Civiltà
Un altro sogno del collasso. L’apocalisse in moto con mio figlio

Ieri notte ho fatto uno di quei sogni che non ho dimenticato subito. Chi mi conosce sa che mi capita una o due volte l’anno. Se ne vale la pena, decido di scriverne.
Quello di ieri è stato considerevole. Forse questo sogno così denso e cristallino è dovuto al fatto che sono entrato in digiuno. Non so.
Non si tratta di cercarvi un significato esoterico o di darne letture freudiane, junghiane, etc. Non mi interessa: racconto quei sogni che credo stiano parlando con potenza dell’ora presente.
State per leggere il sogno, illogico e scombiccherato come sono queste strane visioni che esperiamo la notte: se non vi interessa andate pure altrove.
State per leggere il sogno, illogico e scombiccherato, ma se volete anche denso e cristallino
Il sogno iniziava in una non meglio precisata aula di un edificio da qualche parte della bassa, forse da qualche parte in Romagna, non lontani dalla costa – ma nel sonno era un continuum innominato senza confini precisi. L’occasione era una conferenza del mio amico Camillo Langone, e la cosa è di per sé piuttosto onirica, perché molto raramente Camillo fa conferenze ed era improbabile vedere lui condurre un incontro in un’ aula con il proiettore acceso.
Tuttavia, al momento dei saluti iniziali, Camillo ringraziava un gruppo di spettatori italiani venuti dalla città di Zara. Ecco, pensavo, quanto è straordinario che vi siano ancora in Dalmazia persone così? Nel rispondere ai ringraziamenti, gli zaratini facevano intendere che era venuti con grande sforzo, rischiando, con l’unico mezzo possibile: per essere lì avevano attraversato l’Adriatico in barca. Realizzavo, a quel punto, che tutte le strade erano legalmente bloccate. Non si tratta solo del sogno: è così nella realtà, vige il divieto di traffico tra le regioni, e figuriamoci se una conferenza, o peggio un ritrovo («assembramento!»), posso costituire materia per l’autocertificazione da esibire alle Forze dell’Ordine.
Sì, essere lì era rischioso. Sì, il sogno non era diverso dalla realtà. Mi rendo conto ora che per anni ho sognato strade deserte o bloccate, il set ideale di quei mezzi incubi che ti rendono la notte non gradevolissima. Ora il mezzo incubo è realtà.
Per anni ho sognato strade deserte o bloccate, il set ideale di quei mezzi incubi che ti rendono la notte non gradevolissima. Ora il mezzo incubo è realtà
Il sogno si spostava altrove. Andavo a prendere mio figlio all’asilo. Questo però non si trovava al suo posto, nella casetta in centro dove lo porto ogni mattina: per qualche motivo, nel sogno stava su un palazzo alto, di quelli improbabili che vedi quando le zone industriali si stemperano verso la campagna in Alta Italia. Era fuori città. Per qualche motivo ci attardavamo fino a che gli altri bambini non erano andati via tutti, tanto che vedevo la maestra che iniziava a pulire. C’era qualcun altro lì, con cui stavo discutendo animatamente, ma in questo momento la mente, chissà perché, cripta i contenuti di quella discussione. Stavo perdendo tempo.
Nell’ultima fase del sogno ero sulla strada con il bambino, direzione casa. Per qualche motivo, eravamo con la mia Monster, che non tocco praticamente da 3 anni. Mentre sfrecciavamo per i vialoni provinciali conosciuti, mi rendevo conto che qualcosa non quadrava. Il cielo era divenuto nero, le strade erano davvero troppo deserte. Nessuno – ma davvero nessuno – era in circolazione. Non un’anima viva.
Rallentavo. Avvicinandomi al centro cominciavo a scorgere una quantità di palazzi devastati. Condomini crepati, edifici semi-crollati. Il Tribunale era a pezzi. Vedevo campanili di cui era rimasta in piedi solo metà della struttura – adesso scrivendolo capisco che sono scene che ho visto durante il terremoto in Emilia nel 2012. Era tutto vuoto e distrutto. Il vialone che corre sopra la ferrovia era spettrale, costellato di case sbriciolate.
Rallentavo. Avvicinandomi al centro cominciavo a scorgere una quantità di palazzi devastati. Condomini crepati, edifici semi-crollati. Il Tribunale era a pezzi. Il vialone che corre sopra la ferrovia era spettrale, costellato di case sbriciolate
Cosa era successo mentre ero stato via? Mentre ero alla conferenza con gli zaratini, mentre ero all’asilo di mio figlio in provincia? Non c’era modo di saperlo, nessuno in giro, e non volevo fermarmi a consultare il telefonino.
Arrivati al grande parco vicino alla stazione, fermavo la moto. Come mettevo mano al telefonino, realizzavo che l’imperativo era sapere se stessero bene i miei cari. La madre di mio figlio, mia madre… se è stato un terremoto, sono riuscite a mettersi in salvo? A cosa mi devo preparare? Chi ha più possibilità di aver bisogno di aiuto?
Ma il telefono era morto. Nessun segnale, né per telefonare, né per capire cosa potesse essere successo. Internet non esisteva più, e nemmeno le comunicazioni a distanza tra le persone.
