione del buddhismo.   Nel 2018, il Tempio Shaolin è stato il primo ad issare la bandiera nazionale cinese, gesto che ha generato ampi dibattiti sul web cinese.

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In Cina, le organizzazioni religiose ufficiali sono sotto la guida del Dipartimento del Fronte Unito del Partito Comunista Cinese. Gli analisti affermano che Shi non è solo un leader religioso, ma anche un funzionario statale per via del suo coinvolgimento politico. Non è ancora chiaro, dunque, se la visita in Vaticano sia stata approvata dalle autorità: le foto mostrano un colloquio privato tra Shi e papa Francesco, senza la presenza di funzionari cinesi.   Il Tempio Shaolin ha guadagnato popolarità nella cultura pop grazie a un film interpretato da Jet Li. Tuttavia, la sua commercializzazione è stata fortemente criticata. I media cinesi hanno stimato che, in passato, le entrate turistiche del tempio rappresentassero quasi un terzo del bilancio annuale della città di Dengfeng, dove si trova il tempio. Il tempio è stato criticato per l’alto prezzo dei biglietti, la vendita di incenso e prodotti buddhisti. Si vociferava persino un piano per quotarlo in borsa. Nel 2015, i progetti di costruzione di un hotel, una scuola di Kung Fu e un campo da golf suscitarono forti polemiche.   L’impero del Tempio Shaolin si è espanso anche all’estero. Attualmente, truppe di monaci viaggiano per il mondo per esibirsi in spettacoli di arti marziali. Il tempio ha anche fondato filiali in vari Paesi. Con questa espansione le voci su Shi circolavano da tempo. Già nel 2015, un suo discepolo lo aveva accusato di corruzione e di avere due figli illegittimi. Ma allora – a differenza di oggi – un’indagine delle autorità concluse che mancavano prove.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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La boxe oltre il sogno olimpico. Renovatio 21 intervista il pugile medaglia d’oro Roberto Cammarelle

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Tre medaglie olimpiche (un bronzo ad Atene 2004, un fantastico oro a Pechino 2008 e un argento – preso in una finale molto, molto contestata – a Londra 2012), due medaglie d’oro ai mondiali, tre ori ai Giochi del Mediterraneo, qualche argento europeo e numerosi campionati italiani vinti. Un atleta, un uomo, che ha fatto della boxe la sua ragione di vita. Renovatio 21 ha incontrato Roberto Cammarelle al Centro Nazionale di Pugilato a Santa Maria degli Angeli, dove attualmente ricopre il ruolo di Direttore Tecnico del gruppo sportivo delle Fiamme Oro. Ne è seguita una lunga conversazione, attraversata dalle risate e dal buonumore del grande pugilista, che tocca i vari punti di una carriera stellare, dipinge un grande affresco scena del pugilato globale, racconta la prospettiva personale di chi arriva ai vertici della noble art. Prima dell’Olimpo c’è un sogno. C’è qualcosa anche dopo. Ce lo spiega direttamente il campione.

 

Il tuo incontro con questa disciplina sportiva avviene per caso, se non sbaglio.

Non ho nessun parente che mi ha avvicinato a questo sport. Io e mio fratello andammo in palestra con l’obiettivo di dimagrire, perché all’età di undici e dodici anni, eravamo alti, ma grassottelli e volevamo essere più in forma. Le alternative non erano molte, o facevi pesistica in palestra oppure una disciplina come la boxe. Il maestro di pugilato Biagio Pierri era un amico di famiglia e ci invitò a provare senza grandi garanzie sul fatto che potessimo dimagrire, ma di sicuro sarebbe stato divertente imparare questo sport.

 

Le prime volte che andavo in quella palestra ebbi l’effetto opposto, perché vedevo tutti questi che si menavano e avevano anche gusto nel farlo, ma io non capivo perché dei ragazzini si prendessero a pugni. «Ma chi glielo fa fare?», pensavo io. Poi mi sono messo in guardia davanti allo specchio, il sapersi muovere con le gambe nello spazio, portare i colpi e oltretutto sfidare mio fratello e sapersi pure difendere, per me è stata una prima rivelazione. Dovevo fare quello sport.

 

All’inizio non andavo bene, perché in guardia col sinistro avanti ero più lento rispetto a mio fratello. L’intuizione del mio maestro è stata quella di farmi cambiare guardia. Mi sono messo in guardia mancina – io sono destro naturale – e ho avuto una folgorazione: così potevo tirare in scioltezza sia di destro che di sinistro. La prima vittima fu proprio mio fratello [ride], perché dopo che cambiai guardia, non ci capiva più nulla e ha iniziato a prenderle! Lui ha debuttato nelle gare prima di me, ma non ha mai superato i regionali, invece l’anno dopo io sono andato agli interregionali.

 

Vinco l’incontro degli interregionali, vado ai nazionali e vinco anche lì. Dopo tre match divento campione italiano. Per quel traguardo il mio maestro mi diede cinquecentomila lire come premio. Era mezzo stipendio di un operaio. Facevo questo sport con leggerezza e all’inizio era tutto divertimento, ma volevo diventare il numero uno. Fui convocato per la prima volta in nazionale a sedici anni. Andare in palestra e osservare i grandi allenarsi che vedevo in televisione era meraviglioso.

 

Chi c’era a quell’epoca?

Un mito per me – e mi ci sono allenato anche insieme – era Giacobbe Fragomeni. A quel tempo faceva parte della selezione che poi andò alle Olimpiadi di Atlanta ’96. Lì nasce il mio sogno olimpico. 

 

Uno sogno che nasce da lontano, ma avevi già le idee abbastanza chiare. 

Sono arrivato in nazionale con leggerezza, ma con la forza delle vittorie, perché avevo vinto tre campionati italiani di fila. Ero una giovane speranza. Pensavo di essere pronto e arrivo all’ultima qualificazione olimpica per andare a Sidney 2000 con speranze concrete di poter staccare quel biglietto per l’Australia. In semifinale incontro un macedone – che avevo mesi prima battuto – ma lo affronto con superficialità e assegnano a lui la vittoria. Ero a un passo dal sogno, ma non ce l’ho fatta.

