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Epidemie

Virus lombardo, guerra russa. Perché il segreto militare sulla Val Seriana?

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Il lettore saprà che la settimana scorsa il Consiglio di Stato ha chiuso definitivamente la questione della zona rossa in Val Seriana.

 

Un anno e mezzo fa l’agenzia AGI aveva chiesto i documenti che avrebbero dovuto spiegare perché «400 militari furono mandati nella Bassa Bergamasca e poi ritirati dal territorio più aggredito dal COVID», quello che fu chiamata anche la Wuhan 2.

 

Dopo quello che in gergo tribunalizio si chiama «alterno esito di giudizi» – il susseguirsi di pronunce di segno opposto della giustizia amministrativa – il giudici del Consiglio di Stato (lo stesso organo che aveva annullato la pronuncia del TAR sulle cure domestiche) hanno messo il sigillo sulla questione.

 

Per i magistrati vi sarebbero le «rilevanti e apprezzabili esigenze di riservatezza» dichiarate dal ministero degli Interni della Lamorgese.

 

«Fu dunque una decisione maturata solo in ambito militare quella di scegliere come impiegare i propri uomini e donne come lo stesso Ministero ha scritto: “Non c’è stato alcun atto governativo specifico di impiego delle forze militari nelle zone di Nembro e Alzano”» scrive Manuela d’Alessandro di AGI, che aveva chiesto accesso alle carte.

 

«Il Consiglio di Stato, accogliendo la tesi del governo, spiega che per contrastare il Covid “sono stati impiegati gli stessi contingenti di Forze Armate addetti all’operazione ‘Strade Sicure’” il cui utilizzo “è stato disposto in attuazione delle direttive generali di pianificazione annuale, in relazione alle quali sussiste un’esigenza di riservatezza volta a secretare le linee della programmazione strategica di impiego delle risorse umane e strumentali”» continua AGI.

 

In pratica, il segreto militare. Sul virus lombardo. Quello delle casse con i morti portate via da file di camion dell’esercito.

 

Ora, nessuno si sta sbilanciando. Tutti in questi giorni stanno semplicemente riportando la notizia, magari ringhiando un po’, ma in modo disarticolato. Questo perché nessuno ha idea di cosa dire – nessuno sa cosa vi sia dietro questo segreto.

 

Noi pure non abbiamo idea. Il segreto ci è segreto. Come a tutti, l’unica cosa che ci è chiara è che ciò che è stato sigillato deve avere una vasta importanza, altrimenti non avrebbero scomodato l’ultima linea giudiziaria possibile, il Consiglio di Sstato, per secretare tutto.

 

Tuttavia, a differenza di altri, Renovatio 21 vorrebbe fare quello che cerca di fare spesso: buttare lì un po’ di puntini, nell’attesa che arrivi il momento che si uniscano.

 

Dunque, abbiamo un segreto militare.

 

Ebbene, l’esercito italiano non è il solo coinvolto: in quei mesi, in Lombardia e non solo (ma a partire da lì), operava, in una missione concordata tra i due Paesi, l’esercito russo.

 

Cioè, l’esercito ora coinvolto nella guerra al centro del mondo. L’esercito del Paese verso cui dobbiamo provare odio per obbligo di Stato, quasi fosse un vaccino mRNA. L’esercito della Nazione contro la quale la più grande forza militare della storia – la NATO – sta preparandosi.

 

Per bizzarra coincidenza, quell’esercito era proprio lì, in quello che sembrò essere il primo focolaio COVID d’Europa, appunto una seconda Wuhano.

 

Non si trattava di qualcosa di inaudito. Operazioni di cooperazione simile ve ne sono state tante: ad esempio per il terremoto dell’Aquila.

 

C’è da rammentare poi che l’iniziativa russa divenne un format transnazionale: Paese non-europeo manda aiuti all’Italia in difficoltà. Il campo in effetti era vuoto: la Francia faceva sketch con il pizzaiolo italiano che sputa nella pizza, la Germania bloccava in aeroporto i (preziosissimi, eh!) respiratori ordinati da Roma all’Estero. Quindi ecco che, per la gioia di qualche vetero-sinistroide grillino, arrivano i dottori di Cuba, con applausi in aeroporto. Poi ecco che il premier d’Albania Edi Rama, uomo di George Soros, annuncia in perfetto italiano che sta per mandare una squadra di medici in aiuto all’Italia, per riconoscenza per quanto l’Italia ha fatto per Tirana in passato. Il finale della missione albanese non fu bellissimo: nel lockdown feroce di Brescia, in hotel tra birra e musica ad alto volume, interviene la polizia e commina multe da 500 euro, più due denunce per resistenza e oltraggio. Ma sono episodi di folclore.

 

Quindi: i russi, d’accordo con gli italiani, si prendono la briga di «sanificare» la Val Seriana. Ospedali, case di riposo, etc.

 

A differenza di quanto si vede commentato ora, la cosa sembrava decisamente ben considerata da tutti. Governo, sindaci, gente comune. Abbiamo testimonianze da parte di quest’ultima che ci confermano.