Ecco che però arriva qualcuno. Sono tecnicamente degli sfollati, sono anche molti, non si capisce dove vadano (alla stazione? Non c’era traccia di treni che normalmente lì si sentono passare continuamente), e camminavano non velocissimi sotto il cielo nero. Capivo che con evidenza ne sapevano di più su ciò che era accaduto.
Il telefono era morto. Nessun segnale, né per telefonare, né per capire cosa potesse essere successo. Internet non esisteva più, e nemmeno le comunicazioni a distanza tra le persone
Sempre in groppa alla moto con mio figlio sul sedile posteriore, mi risolvevo a fermare uno sfollato. Era un ragazzo più giovane di me, alto e magro, i capelli lunghi solo sulla nuca. Non aveva esattamente l’aria di uno intelligente – tuttavia di certo aveva più informazioni di me.
«Che cosa è successo?» chiedevo sconvolto.
«Eh, il governo inglese ne ha fatta una delle sue solite» rispondeva con naturalezza. «Hanno sganciato vicino ai Dardanilli». Lo diceva come si trattasse di qualcosa di largamente previsto. Io ovviamente fingevo di sapere cosa stesse dicendo. Nella mia testa ricostruivo con vaghezza uno scenario in cui la Gran Bretagna sgancia una bomba atomica – o forse non esattamente quello, ma un’arma misteriosa ed equivalente – sui Dardanelli, lo stretto tra l’Europa e la Turchia, che il ragazzo pronunciava strambamente. Cosa ha provocato tutta questa distruzione? L’onda d’urto della megaesplosione dall’Asia sino al Veneto? Che i Dardanilli fossero invece un luogo più vicino di cui non avessi contezza, un’oscura frazione della provincia di Vicenza? O forse non avevo capito davvero nulla di quello che diceva, tanto ero tagliato fuori dal ciclo delle informazioni?
Cercavo di capire cosa avrebbero fatto tutte quelle persone.
Stava accadendo, e non mi ero reso conto di niente. L’apocalisse mi aveva preso di sorpresa, e ora che sono sveglio realizzo evangelicamente che non può che essere così – perché «non sapete né il giorno né l’ora»
«Non lo so, ma sta diventando pericoloso qui. C’è già chi in strada vende le armi» e mi indicava una via del centro con un ristorantino che in realtà non esiste ma che nella topografia del sogno mi era conosciutissima. L’informatore manteneva il sorriso ebete di un campagnolo fiero di spiegare qualcosa in italiano.
Cominciavo a realizzare che, qualsiasi cosa fosse successa, l’emergenza era più grave della devastazione urbana. Stava crollando l’ordine sociale. Stava disintegrandosi il tacito contratto di non-aggressività che esiste tra gli uomini. Stava fondendosi il nocciolo della Civiltà. Un pensiero al quale ho dedicato tanti ragionamenti e tante parole scritte.
Stava accadendo, e non mi ero reso conto di niente. L’apocalisse mi aveva preso di sorpresa, e ora che sono sveglio realizzo evangelicamente che non può che essere così – perché «non sapete né il giorno né l’ora».
Cosa ci facevo su di una moto, il mezzo di trasporto più vulnerabile che esista, e per di più portandoci sopra quanto di più prezioso ho, la mia prole? Com’era possibile che non avessi la benché minima informazione di ciò che stava sconvolgendo l’umanità?
Preso alla sprovvista, totalmente. Cosa ci facevo su di una moto, il mezzo di trasporto più vulnerabile che esista, e per di più portandoci sopra quanto di più prezioso ho, la mia prole?
Com’era possibile che non ne sapessi nulla? Com’era possibile che non avessi la benché minima informazione di ciò che stava sconvolgendo l’umanità?
E poi perché ero senza casco? Immagino che questo sia un surrogato motociclistico del momento di alcuni sogni in cui ci si rende conto di essere nudi. Tuttavia nella mia dimensione onirica ciò spingeva un altro pensiero: le Forze dell’Ordine a questo punto non esistono più – ecco perché c’era già in strada un vistoso mercato nero di Kalashnikov – e anzi bisogna stare attenti, perché sono i membri armati dello Stato ora collassato che possiedono l’accesso ad armi a ripetizione proibite al comune cittadino.
Mi giravo a guardare mio figlio seduto sul passeggero della Ducati. Fortunatamente, non stava rendendosi conto del disastro. Aveva la testa china su un Gameboy in bianco e nero che, nel mondo reale, qualche settimana fa ho ripescato e restaurato per lui. Per una volta, ero felice che fosse così immerso nei videogiochi da non badare a nulla. Lo guardavo e comprendevo che il mio compito era solo quello di proteggerlo. Preservarlo dalla rovina materiale e morale che avevamo dinanzi. Portarlo al sicuro, nel corpo e nella psiche. Trovare, creare uno spazio dove offrire questa protezione potesse essere possibile senza interferenza alcuna.
Nessuno esce di casa, ogni attività era chiusa, le strade erano deserte, la Polizia meglio evitarla, gli effetti del trauma avvenuto, che rimane avvolto nel mistero, e di cui si hanno notizie aneddotiche non certe se non incomprensibili riportate da persone inaffidabili, si presumono spaventosi. Ora forse il lettore comincia a capire perché ho voluto raccontargli questo sogno.