 

Ho sempre sofferto di dolori alla schiena e arrivo a questa qualificazione olimpica con già un’operazione addosso. Dopo questo intervento chirurgico sono stato fermo quasi un anno. Non andare ad un’olimpiade significa riprogrammare quattro anni di lavoro, ma io ero ancora molto giovane e non ho avuto grossi problemi. Nel 2000 abbandonai Biagio Pierri e feci il concorso per entrare nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro.

 

Dalla tua avevi anche l’entusiasmo della giovane età e una carriera da scrivere. 

In quel periodo c’è stato il passaggio di direzione tecnica con Nazareno Mela e Francesco Damiani. Riprogetto la mia nuova scalata, e passo ai supermassimi. Nell’ultimo periodo facevo fatica a rimanere nei limiti di peso dei massimi. Nonostante cedessi qualche cosa come fisico, ero sicuramente uno dei più veloci. Fu un periodo duro e triste per me, perché emerge Aleksandr Povetkin, il fortissimo pugile russo. La mia caratteristica della velocità con lui viene meno, perché lui, oltre che la velocità, ha anche la quantità [ride]! 

 

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Ti sei scontrato più volte con lui.

Cinque volte, di cui due finali europee e la semifinale olimpica. La Russia – è inutile nasconderlo – era all’interno di una geopolitica sportiva importante ed era dura riuscire a vincere contro uno che dovevi quasi per forza mettere al tappeto se volevi avere la meglio. A me batteva ai punti, mentre agli altri prima del limite. Detto ciò, secondo me era battibile.

 

Prendi coscienza dei limiti dell’avversario.

Lo incontro anche nella finale dei campionati europei in Russia. Quello era l’ultimo match e i russi avevano già fatto man bassa di medaglie d’oro, ma non volevano perdersi l’ultimo oro. A venti secondi dal termine eravamo pari. Lui fa una combinazione che ancora oggi faccio fatica a spiegarmi, e gli entrano quattro punti. Per me fu dura.

 

Immagino.

Se guardo il lato positivo, il primo anno da supermassimo sono vice campione europeo. Rivinco i campionati italiani e sono ancora in nazionale, ma mi esce un’altra ernia del disco. Mancava troppo poco per le olimpiadi, quindi decidemmo di sacrificare il 2003 per esser poi pronti nel 2004. 

 

La Federazione ci credeva in te.

La Federazione mi ha sostenuto e non potevo rinunciare al mio sogno olimpico. Nell’agosto del 2003 mi sono operato e non andai al mondiale, ma a dicembre vinsi in scioltezza i campionati italiani.

 

Per te sembra che i campionati italiani siano una formalità. 

È stato un grande onore e una grande responsabilità parteciparvi e non ho vi rinunciato neanche quando stravincevo in ambito internazionale, perché quando tornavo a boxare in Italia volevo che fosse chiaro il concetto che io ero il più forte. Vinco all’estero perché sono il più forte in patria. Ad inizio 2004 ci furono i campionati europei per la qualificazione olimpica. Arrivo in finale e mi trovo Aleksandr Povetkin. Rispetto all’altra finale in cui ci scontrammo, ero convinto di aver vinto nettamente. Politicamente è protetto, tant’è che lì in Croazia il verdetto fu fischiatissimo dal pubblico.

 

Dopo qualche mese parto per Atene 2004. Nel primo incontro finisco la terza ripresa sopra di diciotto punti. Per soli due punti devo fare ancora un minuto e lo affronto con ingenuità. Peccato che di fronte a me avevo un nigeriano mastodontico che a trenta secondi dalla fine mi colpisce bene e quasi vado al tappeto.

 

Fortunatamente suona il gong e arrivo alla fine del match. Il mio maestro mi guarda e mi dice: «se c’erano altri dieci secondi era finita per te». Nel match seguente mi scontro con un ucraino vecchia scuola e l’asticella si era alzata, ma arrivo in semifinale. Medaglia garantita. In semifinale incontro Aleksandr Povetkin e ammetto la sconfitta [ride]. 

 

Una medaglia di bronzo al tuo esordio olimpico, non è poi tanto male alla fine. Poi c’è un siparietto curioso. Al momento che rientri a Casa Italia per prenderti la gloria e le interviste della stampa, Stefano Baldini vince l’oro nella maratona e inevitabilmente il clamore mediatico si sposta su di lui.

Chi vince una medaglia ha il suo momento di gloria e La Gazzetta dello Sport ti mette in prima pagina. Arrivo a Casa Italia con la mia medaglia, incontro i giornalisti, ma Stefano Baldini vince l’oro nella maratona e tutti si fiondano verso di lui. Tant’è vero che non ho la foto su La Gazzetta dell’Olimpiade 2004. Vedendo Baldini ho capito che l’oro è la cosa più importante. 

 

Aleksandr Povetkin pare essere la tua bestia nera.

Al mondiale del 2005 Aleksandr Povetkin già è passato professionista, ma trovo un altro russo in semifinale. L’incontro fu meraviglioso, perché sembravamo due pesi mosca per quanto eravamo rapidi! Fine del secondo round 23 a 22 per me. Nella terza e quarta ripresa ho però pagato la mia non perfetta preparazione atletica e ho perso. Persi per quattro punti di svantaggio.

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In quell’anno vinci anche i Giochi del Mediterraneo.

Li vinsi a mani basse e devo dire che il 2005 è stato positivo, anche se, finito il regno di Aleksandr Povetkin, sono stato sconfitto da un altro russo [ride]! 

 

Atene 2004 per te fu la prima olimpiade. Che clima si respirava a Casa Italia e nel villaggio olimpico?

La partecipazione olimpica è meravigliosa per uno sportivo. Fai un torneo insieme al gotha dello sport e la parte più bella, secondo me, è la cerimonia di apertura. È lo spettacolo nello spettacolo e tu sei il protagonista. Mentre aspettavamo, tutta l’Italia si raduna insieme e il campione di pallavolo Andrea Giani mi dice: «Ti seguo, so che sei forte». Io sono nato e cresciuto mangiando il Maxicono Motta con la pubblicità di Andrea Giani! Per me quella fu la vera vittoria [ride]!

 

C’era un bel clima mi pare di intuire.

