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Geopolitica

Anche senza riconoscimento, il governo talebano è destinato a restare

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

Il futuro dell’Emirato islamico dipenderà dalla capacità dei talebani di pacificare il Paese, sostiene il professor Diego Abenante. La resistenza non sembra avere possibilità e un conflitto civile non gioverebbe alla popolazione. Daesh continua a essere motivo di grande preoccupazione. L’unica speranza è che la linea di governo meno dura prevalga sugli elementi radicali del gruppo Haqqani.

 

 

È una storia che si ripete quella dell’Afghanistan: i talebani hanno spazzato via i diritti delle donne, l’Emirato islamico non gode del riconoscimento internazionale di alcun Paese, è sempre più isolato sulla scena internazionale, metà della popolazione – circa 20 milioni di persone – soffre la fame e gli aiuti concessi dalla comunità internazionale porteranno gran poco sollievo.

 

In base agli accordi di Doha siglati nel febbraio 2020 tra l’amministrazione Trump e i talebani, gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dal Paese e in cambio gli «studenti coranici» avrebbero garantito di non sostenere il terrorismo islamista in Afghanistan.

 

«Gli impegni sono stati rispettati», spiega ad AsiaNews il professor Diego Abenante. La tenuta del nuovo Emirato ora dipenderà dalla capacità dei talebani di pacificare il Paese: «Come durante il primo regime sorto nel 1996, la riconquista dei talebani è stata favorita dalla stanchezza della società afghana nei confronti di una guerra lunghissima. Se manterranno questa promessa – e finora effettivamente c’è stata una riduzione della violenza nel Paese – il loro governo potrà durare nel tempo», prosegue il docente di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università di Trieste.

 

«Se invece dovessero fallire è possibile si generi una rivolta generalizzata. Ci sono sacche di resistenza che si erano già materializzate nei giorni successivi alla presa del potere, ma non sono mai diventate movimenti nazionali, ed è improbabile che lo diventino nel prossimo futuro», spiega il docente. Con pochi mezzi e senza il sostegno della comunità internazionale la resistenza non ha possibilità di successo. Ma soprattutto a nessuno gioverebbe un altro conflitto civile.

 

Gli operatori umanitari ammettono di avere la possibilità di raggiungere province prima inaccessibili, ma i talebani, nonostante le loro dichiarazioni, oltre a non essere in grado di governare, non hanno il controllo del Paese: gli attacchi di Daesh (lo Stato islamico, noto in Afghanistan con il nome di IS-K, dove «K» indica la regione storica del Khorasan) non si sono mai fermati.

 

«Questo è un dato che non deve stupire: per ragioni storiche e geografiche nessun governo ha mai dominato tutto il territorio afghano», continua l’esperto. «Al contrario, in altri periodi era quasi sempre la società a esercitare un controllo su uno Stato debole. Se in passato questo fattore giocava a favore dei talebani, che hanno da sempre tentato di minare l’autorità di Kabul, ora sono loro i primi a incontrare questa difficoltà».

 

Nonostante una prima iniziale convergenza tra il 2014 e il 2015, quando i militanti dello Stato Islamico hanno cominciato a mettere radici in Afghanistan, i due movimenti islamisti sono arrivati alla rottura, «arricchitasi nel tempo di elementi di carattere religioso e politico: Daesh è profondamente anti-sufi e anti-sciita, come dimostrato ancora una volta dagli attentati più recenti. Mentre i talebani, anche se appartengono alla matrice religiosa deobandi, non vogliono la divisione della società, perché non possono governare se questa è spaccata. Dopo l’esperienza di governo degli anni ‘90 hanno capito di avere bisogno di un Paese unito per governare», spiega ancora il professore.

