Bioetica
La Silicon Valley alla conquista dell’immortalità – e dei suoi compromessi preoccupanti

Renovatio 21 pubblica la traduzione di questo articolo comparso su The Conversation.
Da qualche parte nella Silicon Valley, un uomo si sveglia presto all’alba. Si avventura in cucina, soddisfa il suo stomaco brontolante con una tazza di caffè sommersa da una grossa noce di burro biologico. Del resto, è nel bel mezzo di un digiuno.
Dopo una sessione di due ore di meditazione, è pronto per spendere migliaia di dollari per il suo ultimo capriccio – le iniezioni di cellule staminali. Il medico lo assicura che prelevando le cellule staminali dal midollo osseo e iniettandole in altri tessuti renderanno quest’ultimi più giovani e forti rispetto al loro stato affaticato. Si fida della sua parola, così come si fida del fatto che spruzzandosi nicotina in bocca si possa trarre gli stessi benefici di una sigaretta ma senza i suoi effetti negativi.
Quando si ritira per la notte, imbottito di compresse di melatonina e equipaggiato con occhiali anti luce blu per assicurarsi che il suo ciclo del sonno non sia disturbato, è soddisfatto per i risultati raggiunti durante la sua giornata. Ha compiuto un altro piccolo passo verso il suo obiettivo. Potrebbe essere un prodotto del ventunesimo secolo, ma è anche parte del crescente numero di persone che sta facendo di tutto in suo potere per essere vivo anche nel ventitreesimo secolo.
C’è un crescente numero di persone che sta facendo di tutto in suo potere per essere vivo anche nel ventitreesimo secolo.
Gli uomini stanno covando da tanto un’ossessione verso il vivere per sempre. Ma tutti quelli che hanno condiviso la ricerca dell’immortalità hanno qualcosa in comune: il fallimento. E ancora una volta, il sogno dell’eternità si è frantumato. Così tanto, che molti oggi non possono fare altro che chiedersi se la chiave per la loro immortalità sia già nascosta da qualche parte nei meandri sconfinati della conoscenza umana.
La scienza moderna ha aperto una varietà di nuovi metodi per migliorare la vita e ora i più benestanti e tecnologici membri stanno adottando questi nuovi approcci nel tentativo di allungare le loro stesse vite. Ma quello che spesso non si rivela è che la scienza moderna ha anche mostrato i lati oscuri dell’allungamento della vita: gli inevitabili compromessi psicologici che sembrano programmati a frenarci. La natura stessa sembra fatta apposta per impedirlo. Quindi come sarà: umano o qualcos’altro completamente?
Una fantasia utopica
Il testo simbolico narrativo La Nova Atlantide di Francesco Bacone era stato pubblicato nel 1627. Il romanzo incompiuto ritrae una società in cui gli esseri umani avevano usato la scienza per combattere il controllo della natura sul loro mondo. Per alcuni, questo mondo rappresenta il presagio di un’utopia scientifica verso cui siamo diretti oggi. Ma il nostro mondo, al contrario di quello di Bacone, è pieno d’interesse personale e avidità ed è in questo contesto che s’inserisce la ricerca della sfida dell’invecchiamento.
Quello che spesso non si rivela è che la scienza moderna ha anche mostrato i lati oscuri dell’allungamento della vita
I tentativi falliti per l’immortalità hanno una lunga storia. Nell’epopea di Gilgamesh, uno dei racconti più antichi dell’umanità che risale al ventiduesimo secolo a.C., il protagonista a cui è intitolata l’opera affronta una ricerca epica per ottenere la vita eterna. Dopo molti tentativi e difficoltà, alla fine sente parlare di un fiore sul fondo dell’oceano che gli ridarà la gioventù. E nonostante l’avvertimento datogli dalle uniche persone cui è mai stata concessa l’immortalità dagli dei – cioè che la conquista del fiore rovinerà le gioie della sua vita – Gilgamesh coglie comunque il fiore dalle profondità acquatiche.
Ma il suo successo non dura a lungo. Gilgamesh perde inevitabilmente il fiore e alla fine, come tutti i mortali prima e dopo di lui, muore. La sua è una storia di sfida contro le forme mortali, sul duro impegno per fare di tutto per superarle e la definitiva futilità dell’idea. Abbraccia un tema che ha ancora un’importanza rilevante nel campo della ricerca contro l’invecchiamento.