Quando stai all’olimpiade hai un grosso senso di appartenenza. Poi c’è la gara olimpica vera e propria. Negli anni è anche un po’ migliorata l’atmosfera che c’è nei nostri palazzetti, però nella mia epoca, era molto freddo il clima. Ricordo un impatto – per me inedito – che mi fece venire i brividi: prima del match si apre un sipario, un tappeto rosso davanti e una marea di fotografi che immortalano quel momento mentre tu vai verso il ring seguito dalla telecamera. Sali sul ring, alzi gli occhi e vedi un maxischermo con la tua faccia che va in mondovisione. Tanta roba. Avevo già fatto due campionati europei, ma nulla a che vedere con questo tipo di impatto mediatico. 

 

Questo clamore mediatico ti ha creato più tensione del solito?

Assolutamente, perché tu pensi di fare una grande cosa, ma poi quando la vai a fare la realtà supera sempre la tua aspettativa. Dopo quell’esperienza il segreto per Pechino 2008 è stato: divertirsi alla cerimonia, ma quando poi si va in gara sul ring si deve combattere, come in qualsiasi altro torneo. A tal proposito nel 2006 un’importante produzione televisiva decide di seguire il pugilato e ci segue fino ai campionati europei di quell’anno. Durante il percorso di avvicinamento all’europeo emerge la mia qualità di capitano, vinco sempre, ma una volta arrivati all’evento clou, ai quarti di finale perdo con un russo. 

 

Strano scherzo del destino.

La Federazione pensa che io abbia un problema con i russi e allora decidono di assumere un allenatore russo, Vasiliy Filimonov, ma il primo impatto non fu dei migliori e di concerto con la Federazione abbiamo deciso di prendere il mio preparatore atletico Ennio Barigelli, perché avevo bisogno di un allenamento differenziato, viste le mie problematiche con la schiena. Poi abbiamo convissuto bene con bei risultati. Ennio Barigelli è poi purtroppo venuto a mancare e ho dovuto trovare la quadra insieme a Filimonov. 

 

Filimonov iniziò ad allenarti l’anno dei Mondiali a Chicago nel 2007, giusto?

Si.

 

In America come è percepita la boxe rispetto all’Italia?

La boxe lì è tutta un’altra cosa, quasi un modo di vivere. Noi arrivammo qualche giorno prima dell’inizio del mondiale e andammo nelle palestre lì intorno e peraltro non sono poi così meravigliose come le nostre, però la boxe è spettacolo alla fine. Per loro sei un attore che deve interpretare uno show. Nonostante quando io mossi i primi passi nel pugilato imperversava Mike Tyson, il mio mito vero era Muhammad Alì e proprio Alì era il padrino dei mondiali di Chicago. Aver avuto l’opportunità di vederlo da vicino – ho la pelle d’oca solo a ripensarci – per me è stato meraviglioso, tanto più che io ero la sua categoria.

 

In semifinale ho trovato un russo, ma fortunatamente non stava bene e non ha potuto affrontarmi. Vinco i campionati mondiali nettamente davanti a Muhammad Alì. È stato incredibile! Avrei potuto anche ritirarmi [ride]! Beh, comunque poi c’erano le olimpiadi, mica potevo smettere?!

 

Direi! 

Due anni dopo il mondiale si gioca a Milano. Nel frattempo un procuratore – di cui non ti farò il nome – mi dà la possibilità di passare professionista. Mi offrì trentacinque mila euro all’anno. Guadagnavo di più in Polizia, quindi non vedevo un valido motivo per passare professionista. Oltretutto volevo fare prima le olimpiadi e poi, in caso, ne avremmo riparlato. 

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Immagino che averti da campione del mondo era importante per la manifestazione mondiale. Tanto più che la sede scelta era a Milano, ma prima c’è Pechino 2008.

La cerimonia d’apertura a Pechino è stata bellissima. All’interno della mensa olimpica trovi di tutto. Ricordo che c’era Ronaldinho che non riusciva mai a mangiare perché tutti gli chiedevano la foto. Una delle cose meravigliose che mi è capitata, è che ho mangiato di fronte a Usain Bolt. Anche questa è l’olimpiade.

 

C’è un’atmosfera bellissima.

Meraviglioso! Però oltre al cibo buono, ci sono anche i fast food. Era in fila in uno di questi, mi pare fossi ad Atene 2004, e davanti a noi c’erano i calciatori, tra cui c’era De Rossi. Io gli bussai sulla spalla e gli dissi: «Mi prendi un panino anche a me?». «Ci mancherebbe altro! E chi te dice de no!» [ride]!

 

Vorrei ben vedere!

Sono cose belle questi incontri e questo ambiente che si crea. E ciò fa parte del bello delle olimpiadi, al di là delle gare ovviamente. 

 

L’audience delle cerimonie di apertura è incredibile. È l’evento sportivo più visto al mondo. Raccoglie circa due miliardi e mezzo di telespettatori. 

Esatto. 

 

Tornando al pugilato, ci racconti la tua Pechino 2008?

Nel primo incontro sfido un croato e lo batto facilmente. Prima dell’inizio dei match, mi ricordo che Mario Mattioli – giornalista Rai – mi chiese: «Che ti aspetti da questa olimpiade?». «Mario, da campione del mondo sono qua per vincere l’oro». Ricordiamo che al Mondiale di Chicago io vinsi l’oro, Clemente Russo vinse l’oro, Domenico Valentino vinse l’argento e Vincenzo Picardi vinse il bronzo. Fu un mondiale meraviglioso. Quella generazione si è portata a casa ben quattro medaglie. 

 

Tanto di cappello.

Tornando alle Olimpiadi, il secondo match l’ho gestito perché non volevo forzate troppo e la mia mobilità del ring ha iniziato un po’ a rallentarsi, ma non la velocità. Finì otto a quattro. Ero tranquillo e rilassato, ma il coach Damiani mi rimproverò: «Non va bene. Tu sei campione del mondo, gente così la devi spazzare via. Non devi vincere, devi stravincere».

 

Il caso volle che il mio compagno di stanza e amico vero, Domenico Valentino, perde. A quel punto fa il turista a Pechino e acquista una bicicletta, ma io gliela sequestro. Da quel momento la mia Olimpiade ha una svolta significativa, perché non devo più camminare. Girando in bici il mio fastidio alla schiena dovuto al camminare troppo sparisce. L’avversario successivo è un inglese che avevo già battuto, ma comunque mi riguardo i suoi incontri per studiarlo al meglio. Prima del match vado verso il suo angolo e gli dico: «Oggi vinco io!». Alla seconda ripresa l’arbitro chiude il match. Una vittoria straordinaria.