 

«Se l’agenda dello Stato Islamico è universalistica perché considera come unica prospettiva possibile la ricreazione del Califfato, quella talebana è un’agenda nazionale e su questo gli ex studenti coranici sono da sempre stati molto coerenti: non hanno mai voluto estendere la rivoluzione al di fuori dei confini nazionali e non vogliono fare la guerra contro l’Occidente, tant’è che hanno fatto un accordo con gli USA». I quali ora si trovano in una situazione molto ambigua «che ricalca quella che avevano già sperimentato nel 1994-1995 prima della nascita del primo governo talebano», fa notare Abenante.

 

Dalla riconquista di Kabul «gli Stati Uniti si trovano davanti a due opzioni: disinteressarsi dell’Afghanistan e lasciare che la popolazione subisca il regime oppure intervenire. Finora ci sono stati tentativi di trasferimento di denaro alle agenzie umanitarie internazionali, ma è stato reso chiaro che la legittimazione al loro governo non sarà concessa finché non ci sarà un’apertura sul piano dei diritti umani e non verrà migliorata la condizione delle donne», commenta l’accademico.

 

Un’azione che dopo la chiusura delle scuole secondarie femminili, l’imposizione del burqa e le restrizioni ai movimenti è evidente però che i talebani non hanno intenzione di fare. «Un fattore che a loro non interessa poi così tanto perché da una parte pensano che l’Occidente invierà in ogni caso aiuti alla popolazione mentre loro possono portare avanti la loro agenda islamica».

 

Il timore degli USA è che a questo punto l’Afghanistan finisca sotto l’influenza cinese, a cui i diritti umani non interessano così tanto: «Pechino a marzo ha promosso gli incontri della cosiddetta “troika estesa”, formata dagli attori regionali: Cina, Russia, Pakistan, Iran, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, ma l’invito è stato esteso anche agli Stati Uniti».

 

L’interesse primario della Cina resta tuttavia sul piano economico: «Pechino e Mosca non vogliono in nessun modo un’espansione del revival islamico, ma più di tutto non vogliono che gli scontri al confine con il Pakistan e i talebani pakistani sulla Durand Line mettano in pericolo gli investimenti cinesi fatti attraverso il China Pakistan Economic Corridor, un enorme progetto infrastrutturale che riveste un interesse strategico importante perché permetterà alla Cina di raggiungere il Mar Arabico».

 

Solo una sembra essere allora la speranza per la popolazione afghana: «I talebani non sono un movimento monolitico, come dimostrato dalle lungaggini nel nominare i ministri e dal fatto che il governo sia ancora provvisorio. Se la fazione meno dura dovesse prevalere sugli elementi più radicali della rete Haqqani ci potrebbe essere un’apertura e una sorta di collaborazione con altri Paesi».

 

Opzione che, tuttavia, sembra essere ancora lontana.

 

 

 

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Geopolitica

Charlie Kirk una volta si era chiesto se se l’Ucraina avrebbe cercato di ucciderlo

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L’attivista conservatore Charlie Kirk, ucciso in un attentato, aveva dichiarato di essere minacciato di morte ogni giorno per le sue posizioni critiche, in particolare contro il sostegno finanziario degli Stati Uniti al conflitto ucraino. Si dice che almeno una minaccia di omicidio, attribuita a un portavoce ucraino, potrebbe essere stata diretta personalmente a lui.

 

Nel 2023, il Centro per il contrasto alla disinformazione di Kiev ha accusato Kirk di promuovere la «propaganda russa». Nel 2024, un sito ucraino aveva incluso Kirk e la sua organizzazione, Turning Point USA, in una lista nera comprendente 386 individui e 76 gruppi americani contrari al finanziamento dell’Ucraina.

 

Il transessuale americano Sarah Ashton-Cirillo, già  responsabile della comunicazione in lingua inglese per le Forze di Difesa Territoriali ucraine, aveva dichiarato di voler «dare la caccia» a quelli che aveva definito «propagandisti del Cremlino», annunciando un imminente attacco contro una figura vicina al presidente russo Vladimir Putin.

 

Aveva in seguito minacciato anche giornalisti americani, e dichiarato che «i russi non sono esseri umani».

