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Prime note sull’obiezione di coscienza all’obbligo vaccinale

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Da sempre, allorché il legislatore intervenga a disciplinare una materia che investe principi fondamentalissimi aventi a che fare con l’essenza stessa dell’uomo, si pone il problema del possibile conflitto tra la norma positiva e la legge naturale. L’ordinamento giuridico contempla questo possibile conflitto e lo compone attraverso l’istituto della obiezione di coscienza, il quale, a determinate condizioni, valorizza l’imperativo interiore che si ponga in contrasto con il comando dell’autorità.

 

Le caratteristiche della fattispecie delineata dal dl 44/2021 sono tali da ritenere senz’altro esercitabile il diritto all’obiezione di coscienza contro l’imposizione dell’obbligo vaccinale.

 

 

L’articolo 4 del decreto legge 44/2021 rappresenta un attacco frontale non soltanto a fondamentali garanzie costituzionali (in primis, diritto alla salute, diritto all’autodeterminazione terapeutica, diritto al lavoro) e ai principi generali di libertà che informano l’ordinamento positivo ma, ancor prima, al nucleo essenziale di valori che precede le contingenti norme scritte e che integra, rispetto ad esse, un criterio autonomo e superiore di giudizio. Sì che al loro destinatario deve ritenersi lecito, in base a quel criterio, sindacare la giustizia sostanziale delle norme stesse ed eventualmente, in coerenza col proprio orizzonte morale, sottrarsi alla loro applicazione.

 

Il citato articolo, com’è noto, stabilisce per il personale sanitario un obbligo, anche se indiretto – in quanto assistito da sanzioni che incidono sul diritto al lavoro fino a travolgerlo –, di sottoporsi alla cosiddetta «vaccinazione» anti COVID 19, ovvero di subire l’inoculazione di un farmaco tuttora in fase di sperimentazione

 

Premesso che i prodotti in questione portano un nome non corrispondente alla funzione tipica che a quel nome si riferisce, non è revocabile in dubbio che di tutti i nuovi «vaccini» si ignorino (per ovvie ragioni) i possibili effetti avversi a medio e lungo termine, e che la quantificazione e la stima degli effetti avversi a breve termine dipenda dalle segnalazioni registrate a seguito della somministrazione su larga scala, che è in corso.

 

Così come è notorio, allo stato, essere questione irrisolta tanto se il vaccinato sia suscettibile di essere infettato e con quale probabilità ciò si verifichi, quanto se egli sia in grado di infettare altri e con quale contagiosità.

 

Allo stato prevarrebbe la teoria che al «vaccino» si possa ricondurre una funzione di protezione individuale verso le forme gravi della malattia, ma non una funzione di impedimento alla propagazione.

 

Senza contare, inoltre – visto che già si preannunciano come ineludibili ulteriori innumerevoli richiami e nuove vaccinazioni in conseguenza della presunta diffusione delle cosiddette varianti (1.200.000 ad oggi) – che del tutto incerti appaiono anche i tempi della (eventuale) protezione conferita dal trattamento. Si parla di richiami a sei mesi dalla seconda dose, per inseguire le varianti.

 

È pacifico, insomma, come quelli imposti ex lege ai sanitari siano farmaci dalla efficacia e dal grado di rischio in gran parte sconosciuti – lo dichiarano apertis verbis le stesse case produttrici – e rimesse agli esiti della attuale sperimentazione. 

 

L’ampio margine di incertezza, e correlativamente di rischio, connesso alla somministrazione di questi «vaccini», dipende anche dal carattere innovativo delle tecnologie messe in campo per la loro produzione. Tema cui è connesso quello degli ingredienti utilizzati in fase di sperimentazione e/o produzione dei medesimi, che spalanca questioni di imponente rilievo etico-morale, in particolare a causa dell’impiego di linee cellulari sia di origine animale sia ricavate da aborti.  

 

Già solo alla luce di queste scarne ma incontestabili considerazioni, appare evidente come l’obbligo introdotto tramite decretazione d’urgenza, a prescindere dalla sua sfera di incidenza e dalle condizioni della sua operatività – l’una e le altre nient’affatto chiare secondo il dettato della norma –, non possa che scontrarsi con irrinunciabili motivi di coscienza, tali da non ammettere di essere elusi o misconosciuti dall’istituzione e tali da essere in grado di fondare, per la loro rilevanza oggettiva, un interesse giuridicamente tutelato in capo a chiunque intenda farsene portatore al fine di evitare di sottoporsi alla somministrazione del farmaco o (eventualmente) di inocularlo a terzi.