 

Immagino che dopo una vittoria così netta Damiani si sia dovuto ricredere.

Damiani era contento, ma c’era molta tensione. La finale nostra era l’ultima gara dei giochi. C’era molto nervosismo, perché sembrava già tutto apparecchiato per la vittoria di Zhilei Zhang, ma io ero sicuro: «Come fanno a pensare che io possa perdere?». Tra l’altro Zhang lo avevo già incontrato in Italia e battuto. È un atleta di oltre due metri, mastodontico, ma è lento. La mia qualità era la velocità, quindi ero molto tranquillo. Prima di salire sul ring di Pechino, si aprono le porte degli spogliatoi, io lo guardo e dico: «Ti ricordi? Vinco io anche stavolta!». 

 

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Negli istanti che ti separano dall’uscita dello spogliatoio a quando sali sul ring – nonostante l’importanza del match – eri moderatamente tranquillo.

Si, perché dopo l’esperienza ateniese ho cancellato tutto quello che era il contorno della finale.

 

Ti sei isolato da tutto e tutti.

Non esisteva nulla fuorché io e il mio avversario con le nostre rispettive squadre. 

 

Ho un ricordo nitido di quell’incontro, lo vidi in diretta.

Me lo sono rivisto più volte, e ho visto quello che ho fatto. Entrato nel palazzetto io avevo soltanto il match. Il pubblico era tutto contro di me, ma alla fine mi hanno applaudito tutti.

 

 

Damiani ha esultato quasi più di te!

Damiani era contentissimo perché da tecnico è riuscito a vincere quell’oro che gli mancò per un soffio da atleta. 

 

Che rapporto avevi con Damiani?

Molto buono, però ha un carattere particolare. Abbiamo anche molto litigato.

 

Però quel matrimonio professionale ha portato grandi risultati.

C’era grande rispetto e grande fiducia. Il fatto che lui litigava un po’ con tutti, era un suo vanto, però ti dice sempre le cose in faccia. A volte è molto crudo, ma è sincero. E siccome io non sono da meno, ogni tanto tanto c’è stata qualche discussione [ride].

 

Il tuo oro olimpico arriva vent’anni dopo l’oro di Giovanni Parisi a Seoul ’88.

Grande Giovanni Parisi. Insieme a Fragomeni, per me è un altro mito. Da piccolo sono andato spesso a Voghera nella palestra dove si allenava Parisi e l’ho incontrato diverse volte. Con Fragomeni facevo lo sparring e ho avuto la fortuna di farlo quando avevo solo quindici anni. Il livello era alto. Ero un talento già da piccolo. Uno che ha segnato molto la mia carriera è stato Nazareno Mela, con lui sono diventato molto veloce. Mi ha fatto capire la catena cinetica che andava sfruttata in una certa maniera che, insieme alla tecnica, fanno la differenza. Nell’apice della mia carriera con lui, portavo cinque colpi efficaci in sette decimi di secondo.

 

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Vedendo molti tuoi match, una tua peculiarità è proprio la rapidità. Come del resto si vede anche nella finale olimpica vinta.

Lì è stato l’apice del successo e i giornali e telegiornali aprono con la mia vittoria.

 

Finalmente direi.

Ho vissuto il clamore mediatico dopo essere sbarcato in Italia, perché tutti mi riconoscevano per strada. 

 

Penso che ti abbia fatto molto piacere.

Se la gente mi identifica con il mio sport, io ho vinto.

 

Dopo quell’oro ci sono stati altri prestigiosi traguardi.

In accordo con il mio staff, decidemmo di cambiare la mia preparazione fisica e il mio modo di combattere, perché non riesco più a saltellare come prima. Stando più fermo devo essere più efficace; devo imparare a fare male, molto più male. Tra l’altro il sistema di conteggio punti a macchinette premia molto di più i colpi forti.

 

Leggevo in una tua intervista, che tu prediligi vincere i match ai punti che ko, o mi sbaglio?

Assolutamente, però i colpi devono essere efficaci per ottenere il punto. 

 

Arrivano finalmente i mondiali del 2009 a Milano. Che ambiente hai trovato? Combattere in una manifestazione così importante a pochi chilometri da dove sei nato creda sia un’emozione particolare.

C’era Mediaset con i suoi giornalisti di punta. Molto bello.

 

 

Io me lo ricordo bene perché giustappunto lo vidi in televisione.

Il fatto che lo trasmetteva Mediaset è stato un upgrade importante.

 

È molto importante per una disciplina come la boxe avere dei passaggi televisivi sulle reti più viste.

Oserei dire fondamentale. Tornando alle gare, feci sei match.

 

A ridosso dei mondiali milanesi, ricordo un tuo bel KO che hai inflitto a un pugile cubano.

Mentre lui porta il montante io porto il gancio e lui va al tappeto. Ero pessimista sul match, però ricordo bene quella sera: misi i guantoni e li sentivo aderenti come un guanto. Stasera ci facciamo male. Come poi avrai notato la differenza tra prima e dopo Pechino, io inizio a essere un attaccante.

 

Sei più stabile sulle gambe.

Inoltre andavo più verso l’avversario, paravo, rientravo, giocavo anche d’anticipo. 

 

Il momento del ko ho dovuto rivederlo più volte per capire bene il tuo colpo. È troppo veloce per vederlo a occhio nudo in tempo reale.

Per capirlo lo devi vedere a rallentatore. 

 

 

Si fa fatica a vedere quando parte il colpo.

Neanche lui l’ha visto [ride]! Avevo questa combinazione gancio-gancio che in quel momento mi è venuta d’istinto. Poi quel mondiale è stato molto bello e i miei match sono state tutte vittorie nette. La finale è stata emozionante perché inizio piano e dopo la prima ripresa sono sotto. Seconda ripresa pari e poi vinco facile. È stata una vittoria emozionante.

 

A livello emotivo, quale dei due mondiali ti emozionato di più?