Circa 2000 anni dopo, il primo imperatore della Cina unita, Qin Shi Huang, era innamorato dell’idea di poter regnare per sempre. Chiese ai suoi sudditi di trovare per lui «l’elisir di lunga vita», ma siccome invecchiava senza alcuna risposta in vista iniziò a disperarsi. Ci sono prove per cui lui iniziò a ingerire pozioni contenenti solfuro di mercurio, composto altamente tossico. Quindi in un ironico scherzo del destino, la sua ricerca di vita eterna lo condusse in realtà prematuramente alla tomba.
Con il passare del tempo nel 19esimo secolo l’elisir di lunga vita diventò sempre più noto, con molti locali e farmacie che vendevano i loro miscugli con quel nome. Queste pozioni, composte di acqua, erbe e una considerevole quantità di alcol, un tempo pubblicizzate per allungare la vita, si sono gradualmente trasformate nei rimedi naturali a base di erbe dei giorni nostri. Ma ci sono voluti altri cento anni prima che la società iniziò a sostituire questi elisir con qualcosa basato su prove concrete.
Entro gli anni Trenta, gli scienziati facevano esperimenti su cavie per dimostrare che ridurre le calorie porta a un significativo aumento della durata della vita, una scoperta che è ancora oggi importantissima per i ricercatori d’immortalità attuali. Nonostante questo successo, la ricerca nei processi d’invecchiamento rimasero al massimo su piccola scala. Ma all’orizzonte vi era una rivoluzione.
Nel 1945 nacque la Gerontological Society (Società Gerontologica)che fondò una rivista e coltivò notevole interesse per le ricerche in questo campo. Il suo lavoro fu ritenuto valido, dal momento che agli inizi degli anni Ottanta la comprensione e il desiderio dell’umanità nei confronti della ricerca sull’invecchiamento erano aumentati notevolmente.
La riduzione di calorie non era più il solo elemento sulla lista delle strategie anti invecchiamento. Infatti, sono state rapidamente rilevate nuove scoperte sulla comunicazione cellulare tramite segnali e sull’’impatto che questo processo ha sul comportamento cellulare. In particolare, vi erano le ricerche basate sull’ormone dell’insulina, che si scoprì essere responsabile di molti aspetti dell’invecchiamento.
In seguito, nel 1990, Daniel Rudman rivoluzionò il settore con il suo studio sull’ormone della crescita umano. Aveva notato che la quantità di massa corporea magra (tutto nel corpo ad eccezione del grasso) si abbassava quando la quantità dell’ormone della crescita prodotto dalle cellule diminuiva. Interessante sarebbe stato vedere se fosse riuscito a invertire quest’andamento, la sua squadra iniettò a uomini più vecchi gli ormoni della crescita sintetici, rinvigorendo i loro corpi con una forma più giovanile ristorando la loro abilità di rompere le cellule grasse e costruendo nuove ossa e cellule muscolari.
Nel 1990, Daniel Rudman rivoluzionò il settore con il suo studio sull’ormone della crescita umano. La mania dell’ormone di crescita umano è poi sparita
A questo punto, gli imprenditori si stupirono e presero nota. Molti furono i passi in avanti per guadagni monetari, determinati a vendere l’ormone come una terapia anti invecchiamento. I giornalisti erano trascinati dall’onda del successo, scrivendo dell’ «iniezione di gioventù» e si domandavano se potessimo smettere di invecchiare completamente.
La metamorfosi dell’industria anti-aging era cominciata. E sebbene nessuno sapesse veramente quale mondo sarebbe potuto emergere quando la loro missione di longevità sarebbe stata raggiunta, erano determinati a renderlo qualcosa di meraviglioso.
La mania dell’ormone della crescita umano è poi sparita, ma un mucchio di terapie supplementari alternative avevano preso facilmente il loro posto. Nel 2003 vi fu anche il completamento del Progetto sul Genoma Umano, che si pensava potesse risolvere diverse malattie relative all’invecchiamento identificando la chiave dei geni che le avevano causate. Ancora una volta la risposta anti invecchiamento rimase elusiva.