Riaccendevo la Monster e inforcavo il viale accanto la stazione. La strada era cambiata, con evidenza l’impatto dell’evento aveva come creato sull’asfalto delle dune, delle paraboliche. Procedevo spedito sul bordo cercando di non perdere l’equilibrio: il bambino era dietro di me, non deve succedergli nulla, specialmente ora.
Tutto era diventato, improvvisamente, pericoloso, potenzialmente mortale. Tutto era caduto in uno stato di desolazione mai visto.
A questo punto la giurìa del mio foro interiore decretava che si era concettualmente passata la soglia che porta all’incubo. Sveglia. Apri gli occhi. Mattino.
Strofinati il volto mettiti seduto a bordo del letto, e ricapitola.
Nessuno esce di casa, ogni attività è chiusa, le strade deserte, la pattuglia meglio evitarla, gli effetti del trauma avvenuto – che rimane avvolto nel mistero e di cui si hanno notizie aneddotiche non certe se non incomprensibili riportate da persone inaffidabili – si presumono spaventosi. Ora forse il lettore comincia a capire perché ho voluto raccontargli questo sogno.
È andata esattamente così. È successo qualcosa che ha devastato il mondo, e con esso le nostre vite. Tanta è la vastità del danno, non abbiamo nessuna certezza riguardo al fenomeno – quella ce l’hanno solo gli idioti, o meglio i covidioti, che ripetono a pappagallo i brandelli di informazione preparati per loro
Ora forse è comprensibile quanto questo sogno assomigli alla realtà di oggi – cioè dall’incubo dal quale non ancora ci siamo svegliati.
È andata esattamente così. È successo qualcosa che ha devastato il mondo, e con esso le nostre vite. Tanta è la vastità del danno, non abbiamo nessuna certezza riguardo al fenomeno – quella ce l’hanno solo gli idioti, o meglio i covidioti, che ripetono a pappagallo i brandelli di informazione preparati per loro.
Non sappiamo cosa sia successo, non sappiamo costa stia succedendo – e soprattutto, esattamente come nel mio sogno, non vi è più percezione diffusa che vi sia qualcuno al comando, né vi può essere fiducia nelle autorità costituite.
È la ricetta del collasso sociale. Lo avevo scritto a marzo, quando si rivoltarono – con morti, di cui però non importa nulla a nessuno – le carceri. La situazione era pronta, bastava una spintarella fatta da qualche interessato. Le prigioni erano in fiamme, a Napoli i ragazzini cominciavano a sfidare la Polizia. A Palermo dissero c’erano strane proteste organizzate nei supermercati. Poi liberarono qualche centinaio di mafiosi dal carcere. Ricordate quei giorni? I momenti del primissimo lockdown. La gente felice di cantare dal balcone, obbligo guanti monouso per chi esce di casa, enigmatici osanna alla Cina untrice da tutte le parti, la Borsa italiana fottuta per l’ennesima volta da Francesi &Co, i permessi di uscire di casa per i cani che pisciano, non per i bambini al parco. La violenza, dapprima avvertita, tuttavia era sparita. Il collasso della Nazione era stato risparmiato. Arcobaleni dipinti a mano sul poggiolo: «Andrà tutto bene».
Non sappiamo cosa sia successo, non sappiamo costa stia succedendo – e soprattutto, esattamente come nel mio sogno, non vi è più percezione diffusa che vi sia qualcuno al comando, né vi può essere fiducia nelle autorità costituite.
Non sono convinto che il pericolo sia passato tuttavia, neanche ora.
Perché quello che ci ha insegnato questo anno indicibile, è che lo Stato moderno è mostruosamente debole. Lo Stato moderno può crollare per un raffreddore: e non metaforicamente.
Poggiando sul nulla, privo di un sostegno etico e di un fine religioso, lo Stato moderno alla prima scossa si sbriciola come le case del mio sogno, mandando tranquillamente in malora tutta la Civiltà.
Quello che ci ha insegnato questo anno indicibile, è che lo Stato moderno è mostruosamente debole. Lo Stato moderno può crollare per un raffreddore: e non metaforicamente
Il vuoto dello Stato moderno lo rende incapace di contenere la violenza, anzi: diventa, nella fase in cui si ammala e muore, un moltiplicatore di violenza, un untore di caos e sangue.
Il crollo della Civiltà è una prospettiva che l’uomo di oggi tenere presente sempre, perché lo Stato moderno e i suoi boiardi la Civiltà non la rispettano, non la comprendono oppure – ai livelli più alti – la combattono, infettandola con la Cultura della Morte, cosicché, come diceva Malthus, carestie e guerre diventano desiderabili per ridurre la popolazione.
La società che viviamo è vacua, stupida, senza scopo. L’Utilitarismo reso unica filosofia umana ha fatto sì che solo il piacere sia contemplato come motore dell’iniziativa umana: per cui ecco che improvvisamente ogni realtà diventa paranoicamente risk-averse, renitente al rischio, incapace di comprendere il male, la possibilità di ammalarsi, la necessità di sacrificarsi.
Il crollo della Civiltà è una prospettiva che l’uomo di oggi tenere presente sempre, perché lo Stato moderno e i suoi boiardi la Civiltà non la rispettano, non la comprendono oppure – ai livelli più alti – la combattono, infettandola con la Cultura della Morte
La natalità, lo abbiamo scritto qui, nel 2020 è crollata. In Italia come ovunque, in USA, in Cina… Ora, senza più nemmeno la continuità organica dell’essere per mezzo della nostra prole, che cosa può salvare il consorzio umano dalla sua distruzione? Con quale molla, possono continuare a vivere restando sani di mente coloro a cui la catastrofe può togliere libertà, passatempi e financo la nutrizione?