 

Il rifiuto di obbedire a un precetto dalle implicazioni tanto gravi ripropone il tema fondamentale del conflitto tra la norma positiva e la fedeltà a convinzioni profonde che neghino, di quella, il fondamento di valore; conflitto che riflette l’antico problema del rapporto tra norme scritte e norme non scritte, cioè del nesso sempre pericolante tra legge e giustizia, tra nomos e dike.

 

È il riconoscimento di questa possibile dicotomia, insieme all’esigenza di una sua composizione in seno al sistema, ad aver dato origine, negli ordinamenti moderni, all’istituto della obiezione di coscienza. Esso si delinea quale figura di contraddizione intrinseca al diritto, ma ugualmente da esso codificata a difesa di principi superiori considerati come insopprimibili.

 

In altri termini, con la valorizzazione della personalità e quindi della libertà dell’individuo, il conflitto tra nomos e dike, ovvero tra diritto positivo (quello che trova in se stesso e nella autorità costituita il proprio fondamento) e legge naturale (criterio guida superiore dei comportamenti umani) si risolve nella tensione tra nuclei di interessi contrapposti: da una parte l’interesse contingente tutelato dalla norma generale; dall’altro l’interesse valorizzato volta per volta dalla coscienza individuale – in quanto legato a un’intima esigenza di contenuto morale – capace di assumere rilevanza proprio in quanto ancorato a dei parametri oggettivi assoluti. Al riparo dunque dall’arbitrio, dall’ideologia, dalla convenienza o da ogni asfittico interesse individualistico. 

 

Un fenomeno per certi versi analogo a quello che, nel diritto penale, si verifica con il sistema delle cause di giustificazione del reato, tipicamente la legittima difesa e lo stato di necessità. Dove, nel bilanciamento degli interessi in gioco, ben si coglie come, a contrastare la norma incriminatrice, debba porsi un valore riconoscibile come oggettivo, capace di prevalere, per forza propria, su quello tutelato dalla fattispecie penale. 

 

 

Il legislatore italiano ha previsto espressamente varie ipotesi di obiezione di coscienza, in ambiti tra loro molto diversi.

 

  • La prima ipotesi, introdotta dalla legge 772/1972 (poi abrogata nel 1998 in seguito alla abolizione della leva obbligatoria), riguardava il servizio civile in sostituzione di quello militare. I motivi di coscienza dovevano essere attinenti «ad una concezione generale basata su profondi convincimenti religiosi, o filosofici, o morali professati dal soggetto».

 

  • Nel 1978 è intervenuto il caso esemplare dell’obiezione di coscienza previsto della legge 194 «Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza», dove l’evidenza dell’interesse collettivo alla conservazione e alla difesa della vita umana ha determinato, e determina, il diritto riconosciuto agli operatori sanitari di sottrarsi alle pratiche abortive. 

 

  • Pressoché sovrapponibile a quella appena riferita, l’ipotesi di obiezione contenuta nella legge 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita. Anche in questo caso il personale sanitario obiettore «non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale».

 

  • Nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso si collocano poi le Intese (successivamente trasfuse in legge) tra lo Stato Italiano e alcune confessioni religiose, come le Comunità Israelitiche Italiane, dove viene espressamente trattato il tema della libertà di coscienza riconoscendosi, per esempio, il diritto degli ebrei a osservare il riposo sabbatico.

 

  • Ma la fattispecie più rilevante ai fini dell’argomento in questione è quella introdotta dalla legge 413 del 1993 recante «Norme sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale» il cui primo articolo, intitolato «Diritto all’obiezione di coscienza», enuncia solennemente: «I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi, possono dichiarare la propria obiezione di coscienza ad ogni atto connesso con la sperimentazione animale». 

 

Significativo l’ultimo comma dell’art. 3, che suona: «Tutte le strutture pubbliche e private legittimate a svolgere sperimentazione animale hanno l’obbligo di rendere noto a tutti i lavoratori e gli studenti il loro diritto ad esercitare l’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Le strutture stesse hanno inoltre l’obbligo di predisporre un modulo per la dichiarazione di obiezione di coscienza alla sperimentazione animale a norma della presente legge».

