Cina
Taiwan al voto: vince, ma non trionfa, il democratico William Lai

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Il vice-presidente uscente William Lai è accreditato di oltre il 40% delle preferenze. Un vantaggio netto rispetto al 33,4% e al 26,5% dei rivali Hou Yu-ih e Ko Wen-je (e il 65% delle schede scrutinate). Sul voto pesa però l’incognita dei risultati in Parlamento, in cui vi è maggiore equilibrio e saranno determinanti i voti del TPP. Alta affluenza a oltre il 70%,
Una vittoria, ma non un trionfo, per il vice-presidente uscente Lai Ching-te, meglio noto come William Lai, leader del Partito democratico progressista (DPP) in testa con oltre il 40% delle preferenze: sembra essere questo il risultato che si profila alle elezioni presidenziali e parlamentari tenute oggi a Taiwan, in cui è in gioco il futuro dell’isola e i rapporti di forza con Pechino.
Un voto al quale guarda con attenzione anche buona parte della comunità internazionale, soprattutto fra le cancellerie occidentali in primis negli Stati Uniti, ma che si è svolto regolarmente a partire dall’affluenza che mostra dati da record. E che differenzia, una volta di più, l’isola considerata «ribelle» dalla Cina e, soprattutto, da Hong Kong in cui l’ultima tornata elettorale ha evidenziato un elevato astensionismo con l’adesione dei soli «patrioti» filo-cinesi.
Con almeno il 65% delle schede scrutinate, e uno spoglio che procede a ritmi serrati, il candidato del Partito democratico progressista ottiene oltre il 40% dei voti validi, staccando i rivali Hou Yu-ih (KMT) e Ko Wen-je (TPP) fermi rispettivamente al 33,4% e al 26,5%. Un dato certamente parziale, ma che appare destinato alla conferma quando i dati saranno ufficiali e le schede scrutinate.
Il prossimo presidente di Taiwan sarà determinante nell’orientare le relazioni con Pechino e Washington, visto che l’isola è da tempo una fonte di scontro e un elemento chiave nella lotta per l’egemonia – economica e diplomatica – nella regione Asia-Pacifico.
Da tempo la Cina, soprattutto negli ultimi anni con il potere concentrato nelle mani del presidente Xi Jinping, rivendica il territorio; sul fronte opposto, sotto la leadership nell’ultimo quadriennio di Tsai Ing-wen e del Dpp i rapporti fra le parti hanno registrato un ulteriore inasprimento, con la Cina che nel 2023 ha intensificato la pressione militare con un numero record di incursioni.
Qualsiasi escalation tra Cina e Taiwan rischia di trasformarsi in uno scontro più ampio a livello militare ed economico, con il coinvolgimento degli Stati Uniti che hanno una cospicua presenza navale nella regione, oltre ad Australia e Giappone anch’essi opposti a Pechino. L’area riveste anche una grande importanza a livello commerciale, con il transito di quasi la metà delle navi porta-container al mondo attraverso lo Stretto di Taiwan.
Quella odierna è l’ottava tornata elettorale dalla fine della legge marziale nel 1987 e dalla prima elezione diretta nel 1996, in cui si sceglie il sesto presidente in una lotta aperta fra «indipendentisti» e fautori del «dialogo» con Pechino. Ed è proprio la sfida all’autonomia e ai principi di libertà democratica quella cui si è appellato e ha portato avanti nel corso del suo mandato il presidente uscente Tsai Ing-wen, che aveva vinto l’ultima tornata col 57% dei consensi.
Al voto sono chiamati i circa 19,5 milioni di cittadini con almeno 20 anni, su una popolazione di 23 milioni di abitanti; i seggi sono rimasti aperti dalle 8 alle 16 ora locale. I dati sull’affluenza mostrano una partecipazione superiore al 70%, un dato assai significativo sebbene in leggero calo rispetto al record del 75% circa alle ultime elezioni (mentre si era registrato il 66,2% nel 2016).
Col presidente gli elettori scelgono anche i membri dello Yuan, il Parlamento, che conta 113 seggi: 73 sono assegnati col sistema maggioritario al candidato più votato in ciascuno dei distretti, 34 sono divisi in proporzione tra i partiti che superano la soglia di sbarramento del 5%, sei sono riservati a rappresentanti della popolazione indigena.
Ed è proprio in Parlamento che si giocherà la partita degli equilibri di potere: infatti il democratico William Lai pur avendo battuto il candidato del Kuomintang – vicino a Pechino – Hou Yu-ih non potrà contare su una solida maggioranza dei deputati. Con tutta probabilità sarà il terzo incomodo, l’ex sindaco di Taipei Ko Wen-je che si era proposto come «l’unico candidato accettabile sia per la Cina sia per gli Stati uniti», a determinare rapporti di forza e influire sulle scelte future dell’isola.
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Cina
Pechino dichiara guerra al fumo

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Cina
La Cina impone controlli sulle esportazioni di tecnologie legate alle terre rare

Il ministero del Commercio cinese, ha annunciato il 9 ottobre che imporrà controlli sulle esportazioni di tecnologie legate alle terre rare per proteggere la sicurezza e gli interessi nazionali. Lo riporta il quotidiano del Partito Comunista Cinese in lingua inglese Global Times.
Questi controlli riguardano «l’estrazione, la fusione e la separazione delle terre rare, la produzione di materiali magnetici e il riciclaggio delle risorse secondarie delle terre rare». Le aziende potranno richiedere esenzioni per casi specifici. In assenza di esenzioni, il ministero della Repubblica Popolare obbligherà gli esportatori a ottenere licenze per prodotti a duplice uso non inclusi in queste categorie, qualora sappiano che i loro prodotti saranno utilizzati in attività connesse alle categorie elencate.
Il precedente tentativo del presidente statunitense Donald Trump di avviare una guerra tariffaria con la Cina si è rivelato un fallimento, principalmente a causa del dominio preponderante della Cina nell’estrazione e nella lavorazione dei minerali delle terre rare. Delle 390.000 tonnellate di ossidi di terre rare estratti nel 2024, la Cina ne ha prodotte circa 270.000, rispetto alle 45.000 tonnellate degli Stati Uniti, e detiene circa l’85% della capacità di raffinazione globale.
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La decisione odierna della Cina avrà certamente un impatto a Washington, soprattutto in vista dell’incontro tra i presidenti Donald Trump e Xi Jinping previsto per fine mese. Oggi si è registrata una corsa all’acquisto delle azioni di MP Materials, il principale concorrente statunitense della Cina nella produzione di terre rare.
All’inizio dell’anno, il dipartimento della Difesa statunitense aveva investito in MP Materials, dopo che Trump aveva evidenziato il divario tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia, tale investimento è stato considerato insufficiente e tardivo.
Come riportato da Renovatio 21, nel 2024 i dati mostravano che i profitti sulla vendita delle terre rare cinesi erano calati. È noto che Pechino sostiene l’estrazione anche illegale delle sostanze anche in Birmania.
Secondo alcune testate, tre anni fa vi erano sospetti sul fatto che il Partito Comunista Cinese stesse utilizzando attacchi informatici contro società di terre rare per mantenere la sua influenza nel settore.
Le terre rare, considerabili come sempre più necessarie nella corsa all’Intelligenza Artificiale, sono la centro anche del turbolento accordo tra l’amministrazione Trump e il regime di Kiev.
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Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia
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Trump: gli USA imporranno dazi del 100% alla Cina

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