Rapidamente, molti campi della ricerca erano stati analizzati per trovare risposte: salute, scienza dello sport, psicologia, medicina, informatica. L’interesse è solo aumentato e ricchi benefattori hanno mostrato un’altalenante perseveranza, con intere aziende che iniziavano a esistere nello sforzo di sbloccare l’eternità. Una tale sicurezza solleva una domanda inevitabile a tutti noi: ma ci si può riuscire davvero?
Il biohacking del corpo
Ci sono tanti, tantissimi bar in California. Ma ce ne sono alcuni, nel centro di Los Angeles e a Santa Monica, per esempio, che offrono un’esperienza unica. Al loro interno vi sono: un’illuminazione che cambia a seconda del momento della giornata, sedie elettromagnetiche progettate per aumentare il flusso sanguigno dei clienti e un caffè infuso con olio e servito con burro. Questi sono i Bulletproof coffee house di Dave Asprey, nel cuore del cosiddetto movimento biohacking.
Asprey è un tipo controverso, ben noto, che spesso dichiara pubblicamente che vivrà fino a 180 anni aumentando le sue abitudini quotidiane per alterare la sua fisiologia. Il blog Bulletproof di Asprey è pieno zeppo di articoli e podcast che dettagliatamente descrivono i benefici che si possono ipoteticamente raggiungere mettendo in pratica determinati «trucchi».
Tra questi vi sono gli integratori alimentari – che i cinici noteranno essere disponibili come prodotti Bulletproof – e le attività imputate stressanti per il corpo. Alcuni di questi principi opinabili si materializzano nei coffee shop Bulletproof, tra cui oltre all’indiscusso protagonista, il caffè Bulletproof, vi sono anche mobili magnetici, pannelli a pavimento e livelli elevati per la pratica dello yoga che forniscono un diverse tipologie di sostegno.
Lungi dall’essere una scienza esatta, il biohacking è un termine generico che comprende una manciata di materiali di sostegno, un pizzico di ragionamento scientifico e una spolverata di filosofia per essere sicuri. (Le persone che utilizzano la tecnologia per modificare i loro corpi sono chiamate anche con il termine «biohacker», ma sono più comunemente chiamati transumanisti, di cui parleremo dopo).
Alcuni tra i biohacker più eccentrici incoraggiano addirittura l’uso regolare di farmaci e droghe illegali, come il narcotico psicoattivo MDMA, per migliorare il proprio fascino, e il modafinil nootropico creato per il trattamento della narcolessia, per aumentare le funzioni cognitive. E, a differenza di molte aziende anti-age della Silicon Valley, che pagano una considerevole credibilità nei confronti delle variazioni genetiche giocando un ruolo cruciale nell’invecchiamento, il biohacking adotta un approccio epigenetico puro. Sostiene che tutti gli uomini possano raggiungere la longevità semplicemente cambiando le abitudini e il modo di vivere.
Il biohacking adotta un approccio epigenetico puro. Sostiene che tutti gli uomini possano raggiungere la longevità semplicemente cambiando le abitudini e il modo di vivere.
Quindi a quale tipo di stress fisico ci raccomandano di sottoporci i biohacker? Ce ne sono tanti, un esempio tra tutti è la comune doccia fredda. Teoricamente, immergere il proprio corpo in acqua ghiacciata è una manna per il sistema immunitario. La prova scientifica che lo sostiene ha valore per lo più indicativo e sottolinea la tendenza dei biohacker di estrapolare all’occorrenza scoperte scientifiche per rinforzare la loro visione del mondo. Ma occorre guardare appena oltre la superficie per scoprire l’altra faccia della medaglia.
Il freddo potrebbe sì esercitare le nostre vene a essere reattive, mettere in atto l’eliminazione del grasso bruno e alleviare le infiammazioni, ma potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Le basse temperature possono anche restringere i vasi sanguigni – aumentando la pressione – e incrementando così la possibilità di sviluppare infezioni. Questo agisce contro la presunta (e non confermata) manna di salute.
Detto ciò, le docce fredde e altre pratiche estreme – che per Dave Asprey lo aiuteranno a vivere fino a 180 anni – sono giochetti da giovani e potrebbero andare contro l’allungamento della vita. Una pratica del biohacking potrebbe produrre un guadagno netto di salute quando si è giovani, ma invecchiando ci sono buone probabilità che producano l’effetto contrario.