 

Per concludere con l’art. 4, intitolato «Divieto di discriminazione», che merita di essere riportato integralmente:

 

«1. Nessuno può subire conseguenze sfavorevoli per essersi rifiutato di praticare o di cooperare all’esecuzione della sperimentazione animale. 2. I soggetti che ai sensi dell’art. 1 dichiarino la propria obiezione di coscienza alla sperimentazione animale hanno diritto, qualora siano lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ad essere destinati, nell’ambito delle dotazioni organiche esistenti, ad attività diverse da quelle che prevedono la sperimentazione animale, conservando medesima qualifica e medesimo trattamento economico. 3. Nelle università gli organi competenti devono rendere facoltativa la frequenza alle esercitazioni di laboratorio in cui è prevista la sperimentazione animale. All’interno dei corsi sono attivate, entro l’inizio dell’anno accademico successivo alla data di entrata in vigore della presente legge, modalità di insegnamento che non prevedano attività o interventi di sperimentazione animale per il superamento dell’esame. Le segreterie di facoltà assicurano la massima pubblicità del diritto all’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale». 

 

Quest’ultimo tema della discriminazione degli obiettori di coscienza, espressamente disciplinato dalla citata legge 413/1993, era già emerso con la legge 772/1972 di cui sopra, che in origine effettivamente discriminava quanti rifiutassero la leva obbligatoria, stabilendo che essi dovessero prestare servizio «per un tempo superiore di otto mesi alla durata del servizio di leva cui sarebbero stati tenuti». La norma fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 470 del 1989, perché «la differente durata del servizio sostitutivo rivestirebbe chiaramente quel significato di sanzione nei confronti degli obiettori che già si è stigmatizzato, ledendo, altresì, i fondamentali diritti tutelati dal primo comma dell’art. 3 e dal primo comma dell’art. 21 della Costituzione, in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».

 

[In tale quadro, del tutto irragionevoli per carenza dei presupposti di fatto, quanto inique in una prospettiva sistematica, appaiono le misure a carattere sanzionatorio previste dal dl 44 e volte a coartare la volontà dei destinatari della norma: esse infatti sono foriere di una evidente disparità di trattamento, e quindi una ingiusta discriminazione, tra quanti ottengano una certificazione di esenzione per accertato pericolo per la salute (ex art. 4 co. 2); e quanti, per qualsiasi motivo e anche a parità di condizioni, ne permangano sprovvisti. I primi, infatti, potranno continuare a svolgere il proprio lavoro, eventualmente adibiti a mansioni diverse e previa eventuale integrazione dei presidi di sicurezza personali, in ogni caso senza decurtazione della retribuzione (art. 4 co. 10 e 11); mentre i secondi saranno costretti a subire il demansionamento o la sospensione e quindi, rispettivamente, la decurtazione o il venir meno della retribuzione (art 4 co. 6 e 8)].

 

A margine del quadro legislativo riguardante l’obiezione di coscienza, pare rilevante menzionare la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che, con sentenza numero 29469 del 4/12/2020, ha accolto il ricorso di una paziente testimone di Geova trasfusa contro la sua volontà.

 

La Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «Il testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita».

 

Con ciò, la Cassazione ha riconosciuto le ragioni della parte attrice secondo cui «il rifiuto delle emotrasfusioni espresso da un testimone di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza, radicata in ragioni religiose»; sì che «non si tratta solo di rispettare il corpo nella sua fisicità, ma la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici, religiosi»: l’osmosi dei due principi costituzionali – quello di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e quello alla libera professione della propria fede religiosa – non incontrerebbe quindi alcuna necessità di bilanciamento con principi di segno contrario (inclusa la tutela della salute e della stessa vita).

 

Per tutto quanto sopra esposto, la posizione propria dei sanitari di fronte alla recente imposizione in via di urgenza dell’obbligo di sottoporsi a un trattamento sanitario si inscrive nel quadro di una obiezione di coscienza legittima, perché del tutto coerente con i principi incardinati nell’ordinamento e ormai pienamente consolidati. Essa non potrà non essere riconosciuta anche dal diritto positivo, o attraverso un urgente intervento del Parlamento in sede di conversione in legge, o di caducazione in toto del decreto. 