Onestamente faccio fatica a dirtelo. Quello in casa è stato perfetto sotto tutti i punti di vista, in particolare dal punto di vista organizzativo. Di contro ti dico che a me l’America mi affascina da sempre, quindi puoi ben immaginare la gioia nel combattere a Chicago. Dal 2007 al 2009 ho fatto settanta incontri senza una sconfitta. Tre anni memorabili.

 

Complimenti sinceri!

Grazie! A quel punto, dopo l’oro mondiale, volevo smettere perché di fatto non avevo più nulla da vincere e oltretutto le olimpiadi di Londra erano ben lontane dal venire. Tra l’altro nel 2009 vinsi di nuovo i giochi del Mediterraneo. Avevo vinto tutto quello che potevo vincere. 

 

Però l’idea di andare a Londra nel 2012 non l’avevi ancora maturata.

No. Volevo smettere, ma rimanere nell’ambiente per dare una mano agli altri pugili. Nel 2011 rifaccio l’europeo e arrivo in finale, ma perdo con il russo Magomed Omarov. 

 

I russi sono una tua maledizione personale.

Chiamarono uno psicologo pensando che io avessi dei problemi con i pugili russi. Ma quali problemi! I russi sono forti e politicamente – nel mondo della boxe intendo – sono potenti. Non sono imbattibili, ma io facevo fatica con loro [ride]. Oltre all’europeo, a fine anno c’è il mondiale che determinava la qualificazione olimpica. Io non avevo aspettative, ma alla fine mi son detto: «Sono Roberto Cammarelle, vice campione europeo». Da lì ho iniziato e riprogrammare le olimpiadi in maniera seria.

 

Ti è tornata la determinazione di prima.

Ho due anni e ce la posso fare. Al mondiale prima di Londra 2012 però perdo ai quarti di finale contro una giovane speranza, tale Anthony Joshua. Io non avevo perso, anzi, ti dirò di più, ho vinto più quel match che quando lo incontro in finale alle olimpiadi di Londra, ed è tutto dire. Damiani anche lì mi fece un cencio, perché secondo lui non mi ero impegnato abbastanza. Dopo il match con Joshua gli dissi: «Va bene che ho perso, ma vedi di andare in finale perché voglio partecipare alle olimpiadi» [ride]. Anthony arrivò in finale e così mi si sono aperte le porte per Londra 2012. 

 

Sei entrato dalla porta di servizio.

Esatto! La preparazione va bene, ma poco prima della partenza per Londra, mi blocco la schiena. Damiani era sfiduciato, ma io gli dissi: «Io voglio venire per vincere». 

 

Sei subito tornato in modalità vincente.

Era la mia terza Olimpiade, oltretutto non distante da casa. 

 

Come la valuti dal punto di vista sportivo invece? 

Non arrivavo con i favori del pronostico, ma ero pur sempre Roberto Cammarelle. Il primo match con un venezuelano lo vinsi 18 a 10. Ho vinto bene, ma ero preoccupato perché questo qua non mi ha dato nemmeno dieci cazzotti e non riuscivo a capire come aveva fatto a fare 10 punti. Il match seguente fu contro un marocchino molto bravo e girava voce che una medaglia sarebbe stata vinta da un paese africano prima o poi. E lui era l’ultimo africano in gara. Tu stai a vedere che perdo, eh… proprio a me doveva capitare [ride]! Se non fosse stato per l’arbitro che gli fa un richiamo ufficiale penalizzandolo di due punti, io per i giudici avevo perso. In semifinale vinco contro l’azerbaigiano campione del mondo [Magomedrasul Majidov, ndr] e credo di aver fatto una delle prestazioni più belle della mia carriera. E così mi ritrovo in finale dopo quattro anni.

 

Per me la finale che disputi contro Anthony Joshua è oro, ci tengo a dirlo, anche se, ahinoi, il risultato dice diversamente.

Lo so. Ero convinto di essere superiore al mio avversario e quindi sono salito sul ring molto tranquillo, anche se sapevo delle pressioni che c’erano. L’inglese giocava in casa, non ce lo dimentichiamo.

 

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Al tuo angolo c’era sempre Damiani.

Assieme a Raffaele Bergamasco. Facemmo l’analisi dei match dell’avversario la sera prima. Avevamo studiato un piano tattico che secondo me aveva funzionato. L’errore che posso imputarmi in quella gara è che il primo round faccio molto bene e lo vinco di un solo punto. Il secondo round, che secondo me ho fatto meno bene, guadagno altri due punti e sto tre punti sopra. Recuperare per lui è quasi impossibile. Avrebbe dovuto letteralmente ribaltare il match. Rivedendo più volte quell’incontro, mi sento di dirti che ho vinto anche l’ultima ripresa. Vogliamo fare che finisce in pareggio? Mi può anche andare bene. Perdo invece di tre punti, ma se io vinco due riprese su tre, è proprio una questione di matematica, non posso perdere. 

 

Lo vidi in diretta e la delusione e l’amarezza da spettatore fu enorme.

Lui era strafottente anche se non era sicuro di aver vinto dopo il gong. 

 

L’istante in cui è stato proclamato vincitore Anthony Joshua, cosa ti è passato per la testa?

Si vede anche in video, finisce il match e io ho una sensazione non bella perché in quell’ultima ripresa c’era stato anche il fattore del pubblico che aveva super pompato l’idolo di casa. Vado all’angolo scuotendo la testa, mentre invece il mio staff stava già festeggiando e gli dissi: «Finché non danno il verdetto state calmi». Quando andiamo al centro del ring, passa più tempo del previsto, perché siamo in pareggio e devono ricalcolare tutto.

 

Lì ho iniziato a capire che c’era qualcosa che non andava e pure il mio angolo si stava preoccupando. Quando hanno detto il suo nome – quello del vincitore – ti confesso che ho avuto una grande delusione. In quel momento ho pensato all’errore storico che stavano facendo e il togliermi la medaglia d’oro era togliermi la fama che mi spettava. Ho tre medaglie olimpiche e credo che nel breve non ci sia nessuno che possa battere questo record, ma un doppio oro sarebbe stato un atto definitivo di portata storica.

 

Sarebbe stato meritato.