Inevitabili compromessi
Il settore del biohacking considera raramente i lati negativi dell’allungamento della vita, cioè che a ogni successo corrisponda un compromesso. La ricerca ha mostrato che si può allungare la vita, ma al prezzo di non riuscire più a combattere un’infezione. Per esempio, possiamo allungare la vita di un moscerino da frutta, Drosophila melanogaster, forzandolo a mangiare una dieta ricca di zuccheri e povera di proteine. Questo a costo però di meno prole per ciascun individuo e un’abilità ridotta di combattere infezioni, un processo che richiede proteine.
La ricerca ha mostrato che si può allungare la vita, ma al prezzo di non riuscire più a combattere un’infezione
Possiamo anche aumentare la loro longevità abbattendo i geni immunitari o esponendo i moscerini a un’infezione mortale. Ma, analogamente, entrambi questi trattamenti porterebbero a una significativa riduzione della capacità di combattere infezioni.
Zoomando sui componenti cellulari si può notare che i dettagli rilevano molti di questi compromessi. La storia di Cenerentola del settore anti-age è mTOR (bersaglio della rapamicina nei mammiferi), una molecola che assume una serie diversa di ruoli mandando segnali a tutto il corpo. Il controllo di mTOR, in effetti, ci permette di monitorare una buona parte del sistema cellulare, compreso il suo invecchiamento e la sua divisione. E c’è ora una serie di farmaci anti invecchiamento che modulano l’attività di mTOR.
I Biohacker, da parte loro, hanno scoperto un modo per manipolare in modo naturale mTOR in uno stato simile diminuendo l’assunzione di calorie, a volte attraverso il digiuno intermittente. La logica dietro tutto ciò è che mTOR segnala soltanto la cellula da costruire e crescere quando ci sono abbastanza sostanze nutritive intorno a essa ritenute valide. Quindi consumare meno cibo significa meno attività mTOR, ridurre la crescita cellulare e, a sua volta, il tasso di morte cellulare. Ma le prove evidenziano che inibendo le funzioni di questa importante molecola non solo si rallenta l’invecchiamento ma si sopprime anche il sistema immunitario.
Il nostro sistema immunitario è costoso poiché utilizza i nostri preziosi mitocondri (i batteri che forniscono energia alle nostre cellule) per produrre i componenti tossici necessari e causano infiammazione quando devono combattere i germi, che danneggiano i mitocondri. Quindi sopprimendo il sistema immunitario – come mostrato sia nel nostro lavoro che altrove – possiamo evitare questa sorta di danno e migliorare la longevità.
Certo, l’approccio comporta rischi considerevoli. Questi studi sperimentali sono stati effettuati tutti in ambienti controllati con una minima esposizione ai germi. In un ambiente reale, che compromette in modo naturale un sistema immunitario, sia attraverso integratori di farmaci che di restrizioni caloriche, possono costarci molto caro, specialmente in un mondo in cui i batteri diventano in modo sempre più costante resistenti agli antibiotici.
Il compromesso tra immunità e longevità è un semplice esempio di come la natura equilibra sempre tutto. La prevenzione al danno dei mitocondri e la sospensione della morte cellulare potrebbero sembrare pratiche eccellenti per allungare la vita, a prima vista, ma la rinuncia a una risposta immunitaria completamente funzionale, è un prezzo molto alto e potenzialmente fatale da pagare.
Non vale nemmeno la pena che la selezione naturale abbia conservato il meccanismo equivalente all’mTOR attraverso l’evoluzione di tutti gli animali, funghi e piante, che sottolinea semplicemente quanto utile sia. Forse non dovremmo essere così pronti a interferire con un elemento tanto essenziale per la salute delle nostre cellule.
Immortalità o umanità?
Ci sarà sempre una miriade di modi in cui le nostre forme mortali possono andare male. E abbiamo visto che i vincoli fisiologici sembrano fatti per frenarci dall’estendere drasticamente la nostra vita e porre rimedio alla causa originaria dell’invecchiamento – se mai ce ne dovesse essere una.