 

Le ragioni, di ordine morale o filosofico, legittimatrici del diritto di sottrarsi al comando normativo appaiono invero inconfutabili. Se infatti l’obiezione prevista per la sperimentazione sugli animali fa leva sulla esigenza morale di non contribuire a ridurre questi a meri strumenti materiali, a maggior ragione tale esigenza vale per l’uomo, chiamato a mantenere in ogni caso la propria dignità di essere superiore moralmente razionale: la protesta degli operatori sanitari poggia quindi su ragioni inoppugnabili di difesa della dignità umana propria, e di chiunque sia indotto ad assumere un ruolo di cavia inconsapevole in ciò che si configura come un vero e proprio procedimento di sperimentazione di massa. Ridurre un qualunque essere umano ad oggetto di sperimentazione, travalicando la sua volontà libera, attuale e informata, significa reificarlo e segnare in tal modo un salto di qualità incommensurabile anche a fronte dell’uso delle cavie animali; tale da profanare quella bandiera della dignità umana che sventola da decenni in tutte le carte, interne e sovranazionali, dei diritti.

 

L’opposizione dei sanitari acquista così un valore che trascende la categoria, perché riguarda tutti e impone a tutti di ricordare cosa abbia potuto significare la sperimentazione sull’uomo nel tempo in cui era praticata, con il consenso politico, da un certo dottor Mengele di cui ultimamente si sente parlare sempre meno. 

 

Del resto, è evidente come le prospettive aperte oggi dalla ricerca scientifica e l’avanzamento tecnologico incontrollato non possano che generare, sempre più, nuove occasioni di conflitto tra le normative di riferimento e incomprimibili esigenze morali.

 

Sì che, di fronte a inedite realtà giuridicamente rilevanti, si profilano e devono di necessità trovare riconoscimento anche nuove istanze oppositive coerenti con i principi fondamentalissimi radicati nella natura umana e, per questo, meritevoli continuativamente di presidiare il diritto.

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

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Vaccini fatti con aborti. Ricordiamolo ancora una volta

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I vaccini e l’aborto sono strettamente legati. Dobbiamo ricordarlo sempre.

 

Si tratta di una delle prime battaglie di Renovatio 21, che precede di diversi anni la pandemia: prima che vi fosse il COVID e il siero mRNA, c’era l’obbligo dei vaccini pediatrici, anche quelli macchiati dall’uso di linee cellulari da feti abortiti, cioè da esseri umani innocenti sacrificati.

 

Ne abbiamo parlato tanto, e in ogni modo: articoli, conferenze, convegni. Ci è costato: le prime segnalazioni da parte di enti stranieri contro Renovatio 21 partirono prima del coronavirus, molto prima che i ban sui social fossero la norma. Dicevano che quella dei vaccini fatti con gli aborti era una falsità, e, incredibile, pareva ci credessero davvero – nonostante il bugiardino scrivesse MRC-5 o WI-38 o HEK-293, etc.

 

All’ammucchiata negazionista aderì ufficialmente, casualmente a ridosso della legge che toglieva ai bimbi non vaccinati la possibilità di frequentare l’asilo (con catastrofi famigliari-professionali conseguenti), anche il Vaticano bergogliano, che sapendo che dire la menzogna è peccato, optò per una teologia del peccato-yogurt: la nota congiunta uscita da vari enti ecclesiastici nel luglio 2017 diceva che sì, è vero, quei vaccini sono fatti con gli aborti, ma si tratta di aborti «lontani nel tempo»… in pratica, il peccato connessovi è scaduto, come un latticino uscito dal frigo. L’omicidio dell’innocente va teologicamente in prescrizione: abbiamo visto anche questa.

 

Abbiamo in ogni modo tentato di combattere, da subito, questo abominio: perché ci sembrava qualcosa di mostruoso, o ancora di più, di rivelatore. Volevano che i bambini fossero macchiati, sottopelle (tatuati, sarebbe da dire, ma i tattoo non sconvolgono il sistema immunitario), con materia che proviene dall’assassino dei loro simili. E senza quel marchio, nessun accesso, nesso diritto, multe, derisione, accuse, stigma sociale. Il mondo avrebbe imparato presto che quello era solo il test drive per quanto sarebbe successo con il virus cinese e il conseguente ribaltamento della società (non più uno stato di diritto, ma uno Stato cui sei sottomesso, verso cui non hai potere, e da cui puoi sperare solo concessioni, «accessi»).

