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Geopolitica

Suora italiana trucidata dai jihadisti nel Mozambico «pacificato» dalla Sant’Egidio

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Suor Maria De Coppi, 83 anni, è stata uccisa dai terroristi in Mozambico, dove la religiosa di Vittorio Veneto operava dal 1963.

 

La suora, che negli anni aveva ottenuto la cittadinanza mozambicana, prestava servizio con altri missionari comboniani nella provincia di Nampula, a circa 300 chilometri da Cabo Delgado, zona di attacchi jihadisti da almeno un lustro.

 

Da quello che si apprende dalle prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un attacco notturno. I missionari nei giorni precedenti, avendo visto strani movimenti, avevano lanciato l’allarme in Italia.

 

I jihadisti sarebbero arrivati nella missione e avrebbe incendiato e distrutto tutto. Di due altre suore si sono perse le tracce: potrebbero essere state rapite, come di recente si usa fare anche in altre parti dell’Africa, come in Nigeria. Nei prossimi giorni capiremo il loro destino se perverrà una richiesta di riscatto.

 

Due missionari sono invece riusciti a fuggire nella foresta con altri locali, riuscendo a mandare messaggi in cui annunciavano che avrebbero potuto morire di lì a poco. Uno di essi avrebbe scritto che già perdonava i suoi possibili uccisori.

 

La suora sarebbe stata raggiunta da un proiettile alla testa. Anche Suor Maria ha mandato un ultimo messaggio vocale, in cui parlava dei momenti di tensione, della strage nel Paese vicino, della fuga di tutta la popolazione locale.

 

«Speriamo che il signore protegga noi e protegga questo popolo» sono state le ultime parole della missionaria.

 

Già un’altra volta Suor Maria aveva incontrato la furia del terrore, rischiando di essere assassinata. Anni fa era stata vittima di un’imboscata dove furono ammazzate   17 persone. «Stavamo viaggiando in un convoglio. I guerriglieri ci hanno sparato. Io sono uscita dall’auto e mi sono gettata a terra, sotto le pallottole. Ho pregato: “Signore salvami”. E’ arrivato un soldato, non sapevo se dell’esercito regolare o della guerriglia. Mi ha chiesto se ero ferita. Non lo so, gli risposi. Mi ha trascinato dietro una pianta e mi ha rassicurata, che era un regolare. Mi ha caricata sulle spalle e mi ha poi protetto, sistemandomi in un ruscello che non aveva acqua. Poi, quando è finita la sparatoria, mi ha ricaricata sulle spalle e mi ha portato fino all’auto».

 

Il luogo della missione, il barrio Muatala di Nampula, si troverebbe nei dipressi della penisola di Afungi, dove nel 2010 è stato scoperto un pozzo di gas naturale, più importante che mai oggi. Il valore dell’estrazione si aggirerebbe intorno ai 150 miliardi di dollari, e i primi tank di GNL dovrebbero essere tirati fuori dal 2024 – si parla di non meno di 43 milioni di tonnellate l’anno, una fortuna senza paralleli, ora.

 

I jihadisti che insanguinano l’area si fanno chiamare Al-Sunna wa Jama’a (ASWJ), ma sono noti anche come «la gioventù», cioè al-Shabaab. A differenza degli omonimi somali, che amano rapire le nostre cooperanti e magari spendere i danari del riscatto pagato dal contribuente italiano in attentati sanguinari come quello di pochi giorni fa, gli Shabaabbi mozambicani non si sono affiliati ad al-Qaeda, ora decapitata del leader al-Zawahiri via drone killer CIA, ma all’ISIS, di cui si ritengono la branca in questa parte dell’Africa. Non è chiaro tuttavia se il Califfato, che di recente ha rialzato la testa con la strage del consolato russo di Kabul, controlli davvero i sedicenti membri del Daesh del Mozambico.

 

Secondo il presidente mozambicano Filipe Nyusi, gli eccidi sarebbero provocati da micro-gruppi che fuggono da Cabo Delgado, dove i jihadisti subirebbero la pressione delle forze di sicurezze governative e pure di quelle del turbolento e autoritario Ruanda.