Ma sul confine tra fantascienza e scienza pioneristica vi sono idee tecnologiche emozionanti che potrebbero forse sbloccare un tipo diverso di immortalità. La tecnologia può già aiutarci a identificare precocemente i difetti correlati all’età, ma ha il potenziale per diventare ancora meglio: e se fossimo in grado di aggirare i compromessi biologici completamente?
Neuralink, l’azienda del miliardario Elon Musk è già in marcia per portarci su questo cammino transumano. Prevede un futuro in cui gli umani sono molto più connessi intimamente tra di loro attraverso strumenti tecnologici rispetto a quanto lo siamo oggi. Ci invita a lavorare verso un’interfaccia cervello-macchina che possa fondamentalmente unirci alla tecnologia, raggiungendo con essa una relazione veramente simbiotica.
La ricerca è ancora alle prime fasi, ma le interfacce cervello-macchina sono già in uso sotto forma di impianti auricolari od oculari che possono riabilitare i nostri sensi e impianti cerebrali che permettono alle persone disabili di controllare in modo remoto computer e robot. Neuralink mira a compiere passi in avanti senza interruzioni connettendoci a dispositivi elettronici, a internet e anche ad altri uomini. Essenzialmente, avremo tutti informazioni enciclopediche a portata di mano e saremo in grado di comunicare con altri telepaticamente.
Un’interfaccia cervello-macchina potrebbe essere iniettata endovena e viaggiare fino al nostro cervello. Poi potrebbe essere autoassemblata in una struttura ramificata al di fuori della corteccia cerebrale, unendo così la tecnologia al centro della nostra intelligenza e la sensibilità
Per rendere questo grandioso miglioramento possibile, un’interfaccia cervello-macchina potrebbe essere iniettata endovena e viaggiare fino al nostro cervello. Poi potrebbe essere autoassemblata in una struttura ramificata al di fuori della corteccia cerebrale, unendo così la tecnologia al centro della nostra intelligenza e la sensibilità.
Nonostante l’invasività degli impianti Neuralink, c’è già una serie di sani individui che sono ansiosi di raggiungere un tale miglioramento artificiale. Alcuni sono arrivati al punto di sottoporsi a operazioni chirurgiche semplicemente per installare un dispositivo di scarso valore nel mondo reale. Ma questo potrebbe essere solo l’inizio.
Neuralink e la tecnologia a cui aspira, potrebbero diventare la porta d’accesso verso un futuro post-umano. Attraverso le ricerche in quest’area, saremmo forse in grado di decifrare i significati per tradurre accuratamente i nostri percorsi biologici e chimici neuronali, in dati elettronici che potrebbero incapsularli. E quindi potremmo, alla fine, catturare i nostri animi con un computer, vivendo per sempre come memoria digitale controllata da un frammento di software.
Questa potrebbe essere una soluzione estrema alla domanda del come si può vivere per sempre, ma ci sono individui, come l’imprenditore Dmitry Itskov, smaniosi all’idea di unirsi a un computer. L’iniziativa 2045 di Itskov vede le interfacce cervello-macchina solo come la prima di quattro fasi, di un cammino che culmina in un cervello artificiale in grado di ospitare la personalità umana e controllare un avatar tipo ologramma.
L’iniziativa 2045 di Itskov vede le interfacce cervello-macchina solo come la prima di quattro fasi, di un cammino che culmina in un cervello artificiale in grado di ospitare la personalità umana e controllare un avatar tipo ologramma.
Itskov e altri futuristi stanno promettendo l’immortalità, ma per raggiungerla dovremo scendere al compromesso più grande di tutti, dare via uno dei nostri doni più preziosi e che più ci caratterizzano: la forma umana. Il cervello è sempre stato il contenitore della nostra anima. Una copia artificiale potrebbe portarci a catturare la nostra intera rete di 100 trilioni di connessioni, ma saremmo veramente noi?
È una lunga questione, ma la nostra trascendenza (o forse divergenza) lontana dalla materia organica significherebbe che potremmo smettere di essere umani così come lo intendiamo. Le preoccupazioni degli uomini per cui si sono sempre battuti da millenni-risorse, benessere, compagni – potrebbero smettere di essere importanti. Piaceri fisici che sono stati fondamentali per la nostra esperienza – intimità, emozioni, musica, cibo – potrebbero essere sostituiti da segnali virtuali e stimolanti sintetici.