Sono domande a cui bisogna filosoficamente e concretamente siamo chiamati a rispondere. Assieme a quelle ancora più stringenti.
Come ci difenderemo? Dove dobbiamo informarci? Come proteggeremo i nostri figli?
L’Utilitarismo reso unica filosofia umana ha fatto sì che solo il piacere sia contemplato come motore dell’iniziativa umana: per cui ecco che improvvisamente ogni realtà diventa paranoicamente risk-averse, renitente al rischio, incapace di comprendere il male, la possibilità di ammalarsi, la necessità di sacrificarsi
Rimango dell’idea che un po’ di preparazione la farei sempre, riguardo al cibo e all’acqua e se hanno i mezzi pure per l’energia elettrica. L’iscrizione al Tiro a Segno Nazionale, per l’esperienza sportiva che offre, la farei. E riguardo alle scuole dei miei figli, un’occhio alle aggregazioni sotterranee di homeschooling (con la legge Lorenzin dal 2017 ne sono sorte tante…) gliela darei.
Per le informazioni: abbiamo creato Renovatio 21 proprio per questo, tentare di dare nel panorama infestato di ogni porcheria una fonte di informazione pulita, che fornisce le cose che bisogna sapere e sappia distinguere le inezie, gli abbagli, le falsità.
La realtà è che Renovatio 21 è nata proprio per resistere a Internet: vogliamo fare sì che essa funzioni anche senza la rete, in parte già lo facciamo, vista le continue censure e shadowban che subiamo da Facebook e probabilmente non solo da quello. Renovatio 21 deve riuscire ad esistere anche in condizione di shutdown totale dei mezzi informatici: ecco perché non ci vedrete organizzare mosaici scemi di camerette e soggiorni su Zoom e Meet; abbiamo sempre preferito la realtà degli eventi dal vivo, e li abbiamo fatti in molta parte del Paese, andando su e già per l’Appennino, la Pianura Padana e perfino le Isole.
Il Messaggio da portare avanti è troppo importante per lasciarlo alla telematica: il messaggio – che è la Vita contro la Morte – richiede che a portarlo avanti siano esseri viventi. Il prima possibile, torneremo a vederci di persona, organizzeremo conferenze, eventi, processioni religiose – come abbiamo fatto prima che il fenomeno si abbattesse sul nostro mondo.
Il Messaggio da portare avanti è troppo importante per lasciarlo alla telematica: il messaggio – che è la Vita contro la Morte – richiede che a portarlo avanti siano esseri viventi
Ora, state tranquilli: Non «andrà tutto bene», perché è già andato tutto malissimo – guardate le piste da sci, guadate i ristoratori, guardate la mia Partita IVA. Non «andrà tutto bene» perché coloro che vi comandano e lo Stato che sostengono è calibrato sulla vostra depauperazione sulla vostra diminuzione numerica, sulla vostra sterilizzazione: è lo Stato moderno, è la Necrocultura al potere. Non domandatevi, quindi, perché questa pandemia duri così a lungo…
Ma notate anche un’altra cosa: la battaglia è ancora aperta, e – guardiamoci negli occhi – persone che vogliono combattere ce ne sono eccome. Non è una cosa così scontata, oggi.
Il quadro, con il nostro sacrificio e con l’aiuto di Dio, può cambiare. Certo, non è facile, è un lavoro, è un’avventura. È costoso, faticoso, tuttavia non negatelo: è eccitante.
La realtà, per quanto gli somigli, non è un brutto sogno. E dobbiamo continuare per trasformare l’incubo che sentiamo di vivere in un remoto ricordo
La realtà, per quanto gli somigli, non è un brutto sogno.
Dobbiamo continuare a battagliare per trasformare l’incubo che sentiamo di vivere in un remoto ricordo.
Nostro figlio è lì sul sedile del passeggero.
Roberto Dal Bosco
Civiltà
La Civiltà è amare i nostri nonni

Francesco Rondolini è collaboratore e «complice» di Renovatio 21 da tantissimi anni. Francesco in questi giorni ha perso la nonna – a lui vanno le nostre più sentite condoglianze. Ci ha mandato questo testo sull’importanza dei nostri vecchi. Lo ripubblichiamo pensando a quanto sia vero, e giusto: il valore dei nonni – loro che hanno curato noi, noi che ora curiamo loro – non va dimenticato. Mai. Perché la Civiltà stessa dipende dall’amore che abbiamo per loro, e loro per noi.
Da sempre ho vissuto con i nonni e i genitori accompagnandoli fino all’ultimo giorno nelle loro rispettive sofferenze. Oggi siamo rimasti io e mia mamma.
Mia nonna, ultima rimasta, all’alba dei quasi cento anni se n’è andata serenamente. D’ora in poi mancherà quella routine giornaliera fatta di faccende domestiche in compagnia dei miei cari fino all’ultimo dei loro giorni, di concerto con il mio lavoro. Accudire e coccolare una persona anziana e bisognosa, è stato un privilegio raro che mi obbliga a ringraziare Dio ogni giorno per il miracolo che mi ha concesso di poterci convivere per oltre quarant’anni.