 

Non c’era motivo di dubitare di nulla, in quell’ingenua primavera 2020, quando tentavano di mandarci giù per la gola una relazione profonda quanto oscena con il Paese untore, la Cina, quando ancora pensavamo che la luce fuori dal tunnel era a portata, certo non sarebbero passati gli anni, certo non avremmo dovuto riconfigurare il Paese secondo l’apartheid biotica di obblighi e green pass…

 

Quindi, la cosa più sana da fare ora, decisamente, è cercare di capire a chi la missione della Russia non andasse bene. Perché qualcuno c’era. Eccome.

 

Un giornale, La Stampa di Torino – storica testata della dinastia oligarchica degli Agnelli, ora Elkann – era riuscito a far inviperire prima l’ambasciatore russo Razov (quello di cui avete sentito parlare in questi giorni, quello che due settimane fa ha denunciato il quotidiano), poi il maggior generale Igor Konashenkov, quello che sentite ogni giorno parlare adesso di Ucraina in quanto portavoce dell’esercito di Mosca, infine la Maria Zakharova, indomita portavoce degli Esteri.

 

Razov scrisse una lettera al giornale piemontese, allora diretto da Maurizio Molinari, lamentando come un articolo di un giornalista, lo Jacopo Jacoboni, citando «fonti politiche di alto livello» affermasse che «l’80% degli aiuti russi sarebbe totalmente inutile o poco utile».

 

In più, scrive l’ambasciatore, «J. Jacoboni intravede un insidioso secondo fine della Russia nel fatto che siano stati inviati in Italia militari delle forze armate russe, tra i quali anche esperti di difesa nucleare, chimica e biologica».

 

«Per quanto riguarda il messaggio che spunta dal ragionamento dell’autore e cioè che l’invio di militari russi (a proposito, a titolo gratuito) avrebbe come scopo quello di causare un qualche danno ai rapporti tra l’Italia e i partner della NATO, offriamo ai lettori l’opportunità di giudicare da soli chi e come viene in aiuto al popolo italiano nei momenti difficili. In Russia c’è un detto: “Gli amici si vedono nel bisogno”».

 

Insomma, La Stampa aveva insinuato che i russi non stessero solo sanitarizzando un pezzo di Lombardia.

 

Veniamo a Konashenkov, che ora sta curando la comunicazione dell’Operazione Z in Ucraina. Il 2 aprile 2020 il maggiore generale fa uscire sui social una nota durissima.

 

«Abbiamo prestato attenzione agli incessanti tentativi che già da due settimane il quotidiano La Stampa sta mettendo in campo per screditare la missione dei russi che si sono mobilizzati per prestare aiuto agli italiani in difficoltà».

 

«Nascondendosi dietro agli ideali della libertà di parola e del pluralismo di opinioni, La Stampa sta alimentando fake news russofobiche da guerra fredda rimandando a “opinioni” espresse da anonimi “alti funzionari”».

 

« (…) La maggior parte dei medici e degli epidemiologi russi sono stati definiti dal quotidiano come esperti di guerra biologica. Coloro i quali non hanno avuto l’onore di rientrare in questa categoria sono finiti tra i membri dell’intelligence militare russa».

 

«Tuttavia, sullo sfondo di tali speculazioni, nonostante i sospetti sensazionalistici de La Stampa, invece di condurre una guerra biologica gli epidemiologi giunti in Italia per combattere il coronavirus assieme ai propri colleghi italiani stanno debellando il Covid-19 in 65 case di riposo di Bergamo. I medici militari russi quotidianamente fianco a fianco dei militari italiani stanno edificando i reparti di terapia intensiva per salvare i cittadini italiani contagiati dal virus nel nuovo ospedale di emergenza di Bergamo».

 

Infine, Konashenkov sfoderava una citazione in latino (lingua propria dell’Italia, e del russo quando vuole sembrare ultrasofisticato) e una, per motivi precisi, in inglese.

 

«Per quanto riguarda i rapporti con i reali committenti della russofobia de La Stampa, i quali sono a noi noti, raccomandiamo loro di fare propria un’antica massima: Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita). Per essere più chiari: Bad penny always comes back».

 

Le anime belle dei giornali italiani cominciarono a strillare pazzamente: quella della fossa era una chiara minaccia, e pazienza se il generale stava dicendo altro.

 

A chiarire la questione dei «reali committenti», quindi, ci pensò la Zakharova, che dietro ha tutta la potenza della macchina diplomatica moscovita.

 

La portavoce degli Esteri della Federazione russa disse che dietro all’articolo de La Stampa c’era… un’azienda britannica.

 

«Siamo riusciti a rintracciare l’intermediario, una società registrata a Londra, i cui rappresentanti si sono rifiutati di fornire qualsiasi informazione su questo accordo menzionato nell’articolo o di rispondere a qualsiasi domanda relativa all’ubicazione, al prezzo e alla natura del carico, nonché come mittente e destinatario», affermò un po’ oscuramente Zakharova.

 

Come? Una società inglese dietro all’articolo? In che senso? Ammettiamo di non capire nulla, forse sono segnali da servizi segreti che ci sfuggono totalmente, tuttavia comprendiamo perché Konashenkov parlasse di penny…

 

La cosa, per quanto possa sembrarvi enorme – due potenze atomiche che si accusano usando l’Italia pandemica come campo di scontro – cade nel vuoto. Solo il Telegraph pubblica qualcosa, un articolo dal titolo non troppo sibillino: «Russian Mercy Mission in Italy is a front for Intelligence Gathering, expert warns» («La missione di carità russa in Italia è una copertura per la raccolta di Intelligence, dicono gli esperti»).