O almeno per alcuni. Il resto di noi che non può permettersi di diventare avatar immortale sarà lasciato a vedersela con queste ora insignificanti preoccupazioni, mentre i benestanti post-umani si dirigeranno oltre, verso l’eternità.
La nostra trascendenza (o forse divergenza) lontana dalla materia organica significherebbe che potremmo smettere di essere umani così come lo intendiamo
Musk ha mostrato che l’imprenditorialità può contribuire alla scienza attraverso le sue incursioni nel settore dello spazio e il suo progetto di razzo rivoluzionario. Ma la conquista della longevità è stata sentita così tanto dalla Silicon Valley e dagli altri nel mondo degli affari che alcuni ricercatori scientifici si sono attivamente allontanati dal suo raggiungimento. Nel campo di una ricerca biologica che dipende così tanto da una rete di aspetti globali, gli obiettivi più nobili hanno bisogno di prendere una posizione di rilievo.
Una difficoltà fondamentale di tutti questi impegni è che sono un esempio di scienza, presumibilmente guidati non molto da un desiderio di una più ampia conoscenza dell’universo o del miglioramento dell’umanità, ma dal guadagno personale e un ritorno individuale.
Se troveremo mai un modo per superare i compromessi fisiologici che ci frenano dall’immortalità o se saremo mai in grado di replicare la consapevolezza umana in un computer sono domande ancora troppo difficili cui rispondere. Ma quelli che portano avanti il processo contro la morte almeno ci ispirano a vivere vite sane o sono semplicemente in gara contro un destino inevitabile?
Se lo chiedessimo ai ricchi proprietari della Silicon Valley, la risposta sarebbe la precedente. Ci reindirizzerebbero alle statistiche della durata della vita: hanno dimostrato che sopravviviamo ben un decennio in più rispetto alla media di circa 50 anni fa. Enfatizzerebbero anche la prova crescente che sfida l’idea di un “limite superiore” su quanto a lungo può sopravvivere un individuo.
La ricerca in corso, argomenterebbero, sta già portando frutti e ci sarà soltanto un progresso esponenziale da qui in avanti. Ma, purtroppo, forse, la nostra ricerca ha oscurato gli svantaggi considerevoli che potrebbero accadere alla nostra salute come conseguenza alle intromettenti terapie anti-age. Sembra, dunque, che l’uomo continui ad andare oltre i suoi limiti.
Bioetica
Medici britannici lasciano morire il bambino prematuro perché pensano che la madre abbia mentito sulla sua età

Un bambino prematuro nato a 22 settimane è morto dopo che i medici in Gran Bretagna si sono rifiutati di somministrargli un trattamento salvavita. Lo riporta LifeSite.
Mojeri Adeleye è nato prematuro alla 22ª settimana, dopo che la madre aveva subito la rottura prematura delle membrane. Durante l’emergenza, la mamma e il bambino sono stati trasferiti in un altro ospedale, dove la data di gestazione è stata scritta in modo errato, etichettando Mojeri come se avesse meno di 22 settimane di gestazione.
Le linee guida raccomandano l’assistenza medica solo per i neonati prematuri nati dopo la 22a settimana di gestazione. Sebbene la madre di Mojeri avesse informato il personale medico dell’errore, questi non le hanno creduto e hanno lasciato che il bambino morisse.
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Secondo il rapporto del medico legale, la madre di Mojeri era stata visitata per gran parte della gravidanza presso l’ospedale locale ma a seguito di complicazioni, la donna è stata trasferita in un altro ospedale.
Tuttavia, è stato commesso un errore nelle note di riferimento e la madre di Mojeri è stata registrata come a meno di 22 settimane di gestazione. Le linee guida nazionali raccomandano che il trattamento salvavita venga fornito solo ai prematuri nati a 22 settimane di gestazione o dopo, e sebbene la madre di Mojeri abbia ripetutamente cercato di comunicare al personale la corretta età gestazionale, non le hanno creduto.
Quando la madre è entrata in travaglio, il personale si è rifiutato di fornire a Mojeri qualsiasi assistenza salvavita. Era, infatti, da poco più di 22 settimane di gestazione, come aveva insistito la madre. Poiché i medici non hanno fatto nulla, Mojeri è morto.