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Renovatio 21 aveva organizzato nel marzo 2019 a Roma un convegno internazionale, «Fede, Scienza e Coscienza», tutto incentrato sul problema delle linee cellulare dei feti abortiti.

 

Grazie al lavoro inesausto di Cristiano Lugli, riuscimmo a far arrivare a Roma lo scienziato che più di ogni altro ha studiato il tema della presenza di materiale cellulare di feto abortito nei vaccini e i suoi effetti deleteri sulla salute dei bambini, la dottoressa Theresa Deisher, una rinomata ricercatrice con tanti paper e brevetti realizzati nella sua carriera nella scienza biomedica. Il suo intervento al convegno di Roma è ancora visibile sul nostro canale YouTube – finché dura.

 

Siamo stati felici di rivedere la dottoressa Deisher ripetere questa incontrovertibile realtà – i vaccini sono fatti con gli aborti esistono e sono fra noi  – in un video di Highwire, la testata di Del Bigtree, giornalista sodale di Robert F. Kennedy jr. Abbiamo pensato di sottotitolarlo, e di dividerlo in parti, per renderlo più fruibile online.

 

L’intervista è strutturata con domande e risposte. Molte cose fondamentali della questione – cose per le quali il mainstream normaloide della massa vaccina si tappa le orecchie e inizia ad urlare per non sentire – sono spiegate benissimo, e molto sinteticamente.

 

 

Cosa esattamente c’è in un vaccino?

«Un vaccino è costituito da un virus. Il virus è una lunga catena di acido nucleico. E l’acido nucleico è ciò che costituisce il nostro DNA e RNA. È troppo lungo da fare in provetta. Così noi imitiamo il modo che ha la natura di propagare e far crescere un virus e infettiamo le cellule».

 

È vero che ci sono feti abortiti nei vaccini?

«Quello che c’è nel prodotto finale, quando utilizziamo cellule che sono state create da un feto abortito, sono frammenti di DNA fetale umano e detriti cellulari. E a livelli abbastanza alti».

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Come fanno gli scienziati a procurarsi il tessuto fetale?

«Esistono società di procurement che lavorano fianco a fianco con gli abortisti, tipicamente nello stesso edificio».

 

«Quello che succede è che il cuore entra effettivamente in condizione di contrattura. È una volta che ciò accade, non è possibile ricavarne dati validi. Non puoi ottenere cellule che funzioneranno. Quindi il tessuto diventa davvero inutile. Deve essere espulso e messo in conservante che ferma il cuore entro 2 minuti».

 

«Il bambino deve nascere vivo o altrimenti non potranno prendere il cuore velocemente e inserirlo correttamente nella soluzione bloccante, in modo che possano conservarlo per l’elaborazione».

 

 

I feti sono ancora vivi dopo l’estrazione?

«Beh, un feto nato intatto è sicuramente morto quando gli strappano via il cuore. Non gli viene somministrato alcun anestetico. Non farei mai una cosa del genere ad un topo o ad un ratto».

 

«Non sarei sorpresa se in un futuro non così lontano potremo ottenere dei numeri concreti che mostrano come gli aborti vengano ritardati sempre di più, in modo che gli scienziati e le società di procurement possono ottenere un tessuto migliore e più a termine».

 

I feti sono ancora usati per fare i vaccini? Molti dicono che hanno fermato questa pratica negli anni Settanta?

«Non è una vecchia tecnica, alcune delle linee cellulari che utilizzano per la produzione di vaccini sono state realizzate negli anni Settanta. Stanno iniziando a deteriorarsi. Quindi in realtà è necessario creare nuove linee cellulari per sostituirle».

 

«Ogni giorno, bambini abortiti vengono predati e sfruttati per la ricerca biomedica, e la pratica continua perché chiudiamo gli occhi sull’etica dei vaccini… per le persone che non condividono il nostro orientamento morale non c’è alcuna differenza tra un aborto effettuato nel 1970 e l’aborto fatto ieri».

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Usare cellule fetali umane nei vaccini è pericoloso?