 

Nel pezzo, viene scritto che «molto probabilmente il contingente contiene ufficiali dell’intelligence militare del GRU, l’equivalente russo dell’MI6».

 

GRU, MI6: sì, siamo finiti in una guerra di spie.

 

Sono le stesse sigle che vengono citate ora in Ucraina, con i filorussi a parlare della strage di Bucha come di una operazione di propaganda dell’MI6.

 

Come riportato da Renovatio 21, Londra sta montando, sin da prima dell’innesco del conflitto materiale, una campagna antirussa senza requie, come notato pure pubblicamente da politici e diplomatici esteri come il presidente croato Zoran Milanovic e l’ex ministro degli Esteri austriaco Karin Kneissl.

 

Andiamo oltre.

 

2021. Molinari, il direttore de La Stampa che fece adirare Mosca, passa a La Repubblica.  A Novembre pubblica un editoriale (titolo sibillino anche questo: «La morsa di Putin sull’Unione europea») in cui parla della «minaccia ibrida» di Putin, che tra immigrati Bielorussi e gasdotti, avrebbe lo scopo di «generare crisi parallele per stringere in una morsa l’Unione europea».

 

Il Cremlino si incazza un’altra volta. La Zakharova – che, ripetiamo, rappresenta la solida diplomazia russa – si rivolge direttamente al direttore: «Dottor Molinari, non ama il gas russo? Molto bene. Ho una grande idea: Maurizio per protesta riscaldi la sua casa con copie de La Repubblica». Visti come siamo messi adesso, potrebbe essere un’idea da non scartare del tutto.

 

Non è finita, arriva il 2022. Arriva la guerra, l’Operatsija Z.

 

Sempre La Stampa pubblica un articolo che fa ammattire i russi. Titolo: «Se uccidere Putin è l’unica via d’uscita». Sempre più sibillini. L’ambasciatore Razov, sempre lui, va a denunciare. L’autore dell’articolo dice che il russo ha capito male, e che anzi l’idea «che qualche russo ammazzi Putin» sia «priva di senso e immorale, e questo c’era scritto bene in evidenza».

 

Ne abbiamo scritto su Renovatio 21, per altre ragioni: perché il premier Mario Draghi ha difeso il giornale torinese con il coltello della democrazia costituzionale fra i denti: «Forse non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia così inquietato: lui è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è libertà di stampa, da noi c’è, è garantita dalla Costituzione».

 

Draghi dice che lui sta con quello che discettano sui giornale della possibilità dell’assassinio di Putin. Poi, il giorno dopo gli telefona per chiedergli il gas. Gli telefona, in teoria, per conto nostro…

 

Valeva la pena per Draghi di leggersi quanto aveva detto l’ambasciatore Razov andando in tribunale: «Questo articolo d’autore considerava la possibilità dell’uccisione del presidente della Russia. Non c’è bisogno di dire che questo è fuori dell’etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo. Nel codice penale dell’Italia si prevede possibilità di istigazione a delinquere e apologia di reato».

 

Insomma, ai russi non è piaciuto nemmeno questo articolo de La Stampa.

 

Insomma, tutto questo rancore è in apparenza inspiegabile. Perché La Stampa, e poi Molinari, che ne era direttore, attaccano così direttamente la Russia, riuscendo perfino a far saltare i nervi ai diplomatici?

 

Perché nel momento più impensato, quello del mondo paralizzato dal virus (ricordate: marzo-aprile 2020), si scagliano contro l’esercito russo in uno scenario (servizi inglesi, guerra batteriologica, GRU) da vera guerra di spie?

 

Non abbiamo risposta nemmeno a questo, possiamo solo, anche qui, buttare qualche puntino.

 

La Stampa è il giornale della famiglia oligarchica Agnelli, dove ora il cognome predominante – a causa del John detto Jaki, scelto dal nonno Gianni ma ancora privo del physique du role del patriarca – è Elkann. Gli Elkann sono una famiglia importante dell’ebraismo francese. Il nonno Jean-Paul Elkann è banchiere e rabbino di alto rango (già presidente del Concistoro ebraico di Parigi) operante a Nuova York, città in cui nascerà anche il padre Alain, John stesso e suo fratello Lapo.

 

La FIAT ha avuto rapporti cordiali con l’URSS: ricordiamo la produzione nella città di Tol’jatti della mitica Zhiguli, l’automobile nata dalla cooperazione industriale italo-sovietica. Già 40-50 anni fa lo storico Anthony Sutton vedeva questa la produzione oltrecortina consentita agli Agnelli come la riprova che l’élite globalista (in particolare, la famiglia Rockefeller, che degli Agnelli sono amicissimi ed alleati) andava ben oltre gli steccati politici tra il cosiddetto «Mondo libero» e i Paesi a socialismo reale.