Il medico legale ha scritto nel rapporto: «Nel corso dell’inchiesta, le prove hanno rivelato elementi che destano preoccupazione. A mio parere, sussiste il rischio che si verifichino decessi in futuro, se non si interviene».
«Date le circostanze, è mio dovere legale riferirvi. Le questioni di interesse sono le seguenti: La mancanza di considerazione nei confronti della conoscenza da parte della madre di Mojeri della propria gravidanza e della data prevista del parto per Mojeri; La mancanza di discussione con i genitori di Mojeri sulle possibili misure da adottare in caso di parto prematuro prima della 22ª settimana».
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Le linee guida della British Association of Perinatal Medicine (BAPM) del 2019 raccomandavano che, se i bambini nascevano vivi a 22 settimane, venissero fornite cure «focalizzate sulla sopravvivenza»; in precedenza, le linee guida affermavano che i bambini nati prima delle 23 settimane non dovevano essere rianimati.
Dopo l’attuazione di queste linee guida, il numero di bambini prematuri sopravvissuti alla 22ª settimana è triplicato. Prima di allora, i bambini prematuri considerati «troppo piccoli» venivano semplicemente lasciati morire.
Si stima che il 60-70% dei neonati possa sopravvivere alla nascita prematura a 24 settimane di gestazione. Tuttavia, fino al 71% dei neonati prematuri, anche quelli nati prima delle 24 settimane, può sopravvivere se riceve cure attive anziché solo cure palliative. E sempre più spesso, i bambini sopravvivono anche a 21 settimane, scrive Lifesite, che ricorda: «non tutti i bambini sopravvivranno alla prematurità estrema, ma meritano almeno di avere una possibilità».
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
Bioetica
L’amministrazione Trump condanna la «persecuzione della preghiera silenziosa» fuori dagli abortifici britannici

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Bioetica
L’aborto ha spazzato via il 28% della generazione Z. E molto, molto di più

Statistiche ampiamente condivise in rete questa settimana riportano che circa il 28% della Generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012) negli USA è stata abortita nel grembo materno. Lo scrive LifeSite.
Secondo le stime del Guttmacher Institute (il braccio di ricerca e sviluppo del grande abortificio multinazionale Planned Parenthood) sul numero di aborti eseguiti ogni anno negli Stati Uniti dal 1997 al 2011, gli anni di nascita della Generazione Z, circa 19,5 milioni di esseri umani concepiti in quella generazione, sono stati soppressi attraverso l’aborto. Attualmente si stima che negli Stati Uniti ci siano 69,3 milioni di membri della Generazione Z.
I dati più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indicano che il tasso di aborti tra i bambini della Generazione Z negli Stati Uniti corrisponde quasi alla percentuale stimata di bambini non ancora nati uccisi dall’aborto in tutto il mondo: il 29%, ovvero tre gravidanze su 10.
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Le statistiche di Inghilterra e Galles mostrano tassi di aborto molto simili. «la percentuale di concepimenti che hanno portato all’aborto è stata del 29,7%; si tratta di un aumento rispetto al 26,5% del 2021 e della percentuale più alta mai registrata», ha rilevato un rapporto dell’Office of National Statistics (ONS) basato sui dati del 2022.
Ricordiamo anche che queste statistiche risultano calcolabili pure per realtà apparentemente distanti come il Giappone, con dati nel periodo post-bellico che indicavano l’aborto di circa un terzo dei concepiti, con casi allucinanti di infanticidi – che oggi la Finestra di Overton vuole che chiamiamo «aborti post-natali» – come quello di Miyuki Ishikawa, detta «Oni-sanba», ostetrica che avrebbe ucciso almeno 86 bambini (qualcuno parla di una cifra doppia) affidatile negli anni dell’immediato dopoguerra.
Non si tratta di numeri sconosciuti anche all’Italia, dove per anni le nascite sono state attorno alla cifra di 500 mila, con le interruzioni di gravidanza sopra i 100.000, con un calo sensibile nell’ultimo decennio, in linea tuttavia con il calo delle nascite, specie dopo la pandemia.