 

Come riporta La Verità, in realtà «le autorità del Mozambico hanno più volte detto di aver vinto la guerra contro i fondamentalisti specie dopo le dure offensive contro il gruppo terroristico», tuttavia più similmente «i successi sono stati molto limitati, visto che i territori occupati dai jihadisti che erano stati riconquistati dopo poco tempo sono ritornati nelle mani degli insorti».

 

Dall’inizio del conflitto jihadista, nella zona vi sono stati almeno 3 morti e 800 mila profughi.

 

Sono arrivate prontamente le parole del presidente della Conferenza Episcopale Italia, il cardinale Zuppi.

 

«Preghiamo per suor Maria – ha dichiarato il Cardinale in un comunicato ufficiale – che per sessanta anni ha servito il Mozambico, diventato la sua casa. Il suo sacrificio sia seme di pace e di riconciliazione in una terra che, dopo anni di stabilità, è nuovamente flagellata dalla violenza, causata da gruppi islamisti che da alcuni anni seminano terrore e morte in vaste zone del nord del Paese».

 

Bisogno qui ricordare che il cardinale Zuppi proviene dalla Comunità di Sant’Egidio, un movimento cattolico nato da ex ciellini che, per qualche motivo, è riuscito ad avere un ruolo di primo piano nella gestione di alcune questioni geopolitiche del Terzo Mondo.

 

Il «capolavoro» di Sant’Egidio fu la pace ottenuta tra il FRELIMO e la RENAMO, le due fazioni in lotta in Mozambico, che cessarono le ostilità con gli Accordi di pace di Roma del 1992. Presenti, oltre al fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi (poi ministro alla cooperazione internazionale con Mario Monti), c’era proprio Monsignor Zuppi.

 

Una persona coinvolta nel processo parlò allo scrivente del ruolo precipuo che vi svolse l’allora potente Partito Socialista Italiano, tuttavia la pace in Mozambico è considerata al 100% come frutto degli sforzi caritatevoli di Sant’Egidio.

 

Qualcosa, in questo Mozambico «pacificato» dalla Sant’Egidio deve essere andato storto, ad occhio. Zuppi, che ora nel comunicato parla di Islam, è quello che – a Bologna – e avallò i tortellini privati della carne di maiale per non dispiacere ai musulmani: si trattò degli indimenticati «tortellini accoglienti al pollo (senza il classico ripieno di maiale) da servire a tutti in piazza Maggiore nel giorno di San Petronio».

 

Quanto a Riccardi, anche lui, che ora vede il suo capolavoro rovinato dal fondamentalismo musulmano, per l’Islam ha un tenero programma di «coabitazione» con il Cristianesimo: l’Islam «è una realtà di grandissima complessità, fatto di storie e di percorsi, e per tale ragione non può essere considerato solo una dottrina. Sono le semplificazioni odierne che aprono la strada al fondamentalismo».

 

Come aveva già scritto Renovatio 21 più di due anni fa su un articolo sulla situazione mozambicana tra ISIS e giacimenti di gas, «proprio il fondamentalismo, complesso o semplificato, si è affacciato proprio al capolavoro diplomatico africano di Ricciardi e Zuppi, e ora minaccia di mangiarselo tutto – e con esso gli interessi dell’ENI e dell’Italia.

 

Ci chiediamo: una pace che genera jihadisti, è vera pace?

 

E ancora, ci facciamo la domanda più tabù del mondo: davvero pensiamo che l’Africa riesca a risolvere i suoi problemi da sola?

 

Forse non avremo mai un Africa dove anime stupende come quella di Suor Maria non possano subire l’orrore. Tuttavia, è quello per cui esse, da secoli, sono pronte: il martirio.

 

Per questo, al di là di ogni pensiero, ci inchiniamo profondamente davanti al sacrificio di Suor Maria e preghiamo:

 

Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.

 

Requiescant in pace

 

 

 

 

Immagine screenshot da YouTube

 

 

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Geopolitica

Missili Hezbollah contro basi israeliane

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Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.

 

Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.

 

Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».

 

Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.

 

 

Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.

 

Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.

 

Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

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Geopolitica

Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.   In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».   Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.   Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.   L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.   «Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».   Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».   Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.   «Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato   Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.   L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.   Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.   Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic  
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Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

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