Un tempo speso per accumulare tradizione, sapienza, affetto, amore, coccole, gioie, ma anche dolori e difficoltà. La missione che mi sono trovato è stata senza apparente scelta: rimanere al fianco delle persone a me più care.
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Dopo la perdita di mia nonna, molte cose sono cambiate in un attimo, primo fra tutte, la fine di un’era della vita. Gli scherzi, i dialoghi mattutini dicendosi sempre le stesse cose, il prendersi cura, l’affetto reciproco, davano quello che è l’essenza stessa della vita, ossia la vicinanza sentimentale, la presenza, la condivisione di un qualcosa che con altri è impossibile condividere.
Una ricorrenza edificata dagli stessi gesti che dettano le giornate e danno un senso profondo alla quotidianità. Il valore prezioso dei nonni, tanto più se vivono nella stessa casa, è incommensurabile. La crescita, l’educazione impartita, in taluni casi persino il lavoro in condivisione, sono tasselli che si aggiungono ad una crescita formativa e spirituale.
In una società utilitaristica come quella in cui viviamo, troppe volte gli anziani appaiono come un peso, un ostacolo ai nostri desideri, un impiccio alla soddisfazione dei nostri effimeri egoismi. L’egoismo come ragion d’essere; «io voglio vivere la mia vita», «pretendo di vivere la mia vita», oscurati da qualsiasi afflato di bontà e carità verso il prossimo.
La disumanità che ci vede lasciare «i fragili» abbandonati a loro stessi, senza una telefonata, senza una visita, senza una carezza, senza una parola di conforto. Tutto questo in una società «moderna e inclusiva» è del tutto inaccettabile, ma evidentemente l’inclusività non deve ledere la mia libertà personale, le mie abitudini, la mia palestra, i miei aperitivi, le mie notti in discoteca, perché «ho bisogno dei miei spazi e devo godermi la vita».
L’effimero che sovrasta il sacrificio della sostanza, un vizio perverso di questo secolo.
Nella «demenza pandemica» dei distanziamenti sociali ci hanno detto che per preservare i nostri nonni dovevamo stargli lontano, isolarli, come dichiarò il capo della sanità dello Stato australiano del Queensland ha detto ai nonni di «non avvicinarsi ai propri nipoti».
Come aveva riportato questo sito, in Giappone uno studio accademico aveva registrato un omicidio ogni otto giorni, spesso accompagnato dal suicidio dal coniuge o del figlio che forniva assistenza domiciliare all’anziano. L’isolamento da COVID portò all’esplosione del problema. Il nodo della carenza di personale qualificato in grado di offrire sostegno, ha sottolineato la difficoltà nel reperire badanti o personale disposto ad aiutarci nella gestione dei nostri cari.
Mi aveva impressionato, sempre su Renovatio 21, la storia di Yusuke Narita, assistente professore di economia a Yale , che ha lanciato una sua proposta per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione giapponese: bassissimo tasso di nascite (come l’Italia) e il più alto debito pubblico nel mondo sviluppato portano il Paese alla prospettiva di non poter reggere il peso delle pensioni. «Sento che l’unica soluzione è abbastanza chiara. Alla fine, non può essere il suicidio di massa e il seppuku di massa degli anziani?»
Il Seppuku è un atto di sventramento rituale che era un codice tra i samurai disonorati nel XIX secolo. Per qualche ragione, in occidente lo chiamiamo harakiri, parola che è scritta con gli stessi ideogrammi ma è di letta in altro modo: il significato è lo stesso, il taglio della pancia, l’autosbudellamento rituale, quello che un po’ in tutto il mondo si conosce come peculiarità del Giappone con i suoi infiniti sensi del dovere.
Sempre qui abbiamo parlato degli abusi e delle violenze tanto che secondo una ricerca dell’Australian Institute of Family Studies (AIFS), quasi un anziano australiano su sei (14,8%) riferisce di aver subito abusi negli ultimi 12 mesi e solo circa un terzo di loro ha cercato aiuto.
L’utilitarismo nel tempo pandemico è arrivato al punto da sostenere che a fronte di un lieve aumento dei casi COVID, in Svizzera – in cui il suicidio assistito è cosa possibile – si tornò a parlare del protocollo medico per affrontare un eventuale sovraffollamento delle terapie intensive. Tale procedura avrebbe provveduto, in caso di scarsità di posti letto, che il medico competente poteva decidere di non accogliere «persone che avevano un’età superiore agli 85 anni» e persone con un’età superiore ai 75 anni che presentavano una di queste patologie: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica al 3º stadio, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e un tempo di sopravvivenza stimato meno di 24 mesi.
La solitudine e l’abbandono degli anziani è un altro annoso problema. I dati ufficiali del governo canadese mostrano che circa la metà delle persone che non sono malati terminali, desideravano porre fine alla propria vita tramite il suicidio assistito di Stato.
L’Europa, l’ex culla della civiltà e della cristianità, per bocca del presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Il politico Luc Van Gorp dichiarò ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.
La chiesa, la quale dovrebbe difendere e diffondere certi valori che inneggiano alla vita, spesso è assente e conforme allo spirito del tempo, anzi, a volte pare complice di certe «pratiche necroculturali» tanto che il Vaticano sembra aver spalancato definitivamente le porte all’eutanasia.