Anche in Italia, dunque, abbiamo avuto una percentuale di generazioni spazzate via sopra il 20%, in pratica una piccola guerra condotta contro il Paese stesso, ma legalizzata e pagata dal contribuente – o una serie di bombe atomiche, i cui effetti si misurano in megadeath («megamorte», un milione di individui sterminati).
Come scritto anni fa da Renovatio 21, negli anni l’Italia dell’aborto ha subito una devastazione umana molto superiore a quella di Hiroshima e Nagasaki, con almeno 6-7 megadeath di danno alla popolazione. E parliamo solo delle cifre ufficiali, che non includono gli embrioni distrutti dalle provette, che sono già in numero maggiore di quelli trucidati dall’interruzione volontaria di gravidanza.
Se non volete pensarlo in percentuale, pensatelo così: 6 milioni di persone uccise, sono perfettamente pensabili come un attacco atomico che cancella tutto il Triveneto, o la Sicilia e la Calabria assieme, o l’Emilia-Romagna con l’Umbria e le Marche, o tutto il Lazio e zone limitrofe, o due terzi della Lombardia.
Come avevamo scritto oramai più di 10 anni fa: «Per quanto possa sembrare allucinante, dobbiamo guardare in faccia la realtà: l’Italia è una rovina post-atomica. E neppure lo sa».
Le cifre divenute virali questa settimana non includono mai – perché è un calcolo che i pro-life, specie italiani, non hanno l’intelligenza di fare – quello che qualcuno chiama il ghost number. Proviamo a pensare le cifre americane: e 6.392.900 femmine abortite tra il 1973 e il 1982 avrebbero oggi 25-40 anni, e quindi con alta probabilità almeno un figlio di media (chi due, chi cinque, chi zero). Otteniamo così la cifra di 54.853.850 persone spazzate via dall’anagrafe, sottratte alla società.
Un danno di quasi 55 megadeath: come se il temuto showdown nucleare con la Russia, fosse avvenuto – e senza che i sovietici sparassero un solo colpo. Basandosi sulle attuali statistiche demografiche americane, è possibile calcolare che tra questi 55 milioni vi potrebbero essere stati 7 giudici della Corte Suprema, 31 premi Nobel, 6000 atleti professionisti, 11.010 suore, 1.102.403 insegnanti, 553.821 camionisti, 224.518 camerieri, 336.939 spazzini, 134.028 contadini, 109.984 poliziotti, 39.447 pompieri, 17.221 barbieri.
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Soprattutto, e questo deve essere meditato profondamente dalle femministe, in questo immane turbine di morte sono state disintegrate 27.426.925 donne. Le quali sono, senza dubbio alcuno, il bene più prezioso che esista sulla Terra: ogni cellula uovo che la donna ovulerà in tutta la sua vita, è già formata dal feto a poche settimane dal concepimento. La prima cellula del nostro corpo – l’ovocita – già esisteva dentro nostra madre quando era un feto, venti, trenta, quaranta anni prima che venissimo alla luce. Un’autentica, insondabile meraviglia: la vita contenuta dentro la vita.
L’aborto interrompe questa catena superiore. Come diceva un detto ebraico: chi uccide un uomo uccide l’umanità; ammazzi qualcuno e rovini per sempre le generazioni che seguiranno. Peggio di un fallout radioattivo, l’aborto reca un danno aberrante, che si accumula distruggendo il futuro – i figli, i figli dei nostri figli – su una scala che non possiamo immaginare.
Chi non crede a queste romanticherie scientifiche e umanistiche, pensi ai soldi: i 55 megadeath causati dall’aborto in USA rappresentano 55 milioni di lavoratori e consumatori americani che non pagano le tasse e non partecipano al mercato nazionale. Dal PIL, è possibile calcolare che l’aborto abbia causato all’economia americana un danno di 37 trilioni e 600 miliardi di dollari.
L’abisso di cui stiamo parlando non vi è stata ancora nessuna rappresentazione adeguata alla sua immensità apocalittica. Né la polemologia (la disciplina che nel Novecento si è dedicata allo studio della guerra), né la psicologia, né la sociologia, né la filosofia paiono comprendere questo Inferno per intero.
No, non è solo un terzo della Generazione Z ad essere stato cancellato dall’aborto. È molto, molto di più.
Roberto Dal Bosco
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