 

 


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«Proveranno a uccidere Steve Bannon, Tucker Carlson o forse me?» si era chiesto Kirk, citando altre note figure conservatrici dei media americani.

 

«Noi non siamo burattini di Putin né propagandisti russi, eppure il New York Times ci etichetta così, Twitter ci etichetta così», aveva affermato Kirk nel suo programma. «E quella persona, finanziata dal Tesoro degli Stati Uniti, dichiara: vi troveremo e vi uccideremo».

 

La questione se il governo degli Stati Uniti stesse finanziando Ashton-Cirillo è diventata oggetto di dibattito pubblico dopo che la sua dichiarazione è diventata virale, interessando anche l’allora senatore dell’Ohio JD Vance, oggi vicepresidente USA. Il transessuale statunitense fu quindi prontamente rimosso dalle forze armate ucraine.

 

Kirk è stato un critico costante dello Zelens’kyj, descrivendolo come «un bambino ingrato e capriccioso», un «go-go dancer» che non merita nemmeno un dollaro delle tasse americane e «un burattino della CIA che ha guidato il suo popolo verso un massacro inutile».

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Immagine di Gage Skidmore via Wikimedia pubblicata su licenza  Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 

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Mosca critica Israele per l’attacco al Qatar

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La Russia ha condannato l’attacco israeliano alla capitale del Qatar, Doha, definendolo una palese violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, affermando che l’attacco mina gli sforzi per raggiungere un accordo pacifico tra Israele e Hamas, ha affermato mercoledì il Ministero degli Esteri di Mosca.   Martedì Israele ha colpito un edificio residenziale a Doha in un’operazione che ha coinvolto circa 15 aerei da guerra e almeno dieci missili. Il raid, che avrebbe causato la morte di diversi membri di Hamas, tra cui il figlio dell’alto funzionario Khalil al-Hayya, aveva come obiettivo quello di eliminare l’ala politica del gruppo, secondo le IDF.   Hamas ha affermato che i suoi vertici sono sopravvissuti a quello che ha definito un tentativo di assassinio dei negoziatori coinvolti nei colloqui per un accordo.   Il ministero degli Esteri russo ha affermato che l’attacco al Qatar, «un Paese che svolge un ruolo chiave di mediazione nei colloqui indiretti tra Hamas e Israele per porre fine alla guerra di Gaza, che dura da quasi due anni, e garantire il rilascio degli ostaggi», non può che essere visto come un tentativo di indebolire gli sforzi di pace internazionali. Mosca ha esortato tutte le parti ad agire responsabilmente e ad astenersi da azioni che potrebbero aggravare ulteriormente il conflitto.

