Sanità
Vaccino, giovane madre sviene e ha convulsioni dopo l’iniezione

La lista conosciuta delle persone che hanno subito pesanti reazioni avverse con il vaccino COVID si allunga ogni giorno di più.
Deborah Tilli, operatrice socio-sanitaria di 27 anni di Hamilton (Ontario, Canada) e madre di due figli, ha avuto una reazione grave al Pfizer-BioNTech. Il vaccino ha innescato una grave reazione che, dice, l’ha fatta svenire, soffrire di diverse crisi epilettiche, richiedere la rianimazione cardio-polmonare e sentire ancora gli effetti quasi una settimana dopo.
Il vaccino ha innescato una grave reazione che, dice, l’ha fatta svenire, soffrire di diverse crisi epilettiche, richiedere la rianimazione cardio-polmonare e sentire ancora gli effetti quasi una settimana dopo
Quando inizialmente ha scoperto che stava per fare il vaccino, dice la Tilli, era entusiasta. «Non avevo paura, ero eccitata. Ero tipo, “Sarò uno dei primi operatori sanitari della città a ottenere il vaccino”», ha detto alla testata canadese CBC.
Giovedì alle 11:15 circa, si stava preparando a farsi vaccinare. Ha compilato i moduli di consenso e ha aspettato di essere sottoposta a screening. È stato allora che Tilli ha notato che qualcosa non andava: sostiene che l’infermiera che stava esaminando la sua cartella non era sicura di quello che stavano facendo.
«Ho una grave allergia ai bombi, e l’infermiera ha esaminato la cosa con me e mi ha persino interrogato, ma… sembrava che non sapesse davvero cosa stesse facendo», ha detto Tilli.
Dopo la puntura, si aspettava di aspettare solo 15 minuti prima di tornare a casa, dice. Invece, Tilli ha iniziato a sentirsi stordita. Poi, come un graffio alla gola.
Dopo la puntura, ha iniziato a sentirsi stordita. Poi, come un graffio alla gola. Il paramedico ha controllato i suoi organi vitali e ha notato che la sua frequenza cardiaca era alta. I sintomi sono peggiorati
Deborah ha liquidato la sensazione come nervosismo, dice, ma i sintomi non scomparivano. Quindi, ha contattato un paramedico per sapere cosa stava succedendo.
La ragazza racconta che il paramedico ha controllato i suoi organi vitali e ha notato che la sua frequenza cardiaca era alta. Le sarebbe stata praticata un’iniezione di Benadryl (un antistaminico) che è parsa funzionare per alcuni minuti. Tuttavia i sintomi sono tornati e sono peggiorati.
«Il supervisore dei paramedici era lì e ha detto solo “OK, diamole l’EpiPen”», ha detto Tilli. L’EpiPen è un autoiniettore di epinefrina portatocon sé da persone con gravi allergie e con il rischio di shock anafilattico.
«Entro un minuto, ho detto, “Qualcosa non si sente bene nel mio corpo” e ricordo di essere svenuta chinandomi verso destra».
La ragazza è stata portata all’ospedale, dove si è svegliata e, racconta, ha avuto convulsioni che hanno richiesto la rianimazione cardio-polmonare.
La ragazza è quindi stata portata all’ospedale, dove si è svegliata e, racconta, ha avuto convulsioni che hanno richiesto la rianimazione cardio-polmonare.
A questo punto Deborah ha pensato alla morte:
«C’è stato un momento in cui, non voglio dire che avevo rinunciato, ma era proprio il momento del “Sia come sia”».
Deborah ha pensato alla morte: «C’è stato un momento in cui, non voglio dire che avevo rinunciato, ma era proprio il momento del “Sia come sia”».
«Quando ero a letto, l’altra sera, ho pensato, “Che cosa succede se lascio le mie due ragazze senza una madre?”» .
Tilli dice che la sua mente è annebbiataa e le sue costole sono doloranti. Non è sicura di quando tornerà alla normalità e si preoccupa per le crisi future, preoccupandosi anche di come la situazione potrebbe portarla a perdere la patente o anche il suo lavoro.