È stata dura da accettare. Finito il match, gli inglesi si sono pure arrabbiati perché hanno dovuto attendere oltre venti minuti per la cerimonia di premiazione, causa legittimo ricorso. Con Anthony Joshua ci siamo incontrati all’antidoping e ci siamo scambiati le nostre opinioni e lui sosteneva che nell’ultima ripresa aveva un po’ recuperato. Io gli risposi: «Lascia perdere, non hai recuperato nulla. Prenditi l’oro e sta’ zitto». Poi ci siamo scambiati la canottiera in segno di riconoscenza e fair play. 

 

Quella fu una delusione, ma di successi ne hai collezionati tanti. 

Un lato positivo è che avevo una medaglia di bronzo e una d’oro, mi mancava l’argento. Magra consolazione, ma poteva andare peggio [ride]! Il Regno Unito, essendo paese ospitante, aveva grandi aspettative per i propri atleti olimpici e di fatto, chi organizza, viene sempre un po’ aiutato, anche in maniera indiretta. 

 

Tu sei stato un esempio per la tua carriera sportiva, dove hai ottenuto grandi risultati, grandi vittorie e non hai mai sfruttato questa tua popolarità per emergere nel mainstream televisivo partecipando a qualche reality di dubbio valore etico. 

Un po’ per carattere e poi a me piace emergere come sportivo. Ho partecipato a Ballando con le stelle, perché chiamano anche uno sportivo a ballare. Altri reality non li concepisco. In Ballando con le stelle ero lo sportivo che si applicava in un’altra disciplina sportiva, perché il ballo è uno sport. Rientrava nelle mie competenze.

 

Fu divertente?

Io subentrai a Teo Teocoli e feci la metà delle puntate. Fu impegnativo. Per recuperare quella metà che mi mancava feci una preparazione di due settimane piene con la ballerina più brava che avevano, Natalia Titova. Un allenamento come fa uno sportivo. 

 

Oggi alcuni personaggi sportivi, grazie a un uso massivo dei social, hanno una sovraesposizione mediatica a prescindere dalla loro attività principale che è lo sport. La tua fama invece è dettata esclusivamente dai tuoi risultati sul ring.

In una preparazione pre-mondiali a Bergamo, quando scendiamo dal pullman ci sono delle signore che urlano a Clemente Russo: «Dovevi vincere tu e non Karina Cascella!», riferito al programma televisivo La Talpa dove ambedue avevano recentemente partecipato. Allora io ho fatto questa riflessione e ho detto a Clemente «dopo quindici anni di pugilato, diversi risultati importanti, ti ricordano per questo?». Lui mi ha risposto: «lascia perdere. L’importante è che se ne parli». Sempre in quei giorni ci stavamo allenando fuori dall’hotel e qualcuno esclama: «quello è Clemente Russo, quello che ha vinto le Olimpiadi!». Io mi fermo e la correggo: «No signora, lui ha vinto la medaglia d’argento». «Va beh, è uguale». «No signora, sennò io che l’ho vinto a fare l’oro?!». Questo è un po’ il concetto. Lui aveva la fama pubblica perché l’aveva ottenuta grazie a partecipazioni a programmi nella tv generalista. Ma il risultato sportivo? Ecco che va in secondo piano. 

 

Clemente Russo è un ottimo pugile. 

Certo! È subito dietro di me come palmares di medaglie. Io ti parlo di quello che percepisce la gente. Spesso l’apparenza sovrasta la sostanza. Non mi piace molto questa cosa e non mi rappresenta. 

 

Se la boxe tornasse alla sua essenza di popolarità grazie a più passaggi televisivi, ecco che forse, questo problema si risolverebbe da solo. 

Si scrive sempre di meno di pugilato, tu sei una mosca bianca. Una volta c’erano giornalisti che si occupavano quasi esclusivamente di pugilato. 

 

I tempi sono cambiati, ma chissà non tornino.

La ruota gira, ma dobbiamo farla girare! Dobbiamo aiutare questo sport ad avere più visibilità con personaggi che riescano a calamitare sempre più pubblico. Abbiamo gente valida, ma non passando professionisti, hanno meno seguito di pubblico. Fa più notizia scrivere del calciatore che litiga con il suo allenatore, che di un evento agonistico di boxe. Il volume di soldi che gira nel calcio non ha paragone con altri sport. Su un giornale sportivo di trenta pagine, venti sono solo di calcio e un’azienda sceglie ovviamente di sponsorizzare il calcio, perché finisce in una di quelle venti pagine.

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A proposito di esposizioni mediatiche. Ci sono molti youtuber che espongono e spiegano tecniche di autodifesa e di lotta. I ragazzi, che a loro volta stanno parecchio tempo incollati allo smartphone, apprendono da questi qua, ma credo sia un apprendere passivo. Tu cosa ne pensi?

È uno dei mali delle nuove generazioni. Vedono queste immagini, pensano di averle assimilate e quando tu vai a proporgli dei lavori pensano di saperne più di te, scavalcando la figura del tecnico. Quando uno arriva in Nazionale, deve sapere che i tecnici sono i migliori. Deve pensare che siano così e non il contrario. Molti ragazzi, oggi, hanno più presunzione e meno umiltà. Non si rispetta l’autorità e sono difesi troppo spesso dai loro genitori. 

 

Ci sono ragazzi che arrivano da voi un po’ troppo esuberanti?

Noi qua stiamo già ad alto livello, vengono qua che sono tra i migliori in Italia pensando di essere già molto forti, ma poi arriva una squadra, magari tra le più scarse, e vanno al tappeto. Nessuno mette in dubbio il loro valore, ma c’è sempre tanto da fare per crescere. I talenti ne abbiamo, non fraintendermi. 

 

Quanto è importante per un atleta il sostegno delle Fiamme Oro?

I gruppi sportivi in generale ti permettono di fare questo sport come un professionista. Io mi alzo la mattina e penso solo a quello. Uno che sta in una palestra civile a una certa età dovrebbe anche pensare quale sarà il suo futuro in caso non diventasse un campione. Molti atleti rimangono nel nostro ambiente come tecnici. 

 

Hai una carriera veramente invidiabile.

Nel 2014, proprio grazie alla Polizia, sono riuscito a studiare e a diventare una persona migliore.