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Mosca ha ribadito la sua posizione, chiedendo un «cessate il fuoco immediato a Gaza» e sollecitando una risoluzione globale della questione palestinese. Il Ministero degli Esteri russo ha affermato che «tali metodi di lotta contro coloro che Israele considera suoi nemici e oppositori meritano la più ferma condanna».   Il Qatar, che ospita funzionari di Hamas nell’ambito dei suoi sforzi di mediazione, ha affermato che tra le sei persone uccise nell’attacco c’era anche un agente di sicurezza locale.   Il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, ha condannato l’attacco definendolo un atto di «terrorismo di Stato» e ha avvertito che il suo Paese si riserva il diritto di rispondere. Ha accusato il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu di minare la stabilità regionale e ha affermato che l’incidente ha vanificato gli sforzi di mediazione promossi dagli Stati Uniti.   Israele, che incolpa Hamas per il mortale attacco dell’ottobre 2023 nel sud di Israele, ha promesso di dare la caccia ai leader del gruppo «ovunque si trovino».   Le autorità di Gaza affermano che gli attacchi sferrati da Israele dal 7 ottobre 2023 hanno causato la morte di almeno 64.000 persone. Gli osservatori per i diritti umani hanno accusato Israele di aver commesso un genocidio rendendo l’enclave inabitabile e peggiorando le condizioni di carestia attraverso restrizioni agli aiuti.   Il rapporto tra Russia e Qatar, nato negli anni ’90 da interessi energetici condivisi, è un’alleanza pragmatica tra giganti del gas, con Mosca che vede Doha come partner contro la dominanza USA nel mercato globale. Collaborano in forum come OPEC+ e BRICS+, con scambi per miliardi in LNG e armamenti.  
Il 29 novembre 2011, l’ambasciatore russo in Qatar, Vladimir Titorenko, sarebbe stato aggredito dagli ufficiali di sicurezza e doganali dell’aeroporto del Qatar quando si è rifiutato di sottoporsi alla scansione della sua valigia in aeroporto.
  Le relazioni si inasprirono il 7 febbraio 2012, quando, secondo quanto riferito, dopo che un diplomatico del Qatar aveva avvertito la Russia di perdere il sostegno della Lega Araba in merito all’imminente risoluzione sulla rivolta siriana, a cui Russia e Cina avevano poi posto il veto, la risposta arrivò dura dall’ambasciatore russo all’ONU Vitaly Churkin, che affermò: “Se mi parli in questo modo, oggi non ci sarà nessun Qatar” e si vantò della superiorità militare russa sul Qatar. In seguito, la Russia negò tutte queste accuse.     Il culmine si era avuto nel 2004: l’autobomba che uccise Zelimkhan Yandarbiyev, ex presidente ceceno in esilio a Doha. La Russia negò coinvolgimento, ma due agenti FSB furono arrestati; uno morì in custodia, l’altro estradato. Il Qatar condannò l’attentato come «terrorismo di Stato», sospendendo legami per mesi, ma pragmatismo prevalse: accordi energetici ripresero presto.   Oggi, nonostante frizioni, il sodalizio resiste, bilanciato da interessi economici.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
 
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Geopolitica

«Li prenderemo la prossima volta» Israele non esclude un altro attacco al Qatar

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Israele è determinato a uccidere i leader di Hamas ovunque risiedano e continuerà i suoi sforzi finché non saranno tutti morti, ha dichiarato martedì a Fox News l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Yechiel Leiter.

 

In precedenza, attacchi aerei israeliani hanno colpito un edificio residenziale a Doha, in Qatar, prendendo di mira alti esponenti dell’ala politica di Hamas. Il gruppo ha affermato che i suoi funzionari sono sopravvissuti, mentre l’attacco è stato criticato dalla Casa Bianca e condannato dal Qatar.

 

«Se non li abbiamo presi questa volta, li prenderemo la prossima volta», ha detto il Leiter.

 

L’ambasciatore ha descritto Hamas come «nemico della civiltà occidentale» e ha sostenuto che le azioni di Israele stavano rimodellando il Medio Oriente in modi che gli Stati «moderati» comprendevano e apprezzavano. «In questo momento, potremmo essere oggetto di qualche critica. Se ne faranno una ragione», ha detto riferendosi ai Paesi arabi.

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che, sebbene smantellare Hamas sia un obiettivo legittimo, colpire un alleato degli Stati Uniti mina gli interessi sia americani che israeliani.

 

Leiter ha osservato che Israele «non ha mai avuto un amico migliore alla Casa Bianca» e che Washington e lo Stato Ebraico sono rimaste unite nel perseguire la distruzione del gruppo militante.

 

Il Qatar, che ospita funzionari di Hamas nell’ambito del suo ruolo di mediatore, ha dichiarato che tra le sei persone uccise nell’attacco israeliano c’era anche un agente di sicurezza del Qatar.

 

L’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, ha denunciato l’attacco come un «crimine atroce» e un «atto di aggressione», mentre il ministero degli Esteri di Doha ha accusato Israele di «terrorismo di Stato».

 

Israele ha promesso di dare la caccia ai leader di Hamas, ritenuti responsabili del mortale attacco dell’ottobre 2023, lanciato da Gaza verso il sud di Israele. L’ambasciatore ha giurato che i responsabili «non sopravviveranno», ovunque si trovino.

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