 

C’è tuttavia un altro elemento «russo» che si inserisce nella storia della dinastia agnellica. La mamma di John Elkann, Margherita Agnelli, una volta divorziata dal padre di Jaki si risposa, come da imperativo di famiglia, con un nobile vero, Serge de Pahlen, nato in Normandia ma di famiglia di antichissima nobiltà russa. I due hanno cinque figli. Arrivato al vertice della FIAT, Jaki licenzia il patrigno, che da 22 anni lavorava in azienda. Sono gli anni della denuncia in tribunale di Margherita per avere la sua parte del famoso tesoro all’estero di Gianni Agnelli, di cui sono ancora sconosciute dimensioni e origini – ma della cui esistenza oramai pochi dubitano.

 

Ma non si tratta solo di una questione famigliare: in un libro pubblicato in Gran Bretagna (dove, sennò) nel 2020, una giornalista del Financial Times scrive che de Pahlen era stato «reclutato dal KGB durante gli anni Ottanta», con la missione di trasferire tecnologia a Mosca.  «La Fiat era sempre stata un partner chiave dei sovietici, e secondo due ex intermediari del KGB, divenne un fornitore di tecnologia dual-use (cioè che si può usare in ambito civile come in quello militare, ndr), attraverso una miriade di società amiche».

 

La Russia e il KGB che entrano nel casato Agnelli, dove già, forse, erano entrati gli iraniani con la presunta conversione di Edoardo, trovato poi morto sotto un cavalcavia, all’Islam sciita. Possibile che sia questa la spiegazione dell’ostinazione de La Stampa contro Mosca?

 

Non sappiamo dirlo. Magari la questione riguarda il direttore di allora, Maurizio Molinari, che oggi hanno promosso alla testata ammiraglia comprata da poco, La Repubblica.

 

Ci eravamo sempre convinti che Molinari fosse legato ai neocon americani, così come Il Foglio.

 

Per chi non sapesse chi sono i neocon: una corrente della politica profonda americana, con operativi quasi mai eletti dal popolo ma incistati nei gangli delle amministrazioni di qualsiasi colore. I neocon sono votati agli interventi armati che gli USA dovrebbero somministrare al resto del mondo: è loro la pressione creata per la guerra d’Iraq e in Afghanistan. Sono discepoli di uno strano filosofo chiamato Leo Strauss, ma nessuno sa davvero cosa egli insegnasse, perché le lezioni per il circolo di studenti più intimo erano segrete, esoteriche. I neocon hanno passato decenni a metterci in guardia dall’Islamismo, ma ora spingono per l’obbiettivo di sempre, la guerra alla Russia. Quasi tutti i neocon sono ebrei, per lo più dei dintorni di Nuova York, e vengono da famiglie ebraiche scappate dalla Russia degli Zar.

 

In realtà, mi sbagliavo. A leggere da Google, non pare esservi relazione così diretta tra il direttore di Stampa e Repubblica e i neoconservatori: la ricerca «Molinari+neocon» non sortisce nulla, se non il libro che dedicò all’indimenticato Dubya, durante la cui presidenza i neocon dilagarono: George W. Bush e la missione americana (2004).

 

Così dobbiamo andare su Wikipedia, perché ammettiamo che, a parte l’erremoscia romanesca vista in TV per anni, di lui non sappiamo niente.

 

Scopriamo che è «nato a Roma in una famiglia di origine ebraica» e che ha studiato «all’Harris Manchester College dell’Università di Oxford e all’Università Ebraica di Gerusalemme», ha scritto per il giornale del PRI e vinto premi della Fondazione Spadolini. Chi ha compilato la voce per l’enciclopedia online tiene a farci sapere anche che è sposato con una signora «ebrea italo-libica, avvocato. La coppia ha quattro figli, tutti nati a New York». Per un decennio è stato il corrispondente da Nuova York del giornale degli Agnelli, per poi, prima di rientrare a Torino, esserlo stato anche a Bruxelles e Gerusalemme.

 

Ha scritto un mucchio di libri. Il suo libro sull’ISIS, che per Roberto Saviano era «il libro che tutti dovremmo leggere», purtroppo viene accusato di aver copincollato un bestseller americano, Rise of ISIS, di Jay Sekulow. Tuttavia ha pubblicato tantissimi altri volumi dai titoli interessanti: Ebrei in Italia: un problema di identità (1870-1938), La sinistra e gli ebrei italiani, Gli ebrei di New York, L’Italia vista dalla CIA, L’aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora americano.

 

Tutta questa roba spiega in qualche modo l’intrigo internazionale in Val Seriana? Macchè.

 

Ribadiamo, noi ci stiamo limitando a buttare lì i puntini, sarà qualcuno più bravo di noi – magari qualcuno che avrà accesso alle carte – a dirci cosa è successo, e se c’entra qualcosa il conflitto di larga scala fra Paesi e fazioni di guerrafondai, che riescono a combattersi perfino sulle questioni umanitarie.

