Geopolitica
Un anno dal ritorno dei talebani: Paesi confinanti temono l’Islam radicale
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
In Afghanistan dominano l’estremismo religioso e regole tribali. Le nazioni dell’area osservano con apprensione – e cercano di limitare – gli influssi dell’islam radicale. Guerra e armi dettano i tempi della politica, la crisi economica alimenta tensioni. Il controllo delle frontiere e la riapertura dei ponti sul confine uzbeko.
Il 15 agosto 2021 i talebani concludevano la riconquista di Kabul, dopo il precipitoso e convulso ritiro delle truppe Usa e il caos della fuga dall’aeroporto, con i bambini gettati dalle madri al di là delle reti di recinzione nelle braccia dei marines. Un anno dopo, le notizie dall’Afghanistan sono sempre più rare e oscure, al di là del ripristino della cappa di estremismo religioso e delle regole tribali.
I Paesi confinanti dell’Asia centrale, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, ma anche Kazakistan e Kirghizistan poco lontani, vigilano con apprensione sui possibili influssi dell’islam radicale. In essi si cerca in tutti i modi di incoraggiare una pratica moderata della religione, compatibile con sistemi politici tutt’altro che stabili, affidati a una classe dirigente ex sovietica che ha prosperato per decenni sulla relativa stabilità della Russia da una parte, e delle forze armate occidentali dall’altra.
Ora i due argini sono crollati: la guerra e le armi tornano da entrambi i lati a dettare i tempi della politica e della vita sociale e la crisi economica suscita non poche tensioni sui territori, tra le diverse classi sociali e i gruppi etnici. Oltre alle posizioni di neutralità asimmetrica riguardo alla guerra russa in Ucraina, sono particolarmente importanti le relazioni che questi Paesi riescono a mantenere con la polveriera afghana.
In prima linea il Tagikistan non solo per ragioni geografiche – il suo confine con l’Afghanistan è quello più a rischio di penetrazione – ma anche per la composizione etnica, essendo i tagiki la principale minoranza in territorio afghano, non riconosciuta dal governo dominato dai pashtun.
L’Uzbekistan mantiene piuttosto una posizione di contenimento, essendo non solo il Paese più popoloso della zona (35 milioni di uzbeki, a fronte di 31 milioni di afghani) ma anche quello strategicamente decisivo per il transito delle merci tra Cina, India, Russia ed Europa. Anche per questo Taškent cerca di smussare il più possibile le tensioni con i talebani.
Un buon esempio di questo atteggiamento più costruttivo degli uzbeki è la situazione che si è creata a Termez, una piccola cittadina al confine, che si è trasformata nella «porta della vita» per milioni di afghani. Qui sono stati dislocati i magazzini con i carichi umanitari organizzati dall’ONU, da cui oltre un migliaio di tonnellate sono stati portati in Afghanistan, e ora vengono in parte inviati alle zone disastrate dell’Ucraina.
Un Paese senza sbocco sul mare, confinante con Stati altrettanto lontani dalle rive, si trasforma così in un canale su cui scorrono le speranze di profughi, sfollati e abbandonati.
L’Uzbekistan è anche il principale fornitore di energia per l’Afghanistan, che si preoccupa di pagarne i costi senza lasciare debiti in sospeso con Taškent. Nella stagione estiva, peraltro, Kabul si stacca dalla rete uzbeka per allacciarsi a quella del Tagikistan.
I territori uzbeki e afghani si sono spesso intrecciati, come le etnie dei due Paesi, nel succedersi delle dinastie dai tempi antichi e moderni.
Nel 1750 venne firmato uno storico «Accordo di amicizia» tra lo sceicco afghano Akhmad Durrani e quello di Bukhara Mohammad Murad Bek, che fissò il confine sul fiume Amu Darja.
In tempi passati i sovietici vi hanno costruito il Ponte dell’Amicizia, lungo 816 metri e rimasto a lungo inaccessibile per le vicende belliche degli ultimi 20 anni. La frontiera uzbeka rimane una delle più sorvegliate della zona, ma i ponti si stanno lentamente riaprendo.
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Economia
La Turchia sospende ogni commercio con Israele
Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.
La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.
Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.
Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.
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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.
Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.
In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.
.@RTErdogan is breaking agreements by blocking ports for Israeli imports and exports. This is how a dictator behaves, disregarding the interests of the Turkish people and businessmen, and ignoring international trade agreements. I have instructed the Director General of the…
— ישראל כ”ץ Israel Katz (@Israel_katz) May 2, 2024
Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».
Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UE) a Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».
Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.
Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.
Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.
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Immagine di Haim Zach / Government Press Office of Israel via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Cina
Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico
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Geopolitica
Trump non esclude il taglio degli aiuti a Israele, attacca Netanyahu e rivela dettagli sull’assassinio di Soleimani
L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rifiutato di escludere il ritiro degli aiuti militari a Israele per forzare la fine della guerra a Gaza se verrà rieletto. Un tempo strenuo difensore del primo ministro Benjamin Netanyahu, Trump ha sostenuto che il leader israeliano e il suo esercito hanno «pasticciato» la guerra con Hamas.
In un’intervista con la rivista Time pubblicata questa settimana, il candidato alla Casa Bianca ha confermato la sua insistenza del mese scorso sul fatto che Israele dovrebbe «porre fine alla guerra» prima di perdere ulteriore sostegno internazionale.