 

Per un atleta vincere un’Olimpiade è il massimo, ma a volte non c’è sempre un’adeguata corrispondenza economica per una vita spesa a raggiungere un obiettivo così prestigioso, che arriva dopo anni di duri sacrifici. Ci sono sport che hanno un’esposizione mediatica notevolmente maggiore e gli atleti, anche senza alcun tipo di risultato, guadagnano molto di più penso al calcio ovviamente. 

Il problema non è neanche economico, ma è di trattamento. Quando uno vince le Olimpiadi, è come un giocatore di serie A, anzi forse pure di più. Dovrebbe avere la stessa riconoscenza mediatica quantomeno. Per la medaglia d’oro ci spettano centoquaranta mila euro – dati ufficiali del Coni – mentre un campione di calcio guadagna qualche milione di euro all’anno.

 

Non c’è gara. Anthony Joshua per esempio, al debutto da professionista, ha riempito Wembley con novantamila persone, perché era campione olimpico. Questa è la mentalità che a noi manca. Ora tu puoi pensare: «Perché non sei passato anche tu professionista?». Se io lo avessi fatto, sarei stato bravo se fossi riuscito a radunare in un palazzo dello sport otto o dieci mila persone al massimo. Capito la differenza di numeri?

 

È più importante la preparazione fisica o la preparazione mentale per un pugile?

Il bello del pugilato è che prima di tutto è un incontro tra due menti, però l’aspetto fisico è determinante. Un buon atleta allenato, senza testa, non vince. Un atleta non allenato, ma con la testa, può fare un buon match, ma in un torneo non può andare avanti. Le due cose devono andare di pari passo. 

 

C’è il rispetto nel mondo della boxe?

Oggi credo ce ne sia ancora di più di prima. Ai miei tempi ci guardavamo più in cagnesco. Vedo più collaborazioni anche tra le Nazionali e ci sono più scambi, ma c’è sempre tanto agonismo perché tutti vogliono vincere.

 

È un cambio di mentalità importante.

Si, perché rende questo mondo più bello e più vivibile. 

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Che consiglio daresti alle nuove generazioni?

Il consiglio è quello di crederci per davvero in quello che si fa. Quando ci si scontra con la realtà, è dura, perché la realtà significa sacrificio, dolore, sopportazione. Le sconfitte vanno analizzate e devono essere motivo di crescita. Io su duecentotrenta incontri ho solo venti sconfitte, ma me le ricordo tutte molto bene. Di cui dieci le posso anche contestare [ride]! Una sconfitta per me è una delusione forte, quasi un lutto, che non vuoi più che si ripeta. Perdere fa male e ricordarsi il dolore è importante, perché significa crescere. Invece nelle generazioni nuove vedo che c’è la voglia di voltare pagina troppo in fretta dopo una sconfitta, scaricando su altri l’alibi della sconfitta. 

 

Prima di salire sul ring avevi paura?

Ci deve essere un timore reverenziale, perché ti tiene vigile. Prima di tutto perché non giochiamo a calcio, bensì è uno scontro fisico dove l’obiettivo è colpire l’avversario. Chi abbassa la guardia mentale, chi abbassa il livello d’attenzione, è quello che le prende.

 

Devi avere sempre la massima attenzione e il livello alto lo mantieni proprio se hai il timore che l’avversario possa colpirti. Devi inoltre avere un super-ego: io sono il migliore, tu non mi puoi toccare. Io ho usato sempre questa filosofia.

 

Poi c’è l’oggettività, come quando capisci al primo secondo che il tuo avversario è nettamente inferiore, e non potrebbe mai toccarti. Io sono stato sempre riconosciuto come una persona buona e corretta e in quei casi non ho forzato troppo la mano.

 

Mi ricordo un pugile sloveno, nel 2009 a Milano, che non mi portava neanche un colpo e l’arbitro richiamava me perché portavo colpi leggeri, in quanto lui pareva non riuscisse proprio a combattere. L’ho portato ai punti, e ho vinto ovviamente. Dopo il match, accompagnato da suo padre, mi ha detto: «per me è stata un’emozione combattere con te. Ho il tuo poster in camera». Questa cosa mi emozionò non poco e lì ho capito perché non portava i colpi. 

 

Tra i tanti match che hai vinto, mi ricordo di un tuo fulmineo KO dopo pochi secondi. Meraviglioso!

Ai Mondiali di Milano contro un bielorusso che tra l’altro era vice campione olimpico ad Atene 2004.

 

 

C’è amicizia nel vostro mondo, tra pugili intendo.

Sì! Tra quelli della stessa categoria è un po’ più difficile, perché prima o poi ci si può affrontare. Ad esempio con Daniel Betti abbiamo fatto i primi due anni di massimi insieme e l’ho sempre battuto [ride]. Poi io sono passato ai supermassimi, ma siamo sempre amici, anche perché abitiamo nella stessa città. Con coloro che ci ho condiviso il percorso olimpico, siamo come fratelli. Con Clemente siamo amici, anche se ci fu un periodo in cui ci siamo un attimo allontanati per motivi di lavoro. Lui adesso è tornato nel giro della Nazionale e ci frequentiamo di più. 

 

Grazie per la bellissima chiacchierata e viva la boxe!

Sempre! Grazie a te.

 

Francesco Rondolini

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Bizzarria

Il premier britannico vieta definitavamente le «spade ninje». È ora che l’italiano inizi a chiamarle così

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Le spade ninja sono ora vietate in Inghilterra e Galles in base alle nuove leggi entrate in vigore venerdì, ha confermato il Ministero dell’Interno del Regno Unito. Possederne una in pubblico può comportare una pena detentiva fino a quattro anni.   Il cambiamento fa parte di un più ampio sforzo governativo per arginare la violenza con l’uso di coltelli. Oltre 1.000 armi sono state consegnate a luglio durante una campagna di amnistia durata un mese, volta a rimuovere oggetti pericolosi dalle strade, secondo il ministero dell’Interno.   Il divieto segue una serie di attacchi mortali con coltello che hanno sconvolto la nazione. Nel 2024, il diciassettenne Axel Rudakubana uccise tre ragazze e ne ferì altre 10 durante un recital per bambini a tema Taylor Swift a Southport.