 

Vabbè, non siamo ingenui: in realtà sappiamo che non esistono missioni umanitarie prive di rilevanza per l’Intelligence. E, di fatto, c’è chi dice che proprio con un virus preso in Italia sia stato fatto il vaccino Sputnik, cioè l’amuleto magico con cui Putin ha tirato fuori la Russia dall’incantesimo del coronavirus pur vaccinando una porzione ridicola della sua popolazione praticamente senza obblighi. Lo aveva capito subito, Vladimir: il COVID è una guerra di percezione, serviva solo un segno per uscire dallo stallo globale)

 

Ipotizziamo che quando i russi minacciano di parlare, ora che gli italiani con cui hanno collaborato due anni fa gli si sono rivoltati contro, possano tirare fuori una storia così: eravamo d’accordo che avremmo trovato il vaccino insieme (la collaborazione con il famoso ospedale italiano è stata interrotta solo da qualche settimana), e invece voi, per qualche motivo, avete preferito il siero genico tedesco-americano, qualcuno ha scelto per voi da che parte stare nell’era della cortina mRNA…

 

Niente di che. Può essere così, ma fino a che nessuno parla, e piombano dal cielo i segreti militari, non potremmo mai saperlo.

 

Tuttavia, brancolando nel buio, possiamo fare anche altri incubi.

 

Sapete, siamo di quelli che all’inizio la storia dei biolaboratori americani in Ucraina proprio non se la filavano. Circolavano queste mappe in cui alcune strutture parevano essere in territorio già controllato dai russi. Chi le sparava in giro, ci sembrava della terribile schiatta dei social-perdigiorno. Dai, va bene tutto, ma che adesso mi si cerchi di collegare Wuhano all’Ucraina, che mi si dica che sarebbe implicato perfino l’Obama quando era senatore, e poi il figlio di Biden, proprio no, non esageriamo… ebbasta, ci hanno ragione quando ci chiamano complottisti.

 

Giuriamo, pensavamo proprio così.

 

Poi un bel giorno vediamo il video di Victoria Nuland che, in udienza al Congresso USA (dove, per legge, non puoi mentire, pena il carcere) ammette tutto.

 

 

Victoria Nuland, la regina dei neocon. La moglie di Robert Kagan, cardinale neocon teorico del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (come nel titolo del libro citato anche in un libro più sopra…), dove si parlava, pochi anni prima dell’11 settembre, di «una nuova Pearl Harbor».

 

Victoria Nuland, nuora di Donald Kagan, capostipite dei neocon.

 

Victoria Nuland che, discendente di una famiglia di ebrei (vero nome: Nudelman) fuggiti dai pogrom in Circassia, telecomanda la crisi a Kiev.

 

Victoria Nuland che parla di laboratori di bioarmi.

 

Neocon. Russia. Virus. Guerra in Ucraina. Guerra biologica.

 

Ecco. Cercate di capirci: noi non ci abbiamo capito niente. E se anche avessimo capito qualcosa, sarebbe da piazzarci sopra un segreto militare multiplo, multinazionale, multidimensionale.

 

Zitti. E Mosca.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

Epidemie

Gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump non celebreranno più la Giornata mondiale contro l’AIDS

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Per la prima volta dal 1988, l’amministrazione statunitense ha deciso di non proclamare il 1º dicembre come «Giornata mondiale contro l’AIDS». Lo riporta il

 

In una circolare indirizzata al personale, il Dipartimento di Stato ha esplicitamente vietato l’impiego di risorse pubbliche per onorare tale ricorrenza.

 

La misura si inquadra in una linea direttiva più ampia che impone di «evitare di veicolare comunicazioni in occasione di qualsivoglia giornata commemorativa, ivi inclusa quella dedicata alla lotta contro l’AIDS».

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Ai funzionari è stato ordinato di «rinunciare a qualsivoglia promozione pubblica della Giornata mondiale contro l’AIDS tramite canali di diffusione, inclusi social network, apparizioni mediatiche, orazioni o altri annunci rivolti all’opinione pubblica».

 

«Una giornata di sensibilizzazione non costituisce una strategia», ha dichiarato al quotidiano il portavoce del dipartimento di Stato Tommy Pigott. «Sotto la presidenza Trump, il Dipartimento opera in sinergia con governi esteri per preservare vite umane e promuovere maggiore accountability e compartecipazione agli oneri».

 

In una nota ad ABC News, il portavoce della Casa Bianca Kush Desai ha liquidato il Presidential Advisory Council on HIV/AIDS (PACHA) come un «ente prevalentemente simbolico i cui componenti sono immersi in un’inutile kermesse di relazioni pubbliche, svincolata dal concreto impegno dell’amministrazione Trump contro HIV e AIDS».

 

Dall’esordio dell’epidemia negli anni Ottanta, circa 300.000 uomini gay negli Stati Uniti hanno perso la vita per complicanze legate all’AIDS.

 

Negli ultimi quarant’anni, a livello globale, oltre 44 milioni di individui sono deceduti per AIDS; nel 2024, la malattia ha causato circa 630.000 morti. Le cure per l’AIDS furono inizialmente oggetto di feroci critiche da parte degli stessi omosessuali, che si scagliavano apertamente contro l’allora figura principale della lotta alla malattia Anthony Fauci.

 

Come riportato da Renovatio 21, il Fauci, mentre proponeva farmaci altamente tossici e faceva esperimenti allucinanti con gli orfani di Nuova York, arrivò a dire in TV che l’HIV era trasmissibile per «contatti domestici».