«Penso che Israele abbia fatto molto male una cosa: le pubbliche relazioni», ha detto Trump al quotidiano, aggiungendo che secondo lui l’esercito israeliano non dovrebbe «inviare ogni notte immagini di edifici che crollano e vengono bombardati».
Alla domanda se escluderebbe di negare o applicare condizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele per portare la guerra a una conclusione, Trump ha risposto «no», prima di lanciarsi in una feroce critica a Netanyahu.
«Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», ha detto, riferendosi a Netanyahu con il suo soprannome. Trump ha ricordato come Netanyahu avrebbe promesso di prendere parte all’attacco aereo statunitense che ha ucciso il comandante militare iraniano Qassem Soleimani nel gennaio 2020, prima di ritirarsi all’ultimo minuto.
«È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», ha detto Trump al Time, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».
Come riportato da Renovatio 21, secondo rivelazioni dello scorso anno dell’ex capo dell’Intelligence israeliana, sarebbe stato lo Stato Ebraico a convincere la Casa Bianca ad uccidere il generale iraniano.
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Netanayhu, ha detto The Donald, «è stato giustamente criticato per ciò che è accaduto il 7 ottobre», riferendosi all’attacco di Hamas contro Israele. «E penso che abbia avuto un profondo impatto su di lui, nonostante tutto. Perché la gente diceva che non sarebbe dovuto succedere».
Israele ha, proseguito «le attrezzature più sofisticate», ha continuato. «Tutto era lì per fermarlo. E molte persone lo sapevano, migliaia e migliaia di persone lo sapevano, ma Israele non lo sapeva, e penso che sia stato fortemente incolpato per questo».
Trump non è la prima persona ad affermare che l’esercito e il governo israeliani non hanno risposto agli avvertimenti di un imminente attacco di Hamas. Secondo quanto riportato dai media israeliani, diversi membri del personale militare e dell’Intelligence hanno cercato di avvertire i loro superiori che era in corso un attacco, mentre i funzionari egiziani hanno riferito all’Associated Press di aver trasmesso avvertimenti alle loro controparti israeliane nelle settimane precedenti il 7 ottobre.
Trump è stato uno stretto alleato di Netanyahu durante il suo mandato alla Casa Bianca e si è descritto come «il presidente degli Stati Uniti più filo-israeliano della storia». Ha imposto sanzioni all’Iran su richiesta di Netanyahu, ha spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme ovest e ha mediato gli accordi di Abramo, che hanno visto Israele normalizzare le relazioni con il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan.
Alla domanda se potrebbe lavorare meglio con il principale rivale politico di Netanyahu, Benny Gantz, se dovesse tornare alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali di novembre, Trump non ha dato una risposta diretta. Tuttavia, ha osservato che «Gantz è bravo» e che ci sono «alcune persone molto brave che ho conosciuto in Israele che potrebbero fare un buon lavoro».
Benjamin Netanyahu è stato sostenuto negli anni dalla famiglia del genero di Trump Jared Kushner, il cui padre – controverso immobiliarista ebreo ortodosso finito in galera per una squallida storia di ricatti perfino a famigliari – era uno dei primi finanziatori di Bibi, il quale, si dice, quando era a Nuova York dormisse nella cameretta del Jared.
Il personaggio si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.
Il Jared – che è sospettato da molti di essere una «talpa» contro Donald, perfino nel caso del raid FBI a Mar-a-Lago – e la moglie, l’adorata figlia di Trump Ivanka, sarebbero stati lasciati fuori dalla nuova campagna per esplicita richiesta dell’ex presidente.
Trump, in uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, diede la grazia al traditore (e spia israeliana) Jonathan Pollard, analista dell’Intelligence USA artefice di una delle più grandi falla di segreti militari della storia degli apparati statunitensi.
Nei primi giorni del 2021, agli sgoccioli della presenza di Trump alla Casa Bianca, Pollard arrivò in Israele, dove lo attendevano ali di folla a festeggiarlo come un eroe (per aver tradito il loro principale alleato: incomprensibile fino al grottesco, a pensarci), tramite un jet privato messo a disposizione dal controverso magnate dei casino di Las Vegas – e finanziatore di quasi tutto il Partito Repubblicano USA come del Likud israeliano – Sheldon Adelson, morto poche ore dopo.
Come riportato da Renovatio 21, Trump il mese scorso ha dichiarato che il comportamento di Israele a Gaza ha causato un danno enorme alla percezione dello Stato ebraico nel mondo, mettendoli «nei guai» e incoraggiando l’antisemitismo.
Attacchi pubblici di Trump a Netanyahu si sono registrati già a fine 2021, mossa che gli valse uno screzio con i fondamentalisti protestanti americani, cioè i cristiano-sionisti che sostengono Israele per la profezia apocalittica secondo cui gli ebrei, ricostruendo il Terzo Tempio, genereranno il loro messia che sarà l’anticristo dei cristiani, accelerando la venuta di Cristo.
Tale teologia escatologica è in azione anche in questi giorni, come visibile nel caso della giovenca rossa, e di altri animali da sacrificio che hanno tentato di trafugare sul Monte del Tempio di Gerusalemme.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
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