«Non c’è nessuno qui per pagare i miei conti. Sono una madre single di due bambini».
Epidemie
Zero adulti sani sono morti di COVID in Israele

Un dato scioccante è emerso: non una sola persona sana sotto i 50 anni è morta di Covid-19 in Israele. La conclusione arriva guardando i dati rilasciati dal ministero della salute del Paese in risposta a una richiesta di libertà di informazione dell’avvocato Ori Xabi.
Oltre a richiedere il numero di decessi per COVID-19 avvenuti in pazienti sotto i 50 anni senza condizioni di salute pregresse, Xabi ha anche chiesto al ministero di fornire l’età media dei pazienti deceduti a causa della malattia, segmentata per stato di vaccinazione, nonché il numero annuo di casi di arresto cardiaco tra il 2018 e il 2022.
L’età media dei decessi tra i vaccinati contro il COVID-19 era di 80,2 anni, mentre la media dei non vaccinati era di 77,4, secondo il ministero.
Tuttavia, il Ministero della Salute ha affermato di non essere in grado di fornire informazioni sull’arresto cardiaco per gli anni 2021 e 2022, spiegando che le informazioni non erano ancora state trasferitegli.
Uno studio pubblicato lo scorso anno che analizzava i dati dei servizi medici di emergenza nazionali israeliani ha rilevato uno scioccante aumento del 25% delle chiamate ai servizi di emergenza a causa di arresti cardiaci per pazienti di età compresa tra 16 e 39 anni che si sono verificati da gennaio a maggio 2021.
Sharon Elroy-Pries, capo dei servizi di sanità pubblica per il Ministero della Salute israeliani, ha condannato gli sforzi per stabilire un collegamento con l’inizio del programma di vaccinazione COVID-19 nel dicembre 2020 e ha negato che vi sia stato un aumento degli arresti cardiaci durante tale tempo, o qualsiasi aumento dei decessi di giovani.
Il cardiologo Retsef Levi, uno degli autori dello studio, ha sottolineato che il ministero aveva affermato di non avere informazioni sugli arresti cardiaci per il 2021 e il 2022, il che significa che una delle due affermazioni dovrebbe essere falsa.
Mentre il ministero della Salute ha insistito sul fatto che i dati forniti a Xabi riguardanti i pazienti di età compresa tra 18 e 49 anni fossero limitati ai casi in cui era stata completata un’indagine epidemiologica, è noto che ha accesso a un database che include dati estesi su tutti i pazienti, comprese le condizioni sottostanti, indipendentemente dal fatto che sia stata eseguita un’indagine epidemiologica.
Il Ministero della Salute ha promesso di fornire dati sulla mortalità per tutte le cause segmentati per stato di vaccinazione ed età entro la fine del mese, dopo più di due anni di ostruzionismo in risposta alle richieste di libertà di informazione dell’avvocato Xabi.
Israele è divenuto Paese pilota delle norme COVID, tra vaccinazioni sperimentali imposte immediatamente alla popolazione per tutte le dosi possibili (con voci di un accordo segreto con Pfizer), braccialetti di tracciamento, green pass che impediva perfino di comprare cibo ai totem elettronici.
Il ministro della Salute israeliano Nitzan Horowitz nel 2021 era stato sorpreso a dire in un fuori onda che «i green pass servono alla coercizione dei non vaccinati». Altri video trapelati mostrerebbero che il governo israeliano aveva nascosto le reazione avverse al vaccino, che, come riportato da Renovatio 21, parevano essere iniziate da subito.
I dati sulle vaccinazioni in Israele emersi ancora due anni fa erano stati definiti «allarmanti e scioccanti». Sull’efficacia sulla campagna di vaccinazione in Israele, dove nonostante la vasta sierizzazione i contagi impennavano, espresse dubbi perfino il New York Times.
Le rivelazioni degli zero morti per COVID tra i giovani israeliani si collegano ad altri studi come quello tedesco per cui zero bambini sani tra i 5 e i 18 anni sarebbero morti per COVID e i dati della Svezia, che non hanno riportato alcun decesso COVID tra i piccoli.
Sanità
I ventilatori polmonari hanno contribuito alla morte di pazienti COVID?