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Fortunatamente non tutti i porporati sono silenti su tali argomenti. L’arcivescovo Nikola Eterovic, nunzio apostolico in Germania, ha messo in guardia dal «suicidio» dell’Europa dovuto alla promozione dell’aborto, dell’eutanasia e dell’ideologia di genere. Monsignor Eterovic ha lanciato l’allarme durante un sermone nel suo paese d’origine, la Croazia, in merito alla grave crisi demografica che sta attraversando la civiltà occidentale, aggiungendo che l’Europa è afflitta da una «Cultura della morte» dovuta all’aborto e all’eutanasia. Vede il crollo demografico nella maggior parte dei paesi europei come un «segno di suicidio».
«La morte, preceduta dai dolori della malattia e dagli spasimi dell’agonia, è la separazione dell’anima dal corpo. Con la morte cessa il tempo della prova e comincia l’eternità», ci ricorda il bellissimo catechismo di San Pio X.
La vita è anche sofferenza e dolore. Non lasciamo i nostri anziani nel dolore dell’animo e della solitudine, non macchiamoci del peccato dell’indifferenza e dell’abbandono.
Io, con la mia nonna, ho fatto quanto dovevo – e non è stato nemmeno un sacrificio. Perché, in ultima, è facile capirlo: la civiltà si fonda davvero sull’amore. Anche quello per i nostri nonni.
Francesco Rondolini
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Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

È morto Shinpei Tominaga, l’imprenditore giapponese – ma italiano d’adozione – colpito da un pugno a Udine mentre tentava di sedare una rissa.
L’uomo è mancato in ospedale dove era tenuto in vita dalle macchine. Il giapponese, che tentava di mettere fine ad un pestaggio che si stava consumando davanti ai suoi occhi, sarebbe stato colpito da un pugno sferrato da un 19enne veneto. Secondo quanto riportato, il ragazzo avrebbe confessato.
Il giovane veneto si sarebbe accompagnato da due amici, uno con un nome apparentemente nordafricano, un altro con un cognome che pare ghanese. Si tratta, secondo una TV locale, di una «banda ben nota», che «all’inizio era una baby gang che ora non è più così baby, anzi, ed è di una grande pericolosità per tutti i cittadini». Il trio si sarebbe scontrato «con due ucraini residenti a Pescara, in città per lavoro in un cantiere edile».
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Secondo RaiNews, il GIP «ha convalidato l’arresto per rissa aggravata di tutti e cinque i partecipanti».
La dinamica dei fatti sarebbe stata ricostruita dalla Questura «grazie ai testimoni e alle telecamere, pubbliche e private», scrive il sito della radiotelevisione pubblica italiana.
«Poco dopo le 3, due dei ragazzi veneti fumano per strada, conversando tranquillamente con i due ucraini. Sopraggiunge il terzo amico e cerca subito uno scontro fisico. Seguono degli spintoni». Uno degli ucraini «viene colpito con un pugno, rovina a terra, dove viene picchiato con pugni, calci e con la sedia di un bar».
«Uno dei tre corre a prendere un coltello da cucina nel bed and breakfast in cui alloggiavano, poco distante».
«Interviene una donna di passaggio, termina la prima fase dell’aggressione. I due ucraini si rifugiano nel vicino ristorante kebab. Vengono inseguiti dai tre ventenni».
È qui che avviene l’incontro fatale con l’imprenditore giapponese.
«Tominaga chiede loro di stare tranquilli, lasciar perdere. Un pugno al volto, e il 56enne cade per terra e sbatte violentemente la testa, finendo in arresto cardiaco». Non basta: sarebbero stati «aggrediti – anche con uno sgabello – i due amici che erano con Tominaga».
«I tre avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
Per quanto riguarda invece gli ucraini, «niente misura cautelare in carcere. Per uno di loro disposto il divieto di dimora in Friuli Venezia Giulia».
A parte il ragazzo che avrebbe sferrato il cazzotto fatale, parrebbe quindi una rissa tra immigrati. Una delle tante che si consumano, finendo al massimo in un trafiletto di cronaca locale (ma spesso neanche quello), in aree urbane oramai divenute preda della prepotenza dei «migranti» – le zone, in cui, generalmente, abbondano di kebabbari.
Stavolta però la notizia sta avendo eco nazionale, perché c’è scappato il morto, sul quale vogliamo dire due parole.
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Con Shinpei – che i giornali chiamano Shimpei, con la «m»: nella lingua giapponese il suono «mp» non esiste, ma non è escluso che se lo fosse italianizzato lui stesso – il nostro Paese non perde poco.
Innanzitutto, ricordiamo il suo lavoro: export di mobili verso il Giappone. Il mobile, in particolare la sedia, trova in Friuli un distretto di eccellenza, distrutto negli ultimi due decenni dalla concorrenza cinese. Tuttavia chi cerca la qualità della manifattura non si può far incantare dalla merce a buon mercato dei mandarini: il popolo del Sol Levante è noto per la sua appassionata pignoleria, da cui proviene il suo rispetto per l’Italia.
Shinpei, quindi, per l’Italia faceva un lavoro inestimabile: teneva in vita l’economia del prodotto di qualità, di per sé una vera resistenza alla globalizzazione, cioè alla cinesizzazione, che ha devastato la piccola e media impresa dell”Alta Italia consegnandoci all’incubo di disintegrazione della classe media e di deindustrializzante che stiamo vivendo.