«Sappiamo con certezza che i livelli di DNA di questi vaccini che entrano nel flusso sanguigno dei nostri bambini talvolta superano 100 volte i livelli di DNA fetale che, è stato dimostrato, attivano in modo massiccio la risposta immunitaria, causando il rilascio generale di citochine, e le citochine sono tossine. E stiamo dando ai bambini concentrazione da 10 a 100 volte più elevate. Sappiamo assolutamente che il recettore TLR9 si attiva».

 

«Le aziende farmaceutiche non hanno mai misurato il rilascio di citochine. E non hanno mai misurato un livello così acuto di risposta autoimmune».

 

 

Cosa possono fare i genitori per informarsi sui rischi del vaccinare i propri figli?

«Come minimo, leggete un po’ il foglietto illustrativo, e vedrai gli effetti collaterali riconosciuti. Ciò potrebbe accadere al tuo sanissimo, normalissimo bambino».

 

«Fai una valutazione del rischio: tuo figlio è a rischio di questa malattia? Se dovesse contrarla, quali sono le conseguenze di contrarre questa malattia? È così tremendo, oppure possiamo gestirlo bene dal punto di vista medico in modo che nostro figlio stia bene?

 

Come i genitori dovrebbero parlarne ai pediatri?

«Vorrei incoraggiare tutti i genitori a chiedere al proprio medico come l’immunità è causata da un vaccino. E se il tuo medico non ti parla dei recettori Toll-like, allora anche il tuo medico non sa nulla riguardo all’immunità, riguardo alla virologia, che è vaccinologia, oppure non ti sta dicendo la verità».

 

«Dovresti chiamare un dottore che sappia di cosa si sta parlando. O che ti dice la verità».

 

 

Sono parole giuste, e incontrovertibili.

 

Riguardo al tema di aborto e vaccini, e sempre bene, ogni tanto, ricordarci questo abominio, richiamare alla mente l’aberrazione biologica e morale a cui vogliono sottomettere noi e la nostra prole.

 

Noi dimentichiamo mai l’orrore in cui siamo immersi. E la battaglia che dobbiamo fare per uscirne.

 

Grazie, dottoressa Deisher.

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Linee cellulari

La famiglia di Henrietta Lack si accorda con un’azienda di biotecnologie per i profitti della linea cellulare

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge. Della linea cellulare HeLa Renovatio 21 ha trattato in diversi articoli. Con le cellule HeLa vengono prodotti, ancora oggi, vaccini – anche per il COVID, come nel caso del CureVac. Secondo alcuni, la pervasività di tali cellule è tale da aver rovinato gli sforzi dell’amministrazione Nixon nella sua «guerra contro il cancro»: le cellule HeLa avevano di fatto contaminato e divorato tutte le altre linee cellulari, persino quelle nascoste in laboratori segreti – arrivando perfino nelle strutture nascoste dell’Unione Sovietica, con relative paure di incidenti diplomatici da Guerra Fredda. Le caratteristiche della linea cellulare hanno portato alcuni ricercatori a chiedere alla scienza di classificare le cellule HeLa come nuova tipologia di essere vivente.     In una risoluzione storica che sottolinea le complesse questioni etiche che circondano la ricerca medica e il profitto, la famiglia di Henrietta Lacks, le cui cellule hanno alimentato progressi medici rivoluzionari per decenni, ha raggiunto un accordo con la società di biotecnologie Thermo Fisher Scientific.   La famiglia Lacks aveva accusato l’azienda di capitalizzare sulle sue cellule, note come HeLa, senza ottenere il loro consenso.   Henrietta Lacks, una madre afroamericana di cinque figli, ha inconsapevolmente contribuito a un’eredità medica senza precedenti quando, nel 1951, i medici del Johns Hopkins Hospital hanno prelevato un campione delle sue cellule tumorali cervicali a sua insaputa o senza il suo permesso.   Le cellule, un’anomalia unica, sono state le prime a riprodursi con successo al di fuori del corpo umano, spingendo la ricerca medica in un territorio inesplorato. Queste cellule hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo di vaccini per la poliomielite e il coronavirus, nonché trattamenti per disturbi tra cui il cancro, il morbo di Parkinson e l’influenza.   Tuttavia, la famiglia Lacks rimase all’oscuro dell’impatto monumentale delle celle di Henrietta per più di due decenni. La causa, intentata nel 2021 presso un tribunale distrettuale degli Stati Uniti nel Maryland, accusava Thermo Fisher Scientific di trarre profitto dalla linea cellulare HeLa trascurando di risarcire la famiglia o di chiedere la loro approvazione. I termini dell’accordo sono stati mantenuti riservati.   In una dichiarazione congiunta, Thermo Fisher Scientific e il team legale della famiglia Lacks hanno annunciato l’accordo e hanno indicato che non offriranno ulteriori commenti in merito. Gli esperti legali prevedono che questo caso potrebbe costituire un precedente per future azioni legali volte ad affrontare le complessità della bioetica e dei diritti di proprietà intellettuale.   L’avvocato della famiglia, Chris Ayers, ha accennato alla possibilità di azioni legali simili in futuro, evidenziando le mosse per ritenere le società responsabili per aver tratto profitto da controversie storiche ed etiche.   Le cellule HeLa, che sono state utilizzate in oltre 110.000 pubblicazioni scientifiche, hanno fornito ai ricercatori gli strumenti per comprendere meglio le malattie e sviluppare trattamenti salvavita. Tuttavia, questo trionfo scientifico ha anche suscitato discussioni sulla necessità di trasparenza, consenso informato ed equo compenso nel campo della ricerca medica.     Michael Cook       Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.           Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia      
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Vescovo rimosso per non aver ceduto all’idolatria del vaccino