Uno studio analitico pubblicato sul Journal of Clinical Investigation il mese scorso ha rilevato che la maggior parte dei pazienti COVID che necessitavano dell’aiuto di un ventilatore polmonare sviluppava anche una polmonite batterica secondaria.
«Nonostante le linee guida promuovessero la prevenzione e il trattamento aggressivo della polmonite associata al ventilatore (VAP), l’importanza della VAP come driver degli esiti nei pazienti ventilati meccanicamente, compresi i pazienti con COVID-19 grave, rimane poco chiara» scrivono i ricercatori, che sono numerosi e distribuiti internazionalmente, nel background del loro paper. «Abbiamo mirato a determinare il contributo del trattamento infruttuoso della VAP alla mortalità nei pazienti con polmonite grave».
Il gruppo di ricerca ha eseguito uno studio prospettico di coorte monocentrico su 585 pazienti ventilati meccanicamente con polmonite grave e insufficienza respiratoria, 190 dei quali affetti da COVID-19, sottoposti ad almeno un lavaggio broncoalveolare. Un gruppo di medici di terapia intensiva ha giudicato gli episodi di polmonite e gli endpoint sulla base di dati clinici e microbiologici. Data la durata relativamente lunga della degenza in terapia intensiva tra i pazienti con COVID-19, è lo studio ha sviluppato un approccio di apprendimento automatico chiamato CarpeDiem, che raggruppa giorni di pazienti in terapia intensiva simili in stati clinici sulla base dei dati delle cartelle cliniche elettroniche.
«CarpeDiem ha rivelato che la lunga degenza in terapia intensiva tra i pazienti con COVID-19 è attribuibile a lunghi soggiorni in stati clinici caratterizzati principalmente da insufficienza respiratoria» scrivono nei risultati. «Mentre la VAP non era associata alla mortalità in generale, la mortalità era più alta nei pazienti con un episodio di VAP trattata senza successo rispetto a VAP trattata con successo (76,4% contro 17,6%, P <0,001).
«In tutti i pazienti, compresi quelli con COVID-19, CarpeDiem ha dimostrato che la VAP non risolta era associata a transizioni a stati clinici associati a mortalità più elevata».
«Il trattamento infruttuoso della VAP è associato a una maggiore mortalità. La durata relativamente lunga della degenza tra i pazienti con COVID-19 è principalmente dovuta a un’insufficienza respiratoria prolungata, che li espone a un rischio più elevato di VAP» concludono gli scienziati.
«Il nostro studio evidenzia l’importanza di prevenire, cercare e trattare in modo aggressivo la polmonite batterica secondaria nei pazienti in condizioni critiche con polmonite grave, compresi quelli con COVID-19», afferma Benjamin Singer, pneumologo presso la Northwestern University in Illinois.
Secondo Science Alert, i risultati confutano l’idea che una tempesta di citochine in seguito a COVID-19 – la travolgente risposta infiammatoria che causa insufficienza d’organo – sia stata responsabile di un numero significativo di decessi, in quanto «non c’era evidenza di insufficienza multiorgano nei pazienti studiati».
In altre parole, se non abbiamo capito male, sebbene COVID-19 possa aver portato queste persone in ospedale, l’infezione secondaria della polmonite batterica dopo essere stai messi su un ventilatore polmonare sarebbe responsabile del più alto tasso di mortalità tramite la cosiddetta Polmonite Associata al Ventilatore (VAP).
«Coloro che erano guariti dalla loro polmonite secondaria avevano maggiori probabilità di sopravvivere, mentre quelli la cui polmonite non si risolveva avevano maggiori probabilità di morire», dice Singer.
«I nostri dati suggeriscono che la mortalità correlata al virus stesso è relativamente bassa, ma altre cose che accadono durante la degenza in terapia intensiva, come la polmonite batterica secondaria, lo compensano».
I ricercatori sono attenti a sottolineare che i risultati non diminuiscono i rischi per la salute del COVID-19 stesso, in quanto il paziente che necessita di un ventilatore sta già vivendo problemi respiratori a causa del coronavirus, dicono.