Di più: Shinpei, che aveva la famiglia in Giappone, in realtà l’Italia la conosceva bene, e con probabilità l’amava davvero. Era cresciuto a Roma, dove il padre Kenichi Tominaga commercializzava i cartoni giapponesi divenuti centrali per l’infanzia di tanti italiani: con Orlando Corradi aveva fondato una casa di distribuzione chiamata Doro TV Merchandising, la cui sigla con il cagnolino è nei ricordi di moltissimi, che vendeva gli anime ai network televisivi pubblici e privati italiani. Goldrake e Conan li ha portati da noi il babbo di Shinpei.
Pezzi di storia, pezzi di relazioni vere, e profonde, tra due Paesi sviluppati, l’Italia e il Giappone, terminati dalla barbarie presente, che ora tocca senza problemi anche le città di provincia.
No, non si è al sicuro anche nella tranquilla cittadina a statuto speciale, nemmeno se sei con tre amici per strada, nemmeno se ti offri di aiutare un ragazzo insanguinato. Quello che ti aspetta, uscito di casa nell’Italia contemporanea, è la morte – un sacrificio gratuito sorto dalla fine della civiltà in Europa.
Su Renovatio 21 abbiamo adottato il concetto, introdotto nei primi anni Duemila dallo scrittore statunitense Samuel Todd Francis (1947-2005), chiamato «anarco-tirannia», cioè quella sorta di sintesi hegeliana in cui lo Stato moderno regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – ma non è in grado, o non è disposto, a far rispettare le leggi fondamentali a protezione degli stessi. La rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate ne sono l’esempio lampante, lo è anche, se vogliamo, il grottesco e drammatico video in cui il poliziotto tedesco attacca il connazionale che stava tentando di contrastare un immigrato armato di coltello, il quale per ringraziamento pugnala e uccide lo stesso poliziotto.
C’èst à dire: nella condizione anarco-tirannica, il fisco ti insegue ovunque, la giustizia ti trascina in tribunale perché non portavi la mascherina o perché hai espresso idee dissonanti, ma se si tratta di fermare il ladro, il rapinatore, etc., non sembra che nessuno, viste le percentuali di reati rimasti impuniti, faccia davvero qualcosa. E qualora prenda il criminale, ben poco viene fatto perché il crimine non sia ripetuto. Nel caso presente, i tre fermati, ribadiamo, «avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».
La legge, le forze dell’ordine, lo Stato non sembrano aver fatto moltissimo per fermare il crimine, e convertire il criminale, che prosegue ad agire come in assenza di un potere superiore a lui – appunto, l’anarchia. Anarchia per i criminali, tirannide per i cittadini comuni, incensurati, onesti, contribuenti. Va così.
Al di là dell’amarezza, è il caso di comprendere cosa significa materialmente – cioè, biologicamente – l’avvio dell’anarco-tirannia per le vostre vite. L’anarco-tirannide produce giocoforza la vostra insicurezza, perché minaccia direttamente i vostri corpi. Lo stato di anarchia è quello in cui, non valendo alcuna autorità, la violenza non può essere fermata.
Se ci fate caso, in tanti teorici dell’anarchia spunta ad un certo punto quest’idea del mondo che va portato verso il baccanale dionisiaco, con l’orgia e la violenza come grottesco strumento per testimoniare la supposta libertà dell’essere umano, slegato da ogni legge anche morale. Non è il caso che gli scritti di uno massimi teorici dell’anarchismo odierno, siano stati accusati di essere pedofili.
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E quindi, uscire di casa, per un bicchiere con gli amici, è di per sé un’azione pericolosa. La strada, la vita quotidiana stessa, diventa una minaccia. È già così in tante aree cittadini: circolarvi di notte è qualcosa di pericoloso. Ecco la formazione delle no-go zones, che sono – se mai ce n’era ulteriore bisogno – la dimostrazione fisica della possibilità di lasciare che si neghi la Costituzione, la nel suo articolo 16 prevede la libera circolazione dei cittadini su tutto il suolo nazionale.
Qui, nel contesto di aggressioni continue e randomatiche, non vi è solo la vostra incolumità fisica, in gioco: c’è la vostra natura morale ad essere pervertita, perché – come nella tragedia di Udine – le virtù cristiane, come tentare di terminare un conflitto o aiutare qualcuno in difficoltà, viene punita con il sangue.
È la fine dello stato di diritto, e al contempo della legge naturale, della fibra morale che unisce la società. È l’instaurazione del regime del più forte, trionfo ideale del nazismo, dove il debole deve accettare di essere sacrificato dall’aggressore vittorioso. È un’espressione che forse avete sentito dire a qualche bullo delle medie quando, oltre che l’obbiettivo, finiva per picchiare qualcun altro: «si è messo in mezzo».
Nel mondo nuovo, decristianizzato dall’immigrazione, dallo Stato e dal papato stesso, chi fa da paciere può finire ucciso. Quindi, meglio farsi gli affari propri, non intromettersi…
«Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione», è un aforisma falsamente attribuito al filosofo settecentesco Edmund Burke, che tuttavia contiene una verità incontrovertibile. In una situazione di rischio fatale, chi mai ha voglia di fare la cosa giusta, e aiutare il prossimo?