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Renovatio 21 riprende dal sito di Aldo Maria Valli Duc in Altum questo articolo del dottor Paolo Gulisano.

 

 

In una Chiesa in cui l’eresia sta dilagando tra i pastori, può capitare che un bravo vescovo, fedele alla dottrina della Chiesa e sostenitore del diritto alla vita, subisca la rimozione dalla sua carica da parte di Roma.

 

Cos’ha fatto di male? Ha forse messo in discussione il celibato dei sacerdoti? Ha benedetto coppie gay? Ha detto che non sappiamo cosa abbia in realtà detto Gesù perché ai suoi tempi non c’erano registrazioni?

 

No di certo. La sua colpa è stata quella di non aver appoggiato, negli scorsi due anni, la campagna vaccinale COVID.

 

Il sito pro life americano LifeSiteNews, che ha seguito attentamente la vicenda, anche perché il vescovo in questione è un grande difensore della vita umana, ne ha raccontato nei giorni scorsi la storia.

 

I fatti vedono come protagonista monsignor Daniel Fernández Torres, portoricano, allontanato dalla sua diocesi di Arecibo.

 

La decisione di Bergoglio di rimuoverlo improvvisamente dalla guida della sua diocesi sarebbe stata dovuta in gran parte alla difesa da parte del vescovo delle obiezioni di coscienza nei confronti dei vaccini.

 

Il delegato apostolico di Porto Rico (uno Stato di fatto associato agi Stati Uniti, una sorta di protettorato) ne ha chiesto le dimissioni dopo che il vescovo Fernández Torres si è rifiutato di firmare una lettera emessa dalla conferenza episcopale dell’isola che annunciava un severo obbligo di vaccinazione per sacerdoti e dipendenti delle diocesi.

 

La lettera imponeva anche che all’interno delle chiese ci fosse, durante le Messe, una divisione tra fedeli vaccinati e non vaccinati, una vera e propria segregazione di questi ultimi. Questa lettera era nelle intenzioni dell’episcopato portoricano una decisa e pronta risposta alla sollecitazione venuta dal Vaticano, secondo la quale vaccinarsi sarebbe un «dovere morale», il celebre «atto d’amore» di cui ha parlato Bergoglio.

 

Giorni prima il vescovo Fernández Torres aveva rilasciato una dichiarazione in cui difendeva il diritto di rifiutare la vaccinazione sulla base della coscienza e insisteva sul fatto che «è possibile per un fedele cattolico fare obiezione di coscienza alla presunta natura obbligatoria del vaccino COVID-19».

 

La sua lettera rifletteva le posizioni di numerosi altri presuli e la stessa nota dottrinale del Vaticano sui vaccini COVID, in cui si afferma che «la vaccinazione non è, di regola, un obbligo morale e che, quindi, deve essere volontaria».

 

Il suo sostegno ai diritti di coscienza trovava fondamento anche nel fatto che tutti i vaccini COVID approvati per l’uso negli Stati Uniti erano stati sviluppati o testati con linee cellulari derivate da bambini abortiti.