 

 

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Ora il tema dell’AIDS è più raramente utilizzato dalla comunità omosessuale, dove una frangia – i cosiddetti bugchasers e gift givers – si impegna incredibilmente nell’infezione volontaria del morbo. Grindr, l’app per incontro gay, per un periodo presentava pazzescamente su ogni profilo la spunta sulla sieropositività dell’utente.

 

Come riportato da Renovatio 21, quattro anni fa studio avanzato sul vaccino contro l’HIV in Africa condotto dalla multinazionale farmaceutica Johnson & Johnson era stato interrotto dopo che i dati hanno mostrato che le iniezioni offrivano solo una protezione limitata contro il virus. Lo studio era stato finanziato da Johnson & Johnson, dall’immancabile Bill and Melinda Gates Foundation e dal National Institutes of Health, la Sanità Nazionale USA dove il dominus (in realtà a capo del ramo malattie infettive) è Tony Fauci, che già in modo molto controverso – e fallimentare – si era occupato dell’AIDS allo scoppio dell’epidemia negli anni Ottanta.

 

Il premio Nobel Luc Montagnier sconvolse il mondo, attirandosi censure dei social tra fact checker e insulti, disse che analizzando al microscopio il SARS-nCoV-2 aveva notato delle strane somiglianze con il virus HIV – per la scoperta del quale Montagnier vinse appunto il Nobel. «Per inserire una sequenza HIV in questo genoma, sono necessari strumenti molecolari, e ciò può essere fatto solo in laboratorio» disse Montagnier in un’intervista per il podcast Pourquoi Docteur. Oltre a supportare l’allora screditatissima ipotesi del virus creato in laboratorio a Wuhan, Montagnier metteva sul piatto un’idea ancora più radicale: quella di un vaccino anti-AIDS come possibile origine del coronavirus.

 

Nel 2021 Moderna, azienda biotecnologica salita alla ribalta per il vaccino mRNA contro il COVID – il primo prodotto mai distribuito della sua storia aziendale – si era dichiarata pronta per iniziare la sperimentazione sugli esseri umani per il primo vaccino genico contro l’HIV. L’anno scorso era emerso che i test avevano riscontrato un effetto collaterale alla pelle, con una percentuale insolitamente alta di riceventi ha sviluppato eruzioni cutanee, pomfi o altre irritazioni cutanee.

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

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Epidemie

Solo 1 tedesco su 7 con test PCR positivo aveva l’infezione da COVID

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Gli autori di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria che ha identificato un tasso di falsi positivi dell’86% per i test PCR per il COVID-19 hanno affermato che i loro risultati suggeriscono un «significativo sovrastima» delle infezioni da COVID-19 durante la pandemia. Entro la fine del 2021, il 92% dei tedeschi aveva già contratto un’infezione naturale, indicando un’immunità pressoché universale nella popolazione.   Secondo un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria, solo circa 1 test PCR positivo su 7 in Germania durante la pandemia di COVID-19 ha indicato un’effettiva infezione da coronavirus che ha innescato una risposta anticorpale.   Brian Hooker, Ph.D., direttore scientifico di Children’s Health Defense (CHD), ha definito «sbalorditivi» i risultati dello studio, che hanno evidenziato un tasso di falsi positivi dell’86%.   Lo studio ha inoltre rilevato che alla fine di dicembre 2020, quando sono stati distribuiti i vaccini contro il COVID-19 , circa il 25% dei tedeschi aveva già contratto l’infezione spontaneamente. Entro la fine del 2021, la percentuale è salita al 92%, indicando un’immunità pressoché universale nella popolazione.

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I test PCR hanno portato a un «significativo sovrastima» delle infezioni da COVID

Lo studio condotto da tre ricercatori tedeschi, pubblicato il mese scorso su Frontiers in Epidemiology, ha utilizzato due modelli matematici per analizzare quanto i risultati dei test PCR fossero allineati con i risultati degli esami del sangue per la ricerca degli anticorpi SARS-CoV-2.   I risultati si basano sui dati ottenuti da laboratori accreditati in Germania che hanno gestito circa il 90% dei test PCR nel Paese da marzo 2020 all’inizio del 2023 e che hanno anche eseguito test del sangue per la ricerca di anticorpi (IgG) fino a maggio 2021.   I ricercatori, Michael Günther, Ph.D.Robert Rockenfeller, Ph.D., e Harald Walach, Ph.D., hanno affermato che i loro modelli hanno allineato i dati dei test PCR che rilevano «piccole porzioni di materiale genetico virale nel naso o nella gola» e i test sugli anticorpi che mostrano se il sistema immunitario di una persona «ha risposto a un’infezione reale settimane o mesi prima».   Hanno detto al Defender:   «Quando abbiamo confrontato il numero di positivi alla PCR con i risultati successivi degli anticorpi, solo circa 1 persona su 7 positiva alla PCR ha mostrato il tipo di risposta immunitaria che indica una vera infezione. Con ipotesi conservative, la percentuale potrebbe essere più vicina a 1 su 10».   La loro analisi ha anche mostrato che entro la fine del 2021, «quasi tutti» in Germania erano stati «contagiati, vaccinati o entrambi».   Secondo il modello matematico dello studio, il dato di 1 su 7 relativo al test PCR è «quasi perfettamente» in linea con un tasso di immunità dell’intera popolazione a fine anno del 92%.   I ricercatori hanno spiegato che i test sugli anticorpi «ci dicono che una persona è stata infettata in un momento qualsiasi dell’ultimo anno circa», mentre un risultato positivo al test PCR può indicare un’infezione, o «una breve esposizione senza infezione, frammenti virali residui o un rilevamento a livelli molto bassi che non portano mai alla malattia».   Hanno affermato che il loro studio ha dimostrato che solo circa il 14% dei test PCR positivi corrispondeva a infezioni reali che avevano attivato gli anticorpi IgG, il che suggerisce che i test PCR hanno portato a un «significativo sovrastima» delle infezioni.