«Vale la pena ricordare che se la necessità di un ventilatore da parte di un paziente per il trattamento delle complicanze da COVID-19 porta a VAP, ciò non implica che un’infezione da COVID-19 sia meno pericolosa, né diminuisce il numero di decessi da COVID-19» scrive Science Alert.
Lo studio conferma resoconti arrivati anche ai media mainstream del 2020 secondo i quali circa il 90% dei pazienti COVID sottoposti a ventilazione meccanica è morto. «Un totale di 1.151 pazienti necessitava di ventilatori meccanici. Dei 320 per i quali sono noti gli esiti finali (morte o dimissione), l’88% è deceduto» annotava il Washington Post nel 2020 parlando del sistema sanitario di Nuova York.
All’epoca, tuttavia, era forte l’insistenza, più che sulle condizioni ci comorbilità preesistente o sui dubbi della ventilazione meccanica, riguardo al fatto che un morto con il COVID era un morto di COVID.
Tale terrore, come forse il lettore ricorda, è stato alla base della pratica dei lockdown e del mastodontico programma di vaccinazione di massa.
Epidemie
Mezzo milione di test COVID contaminati da batteri

L’ente regolatore americano per i prodotti farmaceutici FDA ha emesso un avviso ai consumatori sulla potenziale contaminazione batterica che interessa alcuni test domestici di COVID-19.
Nel comunicato diramato si legge che l’ente consiglia «ai consumatori e agli operatori sanitari di «smettere di usare e buttare via alcuni lotti di SD Biosensor, Inc. Pilot COVID-19 At-Home Tests, distribuiti da Roche Diagnostics».
Secondo la FDA, l’agenzia ha «significative preoccupazioni di contaminazione batterica» nel componente soluzione liquida dei kit. «Il contatto diretto con la soluzione liquida contaminata può porre problemi di sicurezza e la contaminazione batterica potrebbe influire sulle prestazioni del test».
Nello specifico, i test potrebbero essere contaminati da specie batteriche di Enterococcus, Enterobacter, Klebsiella e Serratia, la cui infezione potrebbe causare malattie in individui con sistema immunitario indebolito o in coloro che hanno un’esposizione diretta alla soluzione di test liquida contaminata tramite uso improprio, fuoriuscite accidentali, o «gestione standard» del prodotto, riporta la testata americana Epoch Times.
Oltre a sviluppare un’infezione, i prodotti contaminati possono anche produrre risultati del test dell’antigene «falsi negativi» o «falsi positivi», ha affermato la FDA, il che potrebbe portare a una serie di problemi. Ad esempio, secondo la FDA, un test falso negativo potrebbe portare un individuo a cercare di sottoporsi ad un trattamento per COVID-19.
Non è chiaro quanti siano stati venduti ai consumatori, ha affermato la FDA, aggiungendo che sta «lavorando con Roche» per determinare il numero. Epoch Times riporta che circa 16.000 test sono stati inviati tramite Amazon.
Come riportato da Renovatio 21, la pericolosità dei tamponi, soprattutto i primi utilizzati durante la pandemia, prescinde dalla loro possibile contaminazione batterica.
«Sono ora state espresse preoccupazioni sull’uso di un noto cancerogeno, l’ossido di etilene (EtO), per sterilizzare i tamponi utilizzati per i test COVID» scriveva due anni fa l’Alliance for Natural Health International. «I bambini, in particolare i bambini piccoli, sono significativamente più sensibili alle esposizioni chimiche rispetto agli adulti che potenzialmente caricano la pistola per problemi di salute in età avanzata».
«Disinfettanti chimici aggressivi progettati per uccidere tutti i germi conosciuti: il costo che può richiedere sulla pelle delicata di un bambino, specialmente quelli che soffrono di malattie della pelle come l’eczema, può essere immenso e portare a una pelle dolorosa, screpolata e sanguinante, che è estremamente angosciante».
Dobbiamo anche ammettere di non sapere che fine abbia fatto la pratica cinese dei tamponi anali, cui sottoponevano i viaggiatori in aeroporto, soprattutto i membri dell’ambasciata americana.
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