 

Quella che era una legittima richiesta di tutelare la libertà di coscienza è però sembrata una grave «insubordinazione» al papa, ed è diventata il pretesto per far fuori il vescovo non allineato.

 

Sembra da alcune fonti, riportate da LifeSiteNews, che il più attivo tra i confratelli nell’episcopato a chiedere la testa del vescovo di Arecibo sia stato l’arcivescovo González Nieves, noto per le sue posizioni ultra-progressiste in materia morale e apertamente pro LGBTQI.

 

L’arcivescovo chiamò in suo supporto il cardinale di Chicago Cupich, anch’egli noto per le sue posizioni alla tedesca, chiedendogli una sorta di «visita apostolica» per poi riferire autorevolmente a chi di dovere su quel vescovo «no vax».

 

Il risultato non si fece attendere: monsignor Torres fu immediatamente e immotivatamente rimosso, e al suo posto venne insediato da Bergoglio monsignor Alberto Arturo Figueroa Morales, fino a quel momento vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Juan, nonché braccio destro di González Nieves.

 

Il vescovo Torres ha rotto mesi di silenzio con una dichiarazione di qualche giorno fa. «Sento ancora la stessa perplessità che ho provato quando mi è stato chiesto improvvisamente di dimettermi e quando, in modo frettoloso, è stata eseguita la rimozione», ha scritto in una lettera indirizzata a «tutti coloro che mi hanno accompagnato spiritualmente».

 

«Dopo un anno, ribadisco esattamente le stesse parole della dichiarazione pubblica che ho fatto il 9 marzo 2022», ha aggiunto. Nella sua dichiarazione del marzo 2022 il vescovo di Arecibo ha denunciato l’allontanamento da parte di papa Francesco definendolo «un’azione totalmente ingiusta».

 

«Nessun processo è stato fatto contro di me – disse allora – né sono stato formalmente accusato di nulla, ma semplicemente un giorno il delegato apostolico mi ha comunicato verbalmente che Roma mi chiedeva le dimissioni».

 

«Sono stato informato che non avevo commesso alcun crimine ma che presumibilmente non ero stato obbediente al papa né ero stato in sufficiente comunione con i miei fratelli vescovi di Porto Rico», ha spiegato ancora il presule.

 

In effetti, in alcune sue dichiarazioni l’arcivescovo Roberto González Nieves di San Juan aveva affermato che il vescovo Fernández Torres era stato rimosso per presunta “insubordinazione al Papa” ma senza alcuna accusa formale.

 

In realtà non c’è traccia di disobbedienza all’autorità del Sommo Pontefice. Forse di monsignor Torres dava fastidio che il suo seminario fosse fiorente di vocazioni, e che la sua diocesi fosse ricca di iniziative di apostolato con grande beneficio per i fedeli. In seguito al suo licenziamento ci sono state petizioni, raccolte di migliaia di firme, ma Roma non ha riservato loro alcun segno di attenzione.

 

La lettera del vescovo sottolinea il suo dolore per essere stato deposto dalla propria sede, ma esorta i cattolici oltraggiati dagli scandali nella Chiesa a «pregare e avere fiducia».

 

«Quando sono entrato in seminario nel 1990, l’ho fatto pieno di speranza e convinto che Dio mi avesse chiamato a servire la Chiesa per il resto della mia vita».

 

Fernández Torres è stato per anni l’unico prelato cattolico dell’isola che si è battuto regolarmente per la vita, la famiglia e la libertà religiosa, un punto di riferimento morale per l’intero Paese. «Grazie ai lui è stata raggiunta un’unità di intenti per la protezione della vita umana, della famiglia naturale e dei diritti umani fondamentali dell’essere umano», ha detto la senatrice Joanne Rodríguez Veve.

 

Monsignor Hector Aguer, arcivescovo emerito di La Plata (Argentina), in un duro comunicato di denuncia sulla rimozione, definisce Torres «un uomo di Dio, fedele alla grande Tradizione ecclesiale». Evidentemente, essere tale non è bastato. O forse è diventata una colpa.

 

La presunta insubordinazione alle direttive del Jefe Máximo, per non aver prestato culto a una nuova forma di idolatria, gli è costata cara.

 

 

Paolo Gulisano

 

 

 

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