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I test PCR di massa «aumentano la quota relativa di falsi positivi»

I critici delle politiche ufficiali sul COVID-19 hanno spesso citato la dipendenza dai test PCR e le incongruenze nelle soglie virali utilizzate per generare un risultato «positivo» del test.   Karl Jablonowski, Ph.D., ricercatore senior presso il CHD, ha affermato che i test PCR sono uno strumento inaffidabile per rilevare e tracciare le epidemie di malattie infettive. Ha citato un incidente del 2006 al Dartmouth-Hitchcock Medical Center, dove una presunta epidemia di pertosse ha portato a 134 risultati positivi ai test.   «Sono state distribuite oltre 1.300 prescrizioni di antibiotici e 4.500 persone sono state vaccinate profilatticamente», nonostante non ci fossero «casi confermati in laboratorio». L’ uso improprio dei test PCR ha portato le autorità sanitarie a dichiarare falsamente un’epidemia, ha affermato.   Un test PCR «non è un test diagnostico per una popolazione», ha affermato Jablonowski. «È meglio usarlo come test di conferma, essenzialmente per rispondere alla domanda “Quale virus ti ha infettato?” e non “Sei infetto?”».   I ricercatori tedeschi hanno affermato che i loro risultati non indicano che la tecnologia PCR sia «imperfetta come metodo di laboratorio». Tuttavia, lo studio dimostra che il modo in cui i test PCR sono stati utilizzati per i test di massa durante la pandemia «non ha indicato in modo affidabile quante persone siano state effettivamente infettate».   Hanno affermato che i test PCR rilevano in modo affidabile frammenti di DNA virale, anche in «quantità estremamente piccole» che «non rappresentano alcun rischio di infezione», ma non sono in grado di stabilire se il virus si sta replicando nell’organismo.   I risultati positivi non dovrebbero essere utilizzati «come indicatori di infezione», perché i test PCR di massa «aumentano la quota relativa di falsi positivi», hanno concluso i ricercatori.

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I test PCR di massa hanno causato «danni sociali, economici e personali non necessari»

L’affidamento dei governi ai risultati dei test PCR per monitorare i livelli di infezione da COVID-19 ha portato a restrizioni legate alla pandemia che hanno contribuito a «danni sociali, economici e personali non necessari», hanno affermato i ricercatori.   I governi hanno utilizzato i risultati dei test PCR per giustificare rigide restrizioni, nonostante le agenzie sanitarie pubbliche avessero accesso a dati di test sugli anticorpi di qualità superiore.   «Erano disponibili informazioni migliori di quelle comunicate pubblicamente», hanno affermato i ricercatori. Ciò ha sollevato «seri interrogativi sulla trasparenza e sul fatto che le politiche fossero basate sui dati più informativi disponibili».   Jablonowski ha affermato che nei primi giorni della pandemia, i test PCR hanno probabilmente fornito un quadro più accurato della diffusione dell’infezione, poiché i kit per i test erano scarsi e venivano quindi utilizzati su coloro che avevano maggiori probabilità di essere infettati.   Ma man mano che i test diventavano più facilmente disponibili, «venivano utilizzati su persone asintomatiche e obbligatori per i ricoveri ospedalieri, i viaggi aerei, i datori di lavoro e molte altre attività ad accesso controllato», ha affermato Jablonowski.   Gli autori dello studio tedesco hanno affermato che un approccio più scientificamente valido avrebbe incluso dati più accurati sui test PCR che mostravano i risultati in proporzione al numero di test eseguiti, un monitoraggio di routine dei livelli di anticorpi nella popolazione e una «comunicazione trasparente… che indicasse chiaramente cosa la PCR può e non può misurare».   «Questo insieme di pratiche… dovrebbe guidare le future politiche di sanità pubblica», hanno affermato i ricercatori.   Documenti del governo tedesco trapelati lo scorso anno suggerivano che la risposta ufficiale del Paese alla pandemia di COVID-19 si basava su obiettivi politici e che le contromisure e le restrizioni raccomandate dalla Germania spesso contraddicevano le prove scientifiche.   Durante un’intervista del 2022 al podcast «RFK Jr. The Defender Podcast» di Robert F. Kennedy Jr., il matematico Norman Fenton, Ph.D., ha affermato che i funzionari governativi di tutto il mondo hanno manipolato i dati dei test PCR per esagerare l’entità della pandemia.   Jablonowski ha affermato che «l’isteria dei test PCR obbligatori ha preparato la mentalità della popolazione alle vaccinazioni obbligatorie che sarebbero arrivate. I test non avevano nulla a che fare con la salute della popolazione, ma solo con il controllo della popolazione».   I test PCR per il COVID-19 sono molto meno diffusi oggi rispetto al picco della pandemia. Tuttavia, i ricercatori hanno affermato che il loro studio «è importante oggi perché l’errore strutturale che rivela – trattare i positivi alla PCR come infezioni – non è stato corretto».   «Dato che ci troviamo di fronte a nuovi agenti patogeni, come l’influenza aviaria , affidarci solo alla PCR rischia di ripetere gli stessi errori», hanno affermato i ricercatori.