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L’attacco ha riacceso la rabbia pubblica e ha spinto i ministri a promettere norme più severe sulla vendita di armi online, controlli più rigorosi sull’età e divieti su alcuni oggetti da taglio come coltelli da zombie e machete.   Nel 2024, il premier britannico Keir Starmer dichiarò che i crimini legati all’uso di coltelli avevano raggiunto livelli epidemici e promise di reprimere le armi letali. In seguito confermò che le spade ninje sarebbero state vietate e affermò che il governo avrebbe mantenuto le promesse.   La nuova legge fa parte della «Legge Ronan», che prende il nome dal sedicenne Ronan Kanda, ucciso nel 2022 con una spada ninja. L’Associazione dei Commissari di Polizia e Criminalità (APCC) ha affermato che il divieto contribuirà a ridurre la presenza di queste armi, soprattutto nei casi di violenza tra bande.   L’APCC ha inoltre dichiarato che intende indagare sul perché le persone portino con sé coltelli e su come impedirlo, aggiungendo che il divieto conferisce alla polizia poteri aggiuntivi per sequestrare tali armi e proteggere le comunità.   Possedere una spada ninja in casa comporta una pena fino a sei mesi di carcere, ma potrebbe aumentare a due anni in base a un nuovo disegno di legge sulla criminalità e la polizia attualmente all’esame del Parlamento.   Secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero degli Interni e dall’Home Office britannici, i reati con arma bianca in Inghilterra e Galles sono aumentati dell’87% nell’ultimo decennio. Solo nell’ultimo anno sono stati segnalati quasi 55.000 episodi legati all’uso di armi bianche, con un aumento del 2% rispetto al 2023.   Renovatio 21 non nasconde di aver pubblicato questo articolo per poter trattare, finalmente, della questione della flessione della parola ninja. Si tratta come noto di un lemma giapponese: la parola ninja si compone dei caratteri kanji 忍者, cioè 忍 «rubare, muoversi inosservati» e 者«persona», a indicazione della natura furtiva tipica della ninjitudine. Ninja è la lettura on’yomi, cioè derivata dal Cinese Medio (parlato dal 420 al 1279 d.C.), che integrò potentemente la lingua nipponica. Esiste tuttavia una lettura giapponese (kun’yomi) dei due caratteri, che è Shinobi no mono, abbreviata in Shinobi, parola che certo risuonerà in chi si interessa di ninji o di videogiuochi della SEGA di quattro decadi fa.   Ora, sappiamo che la lingua giapponese rifugge la flessione: non c’è declinazione, non c’è genere e nemmeno numero; i plurali sono praticamente quasi del tutto inesistenti. Le parole giapponesi importate in italiano (tantissime, più di quanto computiamo) sono, anche per questo, invariabili: «mangiare un sushi», «attentatore kamikaze», «leggere manga», «amare il bonsai», «praticare l’origami», «indossare un kimono» etc.   Riteniamo, tuttavia, che la parola ninja di per sé inviti molto ad iniziare a flettere anche le parole giapponesi, per renderle completamente italiane: si tratta del resto del processo speculare a quello dei gairaigo (外来語, «lingua che è arrivata dall’esterno»), le parole straniere che il giapponese ha assimilato nella lingua sillabica: bēsubōru (ベースボール, baseball), intānetto (インターネット, cioè internet), hottodoggo (ホットドッグ , hot dog), pantsu (パンツ, pantaloni), bakansu (バカンス, vacanza), konpyūtā (コンピュータ, computer), bīru (ビール (cioè beer, birra), toire (トイレ, toilette), terebi (テレビ , televisione), arukōru (アルコール, alcol), ma anche quantità di parole italiane come pasuta (パスタ, pasta), maesutoro (マエストロ, maestro), supagetti (スパゲッティ, spaghetti), burābo (ブラーボ, bravo). Un vecchio piccolo dizionario De Agostini – società peraltro notissima in Giappone per via del commercio di oggetti collezionabili– riportava pure la parola aguritsurizumo (アグリツーリズモ, agriturismo).   Quindi, se il giapponese può prendere le nostre parole e possederle storpiandone le sillabe, perché noi non possiamo fare chiralmente altrettanto? Perché non creiamo noi stessi dei gairaigo italiani?

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Quindi, la parola ninja dovrebbe, secondo Renovatio 21, cominciare ad essere usata al femminile: una storia ninja. Mentre il maschile dovrebbe cominciare a comparire nei nostri discorsi: un guerriero ninjo. Plurale: assassini ninji. Plurale anche per il femminile: armi ninje.    A questo punto andiamo oltre: la parola ninja è, come molte altre nella lingua di Yamato, componibile: ad esempio, il ninjutsu (忍術), è, etimologicamente, la tecnica del ninjo – e vi sono scuole anche in Italia, per quanto con video YouTube improbabili assai. Perché anche l’italofonia, a questo punto, non può parlare di ninjitudine, ninjezza, ninjaggio, ninjamento, ninjeria, etc.?   Anticipiamo che la medesima tentazione la abbiamo anche per un’altra parola nipponica, ancora più inviante: samurai. «Samurai» dovrebbe essere plurale: i samurai. Al singolare, dovrebbe suonare samuraio. Siamo tentati di mettere la i lunga che fa vetusto: samurajo. Femminile: samuraia, o samuraja: la spada samuraia (cioè la katana, cioè le katane), l’etica samuraja, le tecniche samuraje. Qualcuno potrebbe addirittura arrivare a domandarsi: ma perché, a questo punto, non samuragli, samuraglio? Eh…   Ecco, ora abbiamo scritto anche questo: il lettore ha ricevuto forse qualche lume sulle potenti italianizzazioni che incorrono nelle pagine di Renovatio 21. Ebbene sì, questa indomita spinta italofonica – condivisa da nessuno, praticamente, con l’esterofilia glottologica imperante nell’ora presente – questo fremito irrefrenabile al nazionalismo linguistico ha, in verità, pure un’influenza stranierissima, perfino nipponica.   Annunciamo quindi che qui a Renovatio 21, alla facciazza dei puristi che epperò non amano davvero l’italiano e nemmeno divertirsi, oltre a non conoscere nulla del giapponese, continueremo a parlare di spade ninje e samuraje, persino combattendone il proibizionismo dilagante.   Va così. In giapponese: shikata ga nai ((仕方がない), non c’è niente da fare. Leggete questo giornale, e questo tipo di cose vi beccate.  

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