Ecco raggiunto il vero scopo del processo dell’anarco-tirannide. Una società atomizzata, dove la paura costante del prossimo, dove l’ansia primaria per la sopravvivenza previene la possibilità della coesione sociale, così da lasciar liberi i padroni del vapore di far quel che vogliono senza timore di resistenza popolare.
Una società divenuta preda del malvagio è una società che può essere manipolata a piacimento. Nessun gruppo umano si oppone ai comandi del vertice, per quanto soverchianti e contraddittori: e lo abbiamo visto in pandemia. Quindi l’anarco-tirannia è, diciamo, una fase del Regno Sociale di Satana.
E quindi, cosa dobbiamo fare?
Quale politica per prevenire che le nostre vite divengano incubi?
Facciamo qualche semplice proposta.
Innanzitutto, si deve andare oltre al rifiuto più assoluto l’immigrazione: si deve chiedere, secondo una parola sempre più usata nel mondo germanofono, la remigrazione. Milioni e milioni di migranti, portati qui per infliggerci questa ingegneria sociale del male, vanno espulsi dal Paese, e questo a costo di svuotare interni quartieri.
Secondo: si deve istituire una forma di punizione dura al punto da essere considerata un vero deterrente: la galera, al momento, non lo è. Ricordiamo che, per quanto possano aver detto preti e papi postconciliari, la pena di morte non è contraria alla dottrina cattolica. E ricordiamo che i lavori forzati, che aiuterebbero economicamente il Paese, darebbero finalmente un senso all’esistenza dei carcerati: in passato si è detto che non è possibile farli lavorare davvero perché nella Costituzione, segnata dalla mentalità sovietica dei padri costituenti PCI permessa dai padri costituenti DC – c’è scritto che il lavoro va retribuito. Noi qui rammentiamo che anche quel tabù lo abbiamo perso: la Costituzione, negli ultimi anni, è stata violata in ogni modo.
Terzo: è necessario che qualcuno si intesti davvero il discorso politico sul porto d’armi inteso come nel concetto americano di carry: vi sono stati americani in cui si ha l’open carry, ossia la possibilità di circolare per strada visibilmente armati, in altri si ha il concealed carry, dove l’arma può essere portata seco quando nascosta. È inutile evitare il pensiero, nella giungla anarco-tirannica, l’unica deterrenza, e oltre l’unica forma di difesa, potrebbe divenire l’essere armati sempre ed ovunque – cosa triste ed orrenda, forse, ma anche qui, va così.
Purtroppo, causa di recenti incresciosi episodi consumatisi nel capodanno di parlamentari di Fratelli d’Italia, è difficile che il governo Meloni voglia avventurarsi in questa direzione, che pure dovrebbe essere la sua. C’è da ringraziare chi, secondo quanto ricostruito, avrebbe avuto l’idea geniale di tirare fuori una pistola in pubblico…
Quanto ai tempi che ci aspettano, abbiamo iniziato a scriverne un paio di anni fa. Quando terminerà la guerra ucraina, una quantità di veterani di Kiev, tra cui i molti tatuati neonazisti, potrebbero finire da noi. Forse esiliati, forse solo in tour a trovare la mamma, la zia, la sorella badante. Difficile che, a questo punto, quei ragazzi non si raggrupperanno in bande amalgamate da lingua, storia, esperienza (chi ha fatto la guerra insieme, non si molla mai) e credenza fanatico-religiosa nell’ideale ucronazista.
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C’è da dire che forse arriveranno anche armati, perché la quantità di armi inviate da USA e Paesi NATO – già finite a mafie in Finlandia, in Spagna, ai narcos in Messico, ai terroristi in Siria – è talmente vasta che qualcosa resterà con loro. A differenza del tranquillo contribuente italiano, la futura banda post-bellica – fenomeno cui abbiamo assistito negli anni Novanta con i gruppi di veterani della guerra di Bosnia che assaltavano le ville – sarà armata fino ai denti.
La situazione che si ingenererà per la giungla fuori da casa vostra ha un nome: gli strateghi dell’ISIS, nel loro mirabile manuale, la chiamavano Idarat at-Tawahhus, cioè «gestione della barbarie», o «gestione della ferocia».
I jihadisti teorici dello Stato Islamico concepivano il crollo di uno Stato come l’apertura di possibilità immani: dopo una prima fase che definivano «vessazione e potenziamento» – dove si estenua la popolazione di un territorio con estrema violenza e paura – si fa partire una seconda fase, dove, sulla scia del crollo dell’ordine dello Stato e l’instaurazione di una «legge della giungla» sempre più belluina, prevale tra i sopravvissuti pronti ad «accettare qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia composta da persone buone o cattive».
Appunto: «fatti gli affari tuoi». «Non ti immischiare».
Siamo davvero disposti ad accettare la trasformazione della società in un incubo satanico?
Davvero vogliamo assistere alla fine della civiltà guardando inani dalla finestra, e pregando che il caos non arrivi a trucidare anche noi ed i nostri cari?
Quali gruppi umani possono davvero opporsi a questo processo di morte e distruzione?
Domande a cui bisogna rispondere quanto prima. Nel frattempo, le brave persone, gli innocenti, i virtuosi, vengono ammazzati, sacrificati all’altare dell’anarco-tirannide progettata per sottomettervi.
Roberto Dal Bosco
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Immagine d’archivio generata artificialmente
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