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Risposta «polarizzata», poiché i risultati «mettono in discussione le ipotesi che hanno plasmato la politica pandemica»

I ricercatori hanno affermato di aver incontrato «notevoli difficoltà» nel pubblicare il loro articolo. Tra queste, il rifiuto da parte di altre sei riviste, di cui solo due hanno inviato il manoscritto per la revisione paritaria.   Queste riviste hanno cercato di «proteggere la narrativa prevalente, piuttosto che affrontare il nocciolo della nostra analisi», hanno affermato i ricercatori.   I ricercatori hanno affermato che due dei tre revisori originali di Frontiers in Epidemiology «si sono ritirati dai loro incarichi». Ciò ha costretto la redazione a reclutare un quarto revisore, ritardando la pubblicazione dell’articolo.   La risposta all’articolo è stata «polarizzata», hanno affermato. «Alcuni lettori hanno accolto con favore il confronto quantitativo dei dati PCR e IgG, ritenendolo in ritardo, mentre altri hanno messo in dubbio le implicazioni dello studio o hanno tentato di liquidarlo senza approfondire la metodologia di base».   Ciò non sorprende, «dato che i risultati mettono in discussione i presupposti che hanno plasmato la politica pandemica», hanno affermato.   Michael Nevradakis Ph.D.   © 26 novembre 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Epidemie

Il CDC chiude i laboratori con scimmie tra i timori della tubercolosi

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Il CDC, l’ente nazionale USA per il controllo epidemico, porrà fine a ogni indagine su primati non umani svolta nelle sue sedi, costituendo la prima occasione dal ritiro degli scimpanzé da parte dei National Institutes of Health nel 2015 in cui un’agenzia sanitaria federale di primo piano ha decretato la cessazione totale di un proprio protocollo interno sulle scimmie. Lo riporta la rivista Science.

 

Tale determinazione coinvolge approssimativamente 200 macachi alloggiati nel complesso di Atlanta dei CDC. Un portavoce dell’agenzia ha attestato a Bloomberg che si sta approntando un programma di smantellamento, pur astenendosi dal delineare scadenze precise o sul destino degli esemplari.

 

La scelta matura all’indomani di lustri di contestazioni da parte di associazioni per la tutela animale e taluni ricercatori, i quali lamentano che i paradigmi su scimmie abbiano generato un apporto traslazionale scarso, soprattutto nella elaborazione di sieri anti-HIV, ove decine d’anni di analisi su primati non hanno ancor prodotto un rimedio omologato. I CDC hanno invocato tanto sensibilità etiche quanto un viraggio tattico verso opzioni antropomorfe, come sistemi organ-on-a-chip, colture cellulari evolute e simulazioni algoritmiche, quali elementi cardine della risoluzione.

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In via distinta, i CDC hanno affrontato episodi di vulnerabilità biosicurezza legati a primati importati. Archivi interni scrutinati dall’organizzazione animalista PETA rivelano che, dal 2021 al 2024, i vagli di quarantena hanno smascherato 69 episodi di tubercolosi nei macachi in transito, con ulteriori 16 occorrenze scoperte post-liberazione verso i laboratori.

 

«La PETA ha allertato i CDC sin dal 2022 che il loro circuito di importazione di scimmie configura una mina vagante per la tubercolosi», ha dichiarato la dottoressa Lisa Jones-Engel, consulente scientifico per la sperimentazione sui primati della PETA. «Nondimeno, la loro ostinata miopia ha consentito a un pericolo biosicuro manifesto di infiltrarsi negli Stati Uniti. Invitiamo i CDC a interrompere l’afflusso di scimmie nei laboratori, a tutela della salute collettiva, della validità scientifica e degli stessi primati».

 

La dismissione progressiva si allinea a iniziative federali più estese per comprimere la sperimentazione su animali. Ratificato nel 2022, il Modernization Act 2.0 della Food and Drug Administration (FDA) ha soppresso l’esigenza di prove animali preliminari alla sperimentazione umana, mentre NIH, EPA e FDA hanno esteso gli stanziamenti per metodiche prive di impiego animale.

 

«Questa svolta è epocale. Per la prima volta, un ente statunitense opta per una scienza contemporanea e umana anziché per un apparato obsoleto di test su scimmie», ha esultato Janine McCarthy, direttrice facente funzioni delle politiche di ricerca al Physicians Committee for Responsible Medicine. «Ora i CDC dovrebbero destinare quei budget alla ricerca antropocentrica e assicurare che queste scimmie siano ricollocate in santuari per il resto dei loro giorni».

 

«I CDC hanno appena trasmesso un segnale all’intero ecosistema biomedico: l’epoca degli esperimenti su scimmie è conclusa», ha soggiunto